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Gli scacchi del dottor Kuz’menko

di Franco Damico - 20/09/2006

 

 

“Il dottor Kuz’menko rovesciò i pezzi sul tavolo”.

Siamo in uno degli ultimi Racconti di Kolyma di Varlam Šalamov.
E questi sono piccoli scacchi di pasta di pane, ispirati all’Epoca dei Torbidi. La fattura finissima non tradisce che furono intagliati con mezzi di fortuna e in circostanze sciagurate dallo scultore Kulagin, prigione delle Butyrki, 1937.


“Tutti i detenuti della sua cella hanno masticato per ore e ore il pane che gli serviva. La cosa fondamentale qui era cogliere il momento esatto in cui la saliva e il pane masticato arrivavano a una specie di punto di fusione irripetibile. Solo il maestro stesso poteva decidere e aveva fortuna se riusciva a far uscire dalla bocca una pasta adatta ad assumere qualsiasi forma sotto le sue dita e poi indurire per l’eternità, come il cemento delle piramidi egizie”.

 

Questi scacchi hanno seguito Kulagin in tutti i suoi trasferimenti, sono sopravvissuti alle disinfestazioni, alla rapacità dei malavitosi, ai rovesci del caso.Sono sopravvissuti allo stesso Kulagin, ucciso dalla fame come tanti prima e dopo di lui. Ormai prossimo alla fine, in un accesso di demenza, tentò di divorarli. Gli furono sottratti. Riuscì solo a inghiottire una delle torri bianche e la testa mozzata della regina nera.


C’è un punto in cui il deperimento causato dall’inedia diventa irreversibile.
Avrebbe dovuto incominciare a mangiare le piccole figure di pane qualche mese prima. Lo avrebbero salvato dalla morte. Così il dottor Kuz’menko.


Ma questa ovviamente è solo la declinazione scientistica dell’apologo. Gli scacchi di Kulagin non erano e non sono uno strumento di salvezza. Non è nella loro natura.
Frutto di un inganno della fame, prodotto dell’incontro fra le secrezioni del bisogno e la materia del suo soddisfacimento, essi tracciano un limite. Sono anzi quel limite, cristallizzato in immagine ostensibile.
Un punto di fusione. Il simbolo di una coappartenenza che non può essere ridotta.
Un’altra cosa.
Sarebbe improprio definirli ancora figure di pane. Del pane hanno perduto per sempre l’innocenza e le virtù alimentari, e se una chimica meno ingenua si applicasse alla loro composizione, scoprirebbe che la fame stessa non vi ha parte inferiore né per quantità né per qualità, ma che il suo enzimatico lavorìo, se ha in un certo senso pervertito la materia, l’ha nel contempo rivelata.


Come il cemento delle piramidi egizie. La similitudine scivola sulla lingua del dottor Kuz’menko che non se ne avvede. Si tratta ancora di pane? Si tratta ancora di vita?
Ed è così di tutte le opere d’arte: esse non salvano nessuno, né il loro artefice né gli altri.
E dunque? Dunque sono lì, nel loro disagio testimoniale. Irriducibili alla trasparenza dei loro elementi costitutivi e tragicamente inassimilabili come gli scacchi di Kulagin, danno corpo alla frattura originaria con cui l’essere viene alla presenza, direbbe il filosofo.
Non siamo lontani dalla verità. Anzi, lo siamo. Appunto.