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La filosofia nell’èra del sospetto

di Francesco Lamendola - 12/02/2019

La filosofia nell’èra del sospetto

Fonte: Accademia nuova Italia

Viviamo nell’era del sospetto, o, se si preferisce, nell’era del post-sospetto, vale a dire del sospetto relativo al sospetto; alla quale seguirà, senza dubbio, un’era del post-post-sospetto, cioè del sospetto relativo al sospetto del sospetto; e così via. Sì, perché uno dei tratti distintivi della tarda modernità è, senza dubbio, l’originalità: una originalità così grande che si esaurisce nel mettere l’etichetta post alla fine di ogni sostantivo, ad infinitum, come in un gioco interminabile di scatole cinesi, o magari di matrjoske. Tuttavia, per non proceder troppo chiuso, come direbbe Dante, proviamo a rendere il discorso più semplice facendo un esempio pratico. L’èra del sospetto è caratterizzata dal fatto che tutto, ma proprio tutto, viene sospettato di non essere così come appare; di essere in tutt’altra maniera; il più delle volte, di essere letteralmente l’opposto di quel che sembra. Dunque, se una cosa appare buona, bisogna sospettare, come minimo, che sia mediocre, meglio ancora pensare che sia cattiva, anzi addirittura pessima; e se una cosa pare giusta, che sia ingiusta; e se vera, che sia falsa; e, naturalmente, viceversa. Questo, è ovvio, e apre la porta al teorema degli specchi: se il vero è falso, ma anche il falso è vero, allora le due verità si elidono e ci resta in mano un bel nulla, zero virgola zero, il nichilismo allo stato puro. Fine del gioco, allora? Eh, no di certo: altrimenti cosa resterebbe da fare ai nobili pensatori della tarda modernità? Potrebbero andare tutti quanti in pensione; ma sai che noia. E allora, ecco la soluzione: se il vero è, in realtà falso, ma per la stessa ragione anche il falso è vero, bisogna sospettare che un diavoletto maligno, come diceva Cartesio, ci abbia messo lo zampino, al preciso scopo di confonderci le idee (si vede che anche i diavoli, nella tarda modernità, non sanno più cosa inventarsi per ammazzare la noia); e che, per le leggi della rifrazione, il vero che sembrava vero, ma che in realtà era falso, e che quindi, sembrando falso, era in realtà vero, non era quel che sembrava neppure al secondo capovolgimento: bisogna pensare che è davvero falso, perché tutto, nell’era del sospetto, non è come sembra, e se fosse come sembra, sia pure dopo aver capovolto l’immagine di sé, come avviene nella retina dell’occhio, la cosa sarebbe davvero troppo semplice, perfino banale; mentre gli uomini contemporanei sono particolarmente lusingati - anche se, a parole, se ne lamentano – dal fatto di vivere in un modo straordinariamente complesso e, sovente, ambiguo. Se riescono a vivere in un mondo così complesso, infatti, vuol dire che sono particolarmente bravi: i problemi quotidiani coi quali hanno a che fare non si possono mica paragonare a quelli semplici, elementari, dei loro nonni: loro leggono l’Ulisse di Joyce, quelli si limitavano ai Promessi Sposi di Manzoni: già da questo si capisce la differenza. Loro, quindi, hanno superato le banalità del romanzo ottocentesco, navigano nei vasti oceani dell’antiromanzo; si son lasciati alle spalle le banalità dell’arte bella, loro si misurano virilmente con le sfide dell’arte brutta; loro non si contentano più della filosofia dell’essere, cioè della metafisica, sono proiettati verso le meraviglie del pensiero debole, del relativismo eretto a sistema, del soggettivismo ridotto a sensismo. In breve, loro sono uomini del tempo presente, ben provvisti di materialismo dialettico, psicanalisi e genealogia della morale: hanno fatto una scorpacciata di Marx, Nietzsche e Freud e, dall’alto di tanto sapere, possono ben guardare dall’alto in basso il rozzo e infantile pseudo sapere dei loro progenitori, gente che si contentava – figuratevi un po’! - di Dante, di san Tommaso d’Aquino e di Aristotele.

Forti di una tale provvigione, gli uomini contemporanei, e specialmente quel particolare tipo antropologico che va sotto il nome d’intellettuale, e che nessuno ha capito bene in cosa si distingua da un qualsiasi cialtrone che le spara grosse ora su questo e ora su quello, solo perché ha una bocca per parlare e soprattutto un microfono davanti alla bocca, e una telecamera che lo riprende e che distribuisce i suoi sproloqui sui teleschermi dei comuni mortali, non hanno alcun dubbio sul fatto che la sola cosa sensata, a questo mondo, è sospettare di tutte le certezze, tranne la diffidenza sistematica verso ogni certezza altrui; rifiutare qualsiasi verità, se non un sovrano disprezzo, una congenita avversione contro l’idea stessa di verità. Costoro, dunque, sono puramente e semplicemente dei parassiti sociali, nel senso più specifico e pregnante del termine: infatti non producono alcunché, ma si limitano a consumare, e quindi a distruggere, quel che producono altri. A questa poco simpatica e poco invidiabile caratteristica, poi, ne aggiungono un’altra: la presunzione particolarmente fastidiosa di chi, non sapendo nulla, crede però d’aver capito tutto: dove quel “tutto” sarebbe la ferma convinzione che non c’è nulla da capire, o, il che è lo stesso, che nulla può essere compreso. In altre parole, e per adoperare un’immagine evangelica, loro non entrano, non vogliono o non sono capaci di entrare nella casa della verità; però non sopportano che altri lo facciano, o almeno ci provino: e dispiegano tutto il loro zelo missionario, tutto il loro encomiabile filantropismo, tutta la loro brillantissima intelligenza, per ridicolizzare, banalizzare e  sminuire qualsiasi tentativo un quel senso, per non parlare poi di eventuali risultati positivi. Per definizione, secondo loro, noi viviamo in un mondo privo di ordine, quindi anche privo di senso: che c’è da capire, allora, se non prendersi il gusto di fare le pulci a tutti quei sempliciotti, a tutti quegli ingenui, a tutti quei fideisti che vorrebbero capire? Quale sport più bello di questo, quale passatempo più incantevole, che puntare l’occhialino su costoro, come fanno le dame a teatro, e soffermarsi sui difetti, sugli insuccessi, sui fallimenti di quei poveri sciocchi che ancora parlano della verità, e ne vanno perfino in cerca, come se la verità esistesse o come se fosse accessibile all’uomo moderno, così smaliziato, così edotto nelle arti del sospetto, così terribilmente filologo sino in fondo all’anima? Qualsiasi cosa possano dire quei poveri cercatori della verità, che poi sarebbero i filosofi (quelli veri, quelli di sempre), i nostri intellettuali politicamente corretti la bloccano subito, mostrando loro l’assoluta fragilità, per non dire l’inconsistenza, delle fonti storiche e metodologiche sulle quali hanno formulato i loro giudizi. Partendo dal linguaggio, i professionisti del sospetto decostruiscono qualunque proposizione, mostrano che qualunque proposizione è priva di senso nel momento in cui vuole applicarsi a delle verità generali, e così liquidano con un sorrisetto e con una battuta gli sforzi ciclopici e coraggiosi dei veri filosofi.

Ma loro, non sono dei filosofi? Certo che no. Un filosofo è, per definizione, un metafisico: uno che cerca l’intero, non il molteplice; e, per trovare l’intero, bisogna andare oltre l’apparenza, oltre la dimensione fisica. In effetti, il filosofo è un tipo umano scomparso da almeno un paio di secoli: quelli che vanno ancora sotto questo nome, in realtà lo usurpano, perché non solo non cercano l’intero, ma negano che sia possibile anche solo immaginarlo. E che cosa sono, allora, i signori del sospetto? Sono dei philosophes, cosa ben diversa dai filosofi; in sostanza, si tratta dell’ultima versione, aggiornata e rivista in chiave moderna, di una professione antichissima: quella dei sofisti. La principale differenza fra i moderni intellettuali e gli antichi sofisti è che quelli si limitavano ad insegnare, sì, ma senza alcuna pretesa di avere una propria filosofia; questi, invece, non solo ritengono di averla, e sia pure una radicale anti-filosofia, cioè una radicale anti-metafisica, cioè un materialismo e un relativismo assoluti, ma si sentono pure investiti della sacra missione di diffonderla in tutto il mondo, come il verbo di salvezza senza il quale non vi sono che le tenebre della più abietta ignoranza e la più medievale superstizione. Inutile dire che questa loro “filosofia” si riduce a tre punti essenziali, tutti di segno negativo: nulla ha prodotto il genere umano, se non per la dialettica della lotta di classe (materialismo storico); bisogna diffidare di tutti i buoni sentimenti, perché nascono dalla morale del gregge e dal risentimento dei deboli contro i forti e gli audaci (genealogia nietzschiana); ciascun essere umano avrebbe l’istinto di scopare sua madre e ammazzare suo padre (o, nel caso delle donne, farsi scopare dal padre e ammazzare la madre), cosa che per ragioni pratiche è meglio evitare, quindi sono tutti condannati all’inferno della nevrosi, nel quale ciascuno si arrabatta come può. Naturalmente quei signori, che sono intellettuali assai colti e raffinati, non la mettono giù così dura, però è precisamente questo che hanno in mente ed è questo il “sapere” che li fa sentire tre spanne al di sopra dei comuni mortali, immersi nell’ignoranza o, peggio, nell’ipocrisia; e se avessero appena un po’ di fegato e meno timore di farsi delle inimicizie e giocarsi qualche comodità, lo ammetterebbero anche loro. Che dire o che fare, allora, di fronte a un sistema del sospetto così ramificato e così sofisticato che nulla può sfuggire al suo occhio di Grande Fratello, neppure le pieghe più riposte dell’inconscio? Vediamo.

La prima cosa da fare, sul piano psicologico ed esistenziale, è fregarsene altamente dei moderni sofisti e lasciarli cuocere nel loro brodo. Inutile discutere con essi: non sono in buona fede; non cercherebbero di ragionare con voi, punterebbero solo a farvi sentire degli stupidi se solo osaste affermare che la verità, dopotutto, esiste, e che il vero sapere è puntare ad essa, non alla sua negazione. E probabilmente ci riuscirebbero, perché sono dotati di formidabili mezzi dialettici, senza contare il vantaggio di chi, non mirando alla verità, ma solo a individuare il punto debole dell’interlocutore, per poi farlo cadere in contraddizione; per cui finireste per sentirvi davvero degli sciocchi, solo perché la verità non può essere interamente esperita per mezzo della ragione logico-matematica, pur se è possibile darne una discreta definizione: adaequatio rei et intellectus, cioè corrispondenza fra la cosa e il giudizio. Lasciamo i sofisti ai loro sofismi; i sospettosi ai loro sospetti; i degenerati, gli anormali, i nevrotici, i falliti, i rancorosi, i biliosi, quelli che hanno la denuncia facile (perché state certi che vi faranno querela, se li seccate spezzando una lancia a favore della verità), i narcisisti, gli egoisti e gli egoici, ai loro fantasmi e alle loro allucinazioni: aria, aria pura, aria fresca! Lasciamoli nei loro salotti televisivi, nei loro premi letterari, nelle loro tavole rotonde culturali, nelle loro cattedre universitarie, nelle redazioni dei loro giornali, dove imperversano senza contraddittorio, perché chi si muove nel politicamente corretto non deve temere mai smentite, obiezioni e altri fastidi del genere: ama parlare e scrivere in regime di monopolio, anche se a parole è per il pluralismo e il dialogo con tutti (quelli che gli danno ragione). E così pure lasciamo  perdere tutte quelle persone, e sono legione, cresciute alla medesima scuola, e che pur non avendo letto, né studiato, né cercato, né ascoltato, né meditato, pretendono di saper tutto e aprono bocca solo per denunciare la pagliuzza nell’occhio del prossimo e per correggere gli errori degli altri, veri o supposti che siano. Sono anime perse: neppure se la verità suonasse alla loro porta, essi la riconoscerebbero, tanto sono accecati dall’orgoglio e dalla presunzione.

La seconda cosa da fare è diffidare e sospettare di se stessi: ma di un sospetto sano, onesto, pulito; non di una sospettosità malata e distruttiva. E dopo essersi esaminati lealmente, senza finzioni, deponendo ogni maschera, raccogliere se stessi e andare avanti, rassicurati una volta per tutte che non vi sono furbizie o espedienti o secondi fini nel proprio cercare, ma una coscienza limpida, che si è sottoposta alla prova e non intende trascorrere il resto della propria vita sul lettino dello psicanalista, per sapere se quel che pensa è vero o no, se i suoi sentimenti sono sinceri o no, se i suoi scopi sono quelli dichiarati o sono altri. Noi abbiamo bisogno di fidarci di noi stessi; e, per farlo, dobbiamo vagliarci, severamente, come faremmo con uno strumento necessario, del quale dobbiamo sapere se si può contare su di esso; ma dopo esserci vagliati, dobbiamo imparare a volerci bene e a fare affidamento sul nostro giudizio. Il modello negativo è Amleto, col suo essere o non essere: dubbio sterile, distruttivo, dal quale un uomo non può che uscire fiaccato, paralizzato, svirilizzato. Il complesso di Amleto, che poi è il complesso di Edipo, è la camicia di forza nella quale le energie migliori si isteriliscono e si spengono: e chi se ne lascia dominare, muore già in vita e seguita a condurre una vita da cadavere, senza saper di essere un fantasma.

La terza cosa da fare, e la più importante, è confidare in Dio. Fare filosofia è cercare la verità delle cose; ma la verità delle cose non si mostra allo sguardo arrogante e superbo, ma solo allo sguardo che si lascia guardare dallo sguardo di Dio. Tutta l’intelligenza di questo mondo non basterebbe neanche per incominciare il cammino, se non si ponesse, fin dall’inizio, sotto lo sguardo di Dio, per essere guidata e illuminata dall’alto. Fare filosofia è cercare la verità con gli strumenti della ragione; ma la ragione, a sua volta, ha bisogno di essere sostenuta e illuminata: da sola, finisce per impazzire e mordersi la coda, come un cane idrofobo. Tutta la filosofia moderna non è che il delirio di un cane idrofobo che si morde la coda; e così la letteratura, la poesia, il teatro, il cinema, l’arte, la musica, e soprattutto le scienze, psicologia in testa. Nessun disprezzo verso la ragione; al contrario, essa è uno strumento magnifico: ma è solo uno strumento; e, come tale, deve essere usato nella maniera giusta, in base a un principio che le sia superiore. Il dramma della modernità è che la ragione, specialmente nel campo della scienza e della tecnica, corre senza esser guidata dalla Virtù: e dove stia andando, nessuno lo sa. È come un treno impazzito, senza macchinista, che aumenta sempre più la velocità. Per sapere e per decidere dove si vuole andare bisogna chiederlo a Dio, lasciandosi guardare da Lui.