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Napoli è perduta, il degrado l'ha uccisa (intervista a Massimo Fini)

di Massimo Fini e Carlo Passera - 02/11/2006


Massimo Fini, è un tema al quale abbiamo già fatto cenno in passato, perché l’emergenza a Napoli è eterna. Ma che dire di questa nuova escalation di violenza che insanguina la città?
«Col recente delitto del ragazzino (la lite per gelosia nel quale un minorenne ha assassinato un rivale d’amore, ndr) emerge un fatto che peraltro già era presente: la violenza criminale ha dato il mood all’intera città, anche a chi non appartiene al mondo della delinquenza e della camorra. Napoli oggi respira violenza anche al di fuori dell’orbita camorrista, perché vive per intero (o quasi) di un’illegalità diffusa che fa da sostrato alla criminalità vera e propria. Il tutto si innesta su un modo di essere napoletano, anarchico e fantasioso, che andava bene in una società diversa, più semplice; in fondo, era un retaggio borbonico che diventava simpatico folclore e, anzi, sapienza di vita. Oggi però non funziona in realtà complesse come quella della città moderna. La Napoli odierna è figlia di una distruzione che è stata prima ambientale e solo successivamente sociale».
In che senso?
«È dalla distruzione dell’habitat partenopeo - con la cementificazione e la speculazione edilizia - che nasce l’attuale degrado sociale. Lo diceva nel 1977 in “Napoli italiana” Antonio Ghirelli, profondo conoscitore di quella realtà: il disastro ambientale ha mutato antropologicamente i caratteri della città, quella che lui chiama “l’antica gentilezza napoletana” è ormai quasi scomparsa. Se ne trova ormai solo qualche traccia, imprevista e imprevedibile, magari nell’eleganza naturale con la quale un cameriere ti porge il caffè, mostrando una grazia impossibile a Milano. Ma sono residui che fanno da contrasto stridente con tutto quello che sta intorno».
Mi viene in mente anche Francesco Rosi e un suo celeberrimo film, Le mani sulla città... Ne emergeva una realtà tragica, e l’opera è del 1963...
«Certamente. Rosi faceva vedere la speculazione in quanto tale, con la quale peraltro la criminalità si arricchì accumulando i capitali che poi investì nella droga, generando così un ulteriore “salto di qualità”. Ghirelli spiegava come questa cementificazione selvaggia abbia mutato l’indole degli abitanti, la cui guapperia di un tempo è diventata ferocia».
È proprio il degrado ambientale ad aver anticipato, determinandolo, quello sociale e criminale.
«Proprio così, anche perché tale degrado ambientale ha proprio cambiato le condizioni di vita della gente. Sono spariti i “bassi” e l’economia del vicolo, ossia la Napoli umana che certo “si arrangiava”, magari era dedita al contrabbando, ma sopravviveva senza votarsi a una delinquenza feroce e pervasiva. Negli anni Settanta fui a Napoli per un’inchiesta, parlai col questore, mi confidò che facevano solo finta di contrastare i contrabbandieri, ogni tanto sequestravano un motoscafo, ma colpirlo davvero era impossibile perché avrebbe fatto affondare l’economia partenopea. Erano, però, fenomeni di altro tipo rispetto a quelli ai quali assistiamo ora, la criminalità d’allora - io l’ho conosciuta - era molto più bonaria, ironica, scanzonata. Non aveva niente a che vedere con quella attuale. Ecco: la cementificazione ha fatto venir meno l’economia del vicolo; così quartieri come il Traiano o i terrificanti comuni vesuviani, o ancora quel litorale una volta splendido e ormai stuprato hanno generato solo disperazione, che ha portato alla delinquenza, che a sua volta dà ormai forma a tutto».
Nulla si salva?
«Nulla, anche per un altro dato storico: la contiguità tra “Napoli bene” e malavita. È un portato del feudalesimo, durante il quale il signore viveva gomito a gomito col pezzente; ma tale contiguità è stata innocua e innocente - o quasi - fino alle porte della modernità. Ora diventa un intreccio di affari nel quale vengono meno i confini tra le categorie, tutto è accettato, tutto è marcio. Spiace dirlo perché Napoli è stata una grande capitale europea».
Dunque tale dato storico “condanna” la città perché non si concilia con la modernità.
«Esatto, e non è l’unico esempio possibile. Mi ripeto: non è più possibile il tradizionale modo anarchico di vivere del napoletano, che pure ha avuto senso per secoli ma ora distrugge il tessuto stesso sul quale si reggeva. È un campanello per l’Italia intera: se continuiamo con il nostro pressapochismo e con l’illegalità diffusa - anche quando in ambiti non da strada, ma finanziari ed economici, come al Nord - diventeremo tutti una grande Napoli».
Il capitalismo moderno necessita ordine e disciplina?
«Il sistema economico impone regole molto rigide».
Prima parlavi dello splendore della “Napoli capitale” In questo senso l’Italia ha fatto male alla città?
«Certo, Napoli è una delle vittime dell’unità, perché i napoletani non erano fatti per lo Stato, come temperamento. Però dobbiamo anche dire che oggi Napoli fa male a se stessa, perché bisognerebbe pur rendersi conto che certe cose non reggono più. “'O sole mio” non c’è a Napoli, allontanandosi in nave si nota chiaramente come la città sia immersa in una nube di fosca caligine; anche il mare visto da terra sembra ancora azzurro, ma dall’aereo appare chiaramente marcio, marrone ormai quasi fino a Capri. Non solo i napoletani non si sono difesi dall’Italia, ma hanno fatto di tutto per aggravare la loro situazione, distruggendo il loro habitat e dunque loro stessi. Ciò, inizialmente per faciloneria e per pressapochismo, un tempo caratteri graziosi dell’essere partenopei, ma ora trasformatisi in dramma».
L’Italia ha fatto male a Napoli, dunque. E Napoli fa male all’Italia? Napoli può essere la fonte di un contagio più generale?
«In questo senso è molto più inquinante Roma, Napoli è un’enclave a sé. L’Italia di suo, però, sta diventando una grande Napoli...».
...non per colpa dei napoletani.
«Non per colpa dei napoletani, ma per un costume che si diffonde».
L’Italia cosa può fare oggi per Napoli? Anzi, ancor prima: può davvero fare ancora qualcosa?
«Secondo me il problema non è più gestibile, Napoli è marcia fino al midollo. Non è con l’esercito che si risolve un problema sociale e culturale. Il dramma è particolarmente evidente qui perché la città sta molto a cuore a tutti, per una serie di ragioni vere e anche per un po’ di artifici retorici; in realtà quel che succede a Napoli è vero in buona parte del Meridione, dove la criminalità organizzata è più forte dello Stato, dunque più rispettata e decide le leggi che contano. Così è in Sicilia, a Bari e in molte zone della Puglia, e così via. Ogni napoletano ha almeno un cugino camorrista cui si rivolge per risolvere un problema, piccolo o grande che sia. Ecco: vedo la partita molto difficile perché l’intreccio tra criminalità e città “normale” (ma che normale non è) è strettissimo, così usare il bisturi è difficile, impossibile».
Quale differenza c’è tra la Napoli di Achille Lauro e quella di Antonio Bassolino e Rosa Russo Jervolino? Questi due ultimi hanno “propagandato” un rilancio della città che i fatti quotidianamente smentiscono...
«Non c’è dubbio che la Napoli di Lauro fosse infinitamente più vivibile; ma questo, né per merito di Lauro né per demerito di Bassolino e Jervolino. È la modernità che distrugge Napoli. L’umano errore di Bassolino è stato di far finta di credere che, con un buon restyling edilizio in centro, insomma con un’operazione di facciata, venisse modificata anche la realtà profonda».
Si parlò di “rinascimento napoletano”.
«Altro che rinascimento! Non è pensabile che Bassolino e Jervolino non se ne rendano conto, ovviamente per amor di bandiera o non so cos’altro fan finta che la città sia diversa da come, purtroppo, è. Il marcio è profondo a Napoli ma direi in tutto il Napoletano, perché la zona “persa” è vasta e corrisponde grosso modo all’avanzata del cemento: Ponticelli, Pomigliano, Nola... Invece, una cittadina come Sorrento non fa parte della realtà degradata, anche se la gente è la stessa e si trova a pochissimi chilometri dal disastro».
Ma Sorrento non è stata investita dal degrado ambientale, e da quello sociale che il primo si porta dietro.
«Esatto, proprio così. Ha conservato un suo habitat, un bel lungomare, eccetera. Diceva giustamente Albert Camus che col sole e col mare anche un ragazzo povero può essere felice. Napoli ha avuto il sole e il mare più famosi del mondo, ma ora li ha persi: un cortocircuito violentissimo».
Una volta tu hai detto, provocatoriamente: Napoli andrebbe bombardata. Diciamo: dovrebbero intervenire le ruspe per abbattere tutto il brutto che c’è in città.
«Parlai di “bombe” perché, come ho spiegato, il bisturi non è utilizzabile. Il problema è che non si tratta di un singolo ecomostro: tirar giù il brutto significa minare mezza città, lasciare senza casa centinaia di migliaia di persone. Non so se hai presente l’hinterland vesuviano...».
Purtroppo sì.
«È anche peggio di quello milanese, perché almeno qui si è in pianura. Là, invece, l’orrore si staglia all’orizzonte, sta sul monte».
Eppoi c’era lo splendore, qui non è che ci fosse il paradiso...
«Certo Milano non ha mai avuto Capri di fronte... Oggi invece - come mi raccontava un amico che abita là - un napoletano arriva a casa la sera stressato più di un milanese, perché si deve fare minimo tre ore di traffico infernale in una città caotica, sporca e puzzolente».
Cosa dire ai napoletani perbene, che tentato di resistere al degrado?
«Ce ne sono tanti, ma temo siano comunque una minoranza, perdipiù intimidita dalla criminalità. Eppoi - è questo il mio rimprovero - mi sembra che non riescano mai a dire la verità su loro stessi, vanno avanti con questo eterno piagnisteo che li fa affondare. Ormai non solo la forza, ma la stessa mentalità camorrista è prevalente: i pochi che resistono davvero andrebbero difesi con l’esercito, perché sono l’emblema di un’altra Napoli, ma purtroppo non lo si fa. Se si lascia solo chi resiste, questo in genere viene punito dalla malavita e la vicenda diventa così tristemente pedagogica per tutti gli altri. È un insegnamento: “Mai ribellarsi perché vieni ucciso”».
Il degrado non può che peggiorare?
«Temo di sì, perché a causa di questa sorta di autocommiserazione napoletana non vedo nemmeno la reazione che un po’ c’è stata in Sicilia. Qui prevale proprio il carattere fatalista della città, l’antica abitudine a tirare a campare senza rendersi conto che non è più possibile. Forse una reazione ci potrà essere solo quando la situazione diventerà ulteriormente pazzesca, ma c’è poco da essere ottimisti, perché Napoli è inserita in una realtà meridionale del tutto simile, tranne che in poche oasi. Che sono tali solo perché la modernità e il cosiddetto benessere non vi sono ancora giunti, penso alla Lucania ad esempio. La modernità ha ucciso più il Sud del Nord, perché il Sud aveva in quantità maggiore una risorsa come l’ambiente; ha ucciso più l’Italia del resto d’Europa, perché un conto è cementificare la Ruhr, un conto la nostra Penisola. Noi siamo eredi di un patrimonio immenso, e ce lo siamo divorato, lo abbiamo distrutto».