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Bisogna educare i giovani al sacrificio

di Francesco Lamendola - 25/01/2019

Bisogna educare i giovani al sacrificio

Fonte: Accademia nuova Italia

I giovani vanno educati a diventare autonomi, e quindi a sviluppare il senso di responsabilità; su questo, almeno in teoria, siamo tutti d’accordo; ma come? A noi pare che la via maestra sia quella dei nostri nonni, oggi totalmente negletta e perfino calunniata: quella del sacrificio. Se il bambino non viene abituato a fare, e ad accettare, qualche sacrificio, non diverrà mai adulto; se il ragazzo non impara a saper rinunciare a qualcosa, anche a qualcosa che per lui è importante, non saprà mai padroneggiare se stesso, i suoi impulsi, e non porrà mai un limite alle sue aspettative, anche le più irrealistiche e peregrine.  

Eppure, vediamo ogni giorno – gli insegnanti ne sanno qualcosa – che i genitori, oggi, non solo non insegnano ai loro figli la via del sacrificio, ma fanno di tutto per eliminarne la nozione, oltre alla pratica; si precipitano in loro soccorso quando serve e anche quando non serve; sono iperprotettivi, li coccolano, li vezzeggiano, li difendono quando non sono difendibili, li scusano quando non sono scusabili; e, così facendo, li incoraggiano a essere sempre più irresponsabili, sempre più viziati e sempre più immaturi. Poi il bambino diventa un adolescente, quindi un giovanotto o una signorina: ma la sua maturità resta quella di un bambino di cinque anni. Si infuria o si dispera davanti a un rifiuto; pretende e s’immagina che tutto gli sia dovuto; non sa accettare le sconfitte, non sa darsi pace per un no, che vive come un attentato alla sua integrità di persona. E non lo sfiora la mente che, se lo vive come tale, ciò è perché lui stesso non sa porsi nella giusta prospettiva; al contrario, ritiene che la colpa sia sempre e solo degli altri. Se prende un brutto voto a scuola, la colpa è del professore, che ce l’ha con lui; potendo, vorrebbe picchiarlo; se la ragazza lo molla, la colpa è di quella stupida puttana, che lo ha preso in giro, e alla quale vorrebbe torcere il collo. Non è mai colpa sua: né per non aver studiato, nel primo caso, né per essersi comportato male in ambito affettivo, nel secondo. E se nella vita diventa un fallito, se non combina niente di buono, se non è riuscito a laurearsi, né a trovarsi o a conservarsi un posto di lavoro, la colpa è dei suoi genitori che non lo hanno capito, che non lo hanno aiutato, che non gli hanno insegnato, nella maniera giusta, ciò che un padre e una madre devono insegnare ai propri figli. E in quest’ultima accusa, sovente, c’è molto di vero; non, però, nel senso che s’immagina il bamboccione lagnoso e vittimista, ma tutto il contrario: la loro colpa, infatti, è stata quella di averlo accontentato troppo, di avergli spianato eccessivamente la strada: di aver eliminato il sacrificio dal loro piano educativo. Ora, educare i figli, e i giovani in generale, senza insegnar loro a saper fare dei sacrifici, è come pretendere di pescare i pesci in un ghiacciaio, o magari in un deserto di sabbia. I pesci si trovano, e perciò si pescano, nei fiumi, nei laghi e in riva al mare; e i bambini si educano anche mediante il sacrificio, oppure non si educano affatto.

La vita è fatta di sacrifici: sono semplicemente inevitabili. Non si può avere tutto, e non si possono avere le cose senza attesa e senza dover rinunciare ad alcune di esse. Ciò significa imparare a scegliere. Non tutte le cose sono ugualmente buone, anche se molte sono desiderabili e, in parecchi casi, sono alla nostra portata. Bisogna imparare che non tutto ciò che è raggiungibile, deve essere afferrato; che è giusto porsi dei limiti, saper attendere, saper distinguere. Questo introduce il secondo aspetto della questione: il sacrificio volontario. Ad alcune cose bisogna saper rinunciare, perché non sono raggiungibili; ad altre bisogna saper rinunciare perché, pur essendo raggiungibili,  non sono buone, benché si presentino sotto una luce invitante. Bisogna perciò coltivare sia la capacità di discernimento, sia la temperanza, sia la volontà. Il discernimento serve a riconoscere le cose buone da quelle che sembrano solamente tali, ma non lo sono; la temperanza serve a dominare gli istinti, gli impulsi, i desideri, alla luce della ragione e dei valori morali; la volontà è lo strumento per saper rinunciare a ciò che non è raggiungibile, o che non è buono, e a saper perseverare nella ricerca di ciò che è raggiungibile ed è effettivamente buono. La persona responsabile, infatti, è realista, perché non scambia le chimere per delle possibilità effettive, sprecando inutilmente le proprie energie, ma anche idealista, almeno quanto basta per non scambiare l’esistente per la sola realtà possibile. È anche, e soprattutto, una persona che sa scegliere, cioè che non pretende tutto e subito, ma vuole una cosa e rinuncia al suo contrario; e che sa rendere conto del perché ha scelto in quel modo piuttosto che in un altro. La persona irresponsabile è quella che non sa scegliere e che non sa spiegare, in maniera razionale, perché abbia fatto una certa cosa invece di un’altra. Non si creda che scegliere sia facile: è difficile, invece; per l’uomo moderno, poi, da Amleto in poi, è quasi impossibile. E se non è facile, non lo è specialmente per il bambino, il quale propriamente non sceglie, ma si attiene (o trasgredisce) a ciò che gli viene detto di fare dagli adulti. Mano a mano che esce dall’infanzia, il pre-adolescente deve essere abitato a operare delle scelte autonome: in particolare, deve imparare a capire da solo cosa è bene e cosa è male, e a regolarsi di conseguenza. La scelta ha sempre un carattere doloroso, perché equivale a un distacco e a una rinuncia nei confronti delle possibilità alle quali si rinuncia, pur se appaiono desiderabili; e infatti le persone immature sono precisamente quelle che vorrebbero avere e questo quello, senza assumersi la responsabilità di dir sì a una cosa e no, di conseguenza, alla cosa che diviene incompatibile con la prima. Proprio per questo bisogna che gli adulti, e prima di tutto i genitori, accompagnino i bambini sulla via della scelta, ossia della capacità di prendere una decisione e di assumersene tutta la responsabilità, conseguenze comprese.

Scriveva Vérine, pseudonimo di un’autrice, studiosa di psicologia e pedagogia votata alla modestia, che non siamo riusciti a identificare con maggior precisione e che pare totalmente dimenticata, nel libro, oggi introvabile, I dieci comandamenti dei genitori (titolo originale: Les 10 commandaments des parents, Editions Bloud & Gail, 1954; traduzione dal francese di M. Romana, Roma, Edizioni Paoline, collana Psychologica, vol. 18, 1962, pp. 29-32):

 

Fino alla pubertà tutto è apprendimento: la lotta contro le cattive tendenze, i primi dolori, il sacrificio, la scelta. Non s’immagina quale sforzo richieda la scelta tra il bene e il male od anche tra il bene e il mediocre, tra i minori di dieci anni, Quegli a cui direte: “Scegli, sei libero di fare questo o di non farlo”, farà una faccia inquieta e potrà rispondervi: “No, scegli tu per me”. Il desiderio del ritorno all’obbedienza passiva è un caso frequente.  Ogni dramma delle vite umane ed ogni loro grandezza comincia dalla scelta. Di qui la necessità di informare il fanciullo del suo destino, di fargli comprendere che NON SI OBBEDISCE SEMPRE E TUTTA LA VITA, ma in maniera diversa dopo raggiunta l’età della ragione (cioè l’età che molti adulti non raggiungono mai), e che perciò è preferibile abituarsi ad obbedire liberamente: prima, per averne il merito; poi, per scoprire più tardi nell’obbedienza interiore e attiva, quella bellezza, calma e semplice, quella dipendenza libera, amante, viva, che riempie l’anima di gioia. Questi ragionamenti sono sempre ben compresi dai fanciulli di undici o dodici anni a condizione che siano brevi, aprano il varco all’emozione creatrice e non cadano né nelle “prediche” né in un verbalismo sentenzioso e pesante.

Il fanciullo deve conoscere presto l’esistenza del sacrificio, perché spesso lo incontrerà nel corso della vita. Voler evitare ai fanciulli ogni pena sia pure lieve, è un’assurdità, è un prepararli alle delusioni più crudeli.

È necessario però associare al sacrificio non l’idea di piacere – il che sarebbe falso – ma l’idea di VITTORIA; perché il fanciullo anche nei suoi sforzi più faticosi, serbi la gioia esuberante di vivere, suo bisogno fondamentale.

Appena possibile si utilizzi l’istinto combattivo, innato in lui, per incanalarlo, sublimarlo. Si festeggino i bei trionfi riportati su quei terribili nemici che sono le cattive tendenze. “Un ragazzo normale -, dice Baden Powell – è vibrante di risa, di lotta, di appetiti, di audacie, di chiasso, di agitazione”. Utilizziamo tutto ciò nella guerra fresca e gioiosa che finirà soltanto con noi.

Siccome il fanciullo è naturalmente eroico e coraggioso, sarà afferrato dal combattimento spirituale e le virtù che vi acquisterà non saranno esangui e inconsistenti, ma vive, dinamiche, conquistatrici.

Diamo importanza all’entità della vittoria raggiunta, compensiamola; e, per stimolare l’emulazione dei fratelli e delle sorelle, estendiamo ad essi il beneficio della ricompensa accordata al protagonista; che tutti siano contenti e si augurino a loro volta di vincersi,  di riuscire, per dare ad altri felicità.

In certe scuole “per un successo ottenuto dei migliori allievi, si accorda libertà a tutta la classe”. Perché non applicare in famiglia questo metodo, che dà eccellenti risultati nelle scuole? Si eviterebbero lo scoglio della gelosia e i pericoli dell’emulazione, ché “se quest’ultima è buona come metodo scolastico, come mezzo per suscitare la corsa ai primi posti e per assicurare il livello intellettuale della classe, la riteniamo sconsigliabile dal punto di vista dell’educazione e della coscienza” (Ph. Ponsard).

Indispensabile dunque trovare un mezzo per cui la pedagogia intellettuale e quella morale non si contrappongano più, affinché l’emulazione, più dell’intelligenza, esalti il carattere; e la vita possa un giorno essere considerata un aiuto reciproco e non sempre una lotta; aspra lotta per cui si rischia di far sorgere numerose generazioni di arrivisti e di ambiziosi senza scrupoli per i quali il fine giustifica i mezzi.

Privilegiati quelli che nel loro compito educativo hanno il sostegno di una leva potente: la religione. Per facilitare la buona formazione dei figli diamo loro una fede attiva che non sia una semplice formula vuota di senso e d’anima; una fede confidente, larga, sicura, una fede che sia “atto, presenza, impegno” (Lhernitte).

 

In questa pagina di prosa, piena di buon senso educativo e perciò, oggi, più che mai politicamente scorretta e che nessuno studente di pedagogia potrebbe inserire in una tesi di laurea, o in una qualsiasi ricerca, senza vedersi imporre dal suo professore, quanto meno, tagli e aggiustamenti tali da stravolgerne completamente il significato, il nocciolo si trova nell’affermazione che il fanciullo è naturalmente eroico e coraggioso. La condividiamo in pieno; il bambino non è quella tenera e inerme creatura che certi adulti s’immaginano; è pugnace, energico e capace di slanci generosi che lo portano a fare dono di sé e ad affrontare rinunce e sacrifici. L’adulto deve solo organizzare, convogliare, educare questa generosità naturale. Attenzione: non stiamo dicendo, come Rousseau, che il bambino è fondamentalmente buono; questa è un’affermazione profondamente diversa, che noi troviamo profondamente sbagliata. Nel bambino ci sono tutto il bene e anche tutto il male possibili, allo stato potenziale e latente; compito dell’educazione è precisamente di sviluppare in lui il bene e di inibire il male. Ma che egli sia naturalmente generoso, fino all’eroismo; che sia, cioè, portato a degli slanci che raramente si trovano negli adulti, sulla base dell’entusiasmo e, non di rado, del puro e semplice affetto verso qualcuno o qualcosa, questo a noi sembra innegabile. Perciò, per favore, smettiamola di riversare sulla società cattiva la colpa di tutto ciò che il bambino non riesce a fare. La pedagogia contemporanea, ostaggio delle idee di don Milani, fa leva precisamente su questa falsa verità: che ad impedire lo sviluppo felice del bambino siano, per definizione, le condizioni sociali; e che una volta rimossi gli ostacoli posti dalla società, il bambino non potrà che sbocciare felicemente. Niente affatto. La cosa più importante è insegnare al bambino la distinzione fra il bene e il male; e fargli capire che il bene e il male non sono solo fuori di noi, nelle condizioni sociali, ma innanzitutto dentro di noi, se non altro allo stato potenziale. La scuola di don Milani educa il bambino ad essere rivendicativo nei confronti della società; prepara degli adulti polemici, scontenti, contestatori, sempre in urto con chi svolge funzioni dirigenti, vedendo in lui un “nemico di classe”. La scuola delineata nella presente riflessione vede nel bambino un’anima che deve essere educata al bene, anche mediante la via del sacrificio, in modo da sviluppare la propria generosità naturale: perché siamo profondamente convinti, e lo siamo sempre stati, che per cambiare il mondo, possibilmente in meglio, bisogna anzitutto cambiare se stessi. Pensare che il mondo sarà migliore quando saranno mutate le condizioni sociali, ma lasciando gli esseri umani così come sono, immersi nella loro pigrizia, nel loro egoismo e abituati a fuggire le loro responsabilità, è palesemente una pericolosa illusione. D’altra parte l’uomo non ha in sé la forza di eliminare le proprie debolezze e volere il bene. Il solo che può dargliela è Gesù Cristo: perciò deve pregarlo umilmente di riceverla...