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La disfatta di Bush

di Daniele J. Angrisani - 09/11/2006

 
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Come era ampiamente prevedibile, dati i sondaggi pre elettorali, le elezioni di mid-term si sono trasformate in un vero e proprio tsunami per la politica americana. I democratici hanno conquistato con un deciso margine la maggioranza della Camera dei Rappresentanti e, per la prima volta, una donna, Nancy Pelosi, diventerà Speaker della Camera Bassa, ovvero la terza autorità del Paese. Al Senato invece il risultato finale del voto dipenderà da un possibile riconteggio in Virginia, dove il candidato democratico James Webb conduce al momento per circa 8.000 voti rispetto al senatore repubblicano uscente George Allen. Voci dell'ultima ora vorrebbero Allen pronto a concedere la sconfitta ed evitare lo stillicidio di un ennesimo riconteggio, ma staremo a vedere se sarà davvero così o meno. Resta il fatto che, se i democratici dovessero conquistare anche il seggio senatoriale della Virginia, il loro trionfo sarebbe completo con la conquista della maggioranza anche alla Camera Alta, impresa che era considerata assolutamente remota solo a giugno di quest'anno. Senza dubbio, non c'era modo migliore da parte degli elettori americani per mandare un messaggio chiaro e tondo all'Amministrazione Bush: cambiate rotta. Il primo risultato di questo tsunami politico si è avuto subito: le dimissioni del Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, già sulla graticola da tempo a causa degli errori di gestione del “dopoguerra” iracheno, che hanno trasformato l'Iraq in un Paese sull'orlo della guerra civile.

Dopo la Caporetto elettorale dei repubblicani, Bush ha pensato bene di “rifarsi una faccia” e dare un segno di cambiamento e di collaborazione nei confronti dei vittoriosi democratici, proprio accettando queste dimissioni da tanto tempo e da tante parti richieste. Non si era mai visto prima d'ora una elezione di mid-term che ha fatto vittime immediatamente come in questo caso, a dimostrazione di quanto forte fosse la valenza politica di queste elezioni trasformate in un vero e proprio referendum sui 6 anni di Amministrazione Bush e sulla disastrosa guerra irachena.

E' stata proprio la guerra in Iraq, secondo tutti gli exit poll, una delle principali cause della sconfitta repubblicana, checché ne dica il presidente dimezzato George W. Bush. Al di là delle frasi di circostanza sul “manterremo i nostri impegni” e “non ci ritireremo dall'Iraq prima che il lavoro sia compiuto”, l'Amministrazione Bush per sopravvivere politicamente negli ultimi due anni dovrà concedere qualcosa anche da questo punto di vista. Secondo molti analisti politici è molto probabile che nei prossimi mesi il presidente Bush presenterà una sorta di “timeline” per il ritiro scadenziato delle truppe americane dall'Iraq, dando inizio ad una fase nuova della politica estera della sua Amministrazione. Inoltre, è opinione comune che questi ultimi due anni di presidenza Bush vedranno un ritiro delle “teorie unilaterali” tanto care ai neoconservatori, a favore del multilateralismo e della cooperazione con le Nazioni Unite, sebbene nessuno si attenda un vero cambiamento radicale della politica estera americana. E' in ogni caso la prima volta che il cambio di maggioranza al Congresso potrebbe portare delle innovazioni, anche piccole, nella politica estera del Paese. Questo la dice tutta sulla portata del cataclisma politico avvenuto in questo freddo martedì di novembre.

Per quanto riguarda invece la politica interna, l’opinione generale è che la vittoria dei democratici significherà, molto probabilmente, il ritorno ad una disciplina di bilancio più rigorosa e, quindi, in primo luogo l'abolizione di quei tagli alle tasse che avevano caratterizzato la politica economica del primo mandato di Bush e che tanto erano stati criticati per i loro effetti devastanti sul bilancio federale e per la loro propensione ad aiutare chi era più ricco. Inoltre dai democratici ci si attende anche una maggiore attenzione verso la spesa sociale, ridotta al minimo dopo la cura di cavallo degli anni dell'era repubblicana. Bisogna considerare comunque che tutte le politiche che saranno messe in essere negli anni a venire non potranno prescindere dalla scadenza del novembre 2008, quando gli americani saranno chiamati di nuovo alle urne per eleggere il primo presidente dell'era post-Bush. Per questo motivo, come già accaduto in passato, è probabile che entrambi i partiti politici cerchino di fare gli interessi del proprio elettorato di riferimento, per presentarsi in maniera quanto più forte possibile alle prossime elezioni, anche se questo dovesse significare, di fatto, il blocco quasi completo dell'attività legislativa federale. Molto dipenderà, comunque, dalla sincerità delle affermazioni del presidente Bush che si è appellato ai democratici per cercare una via di collaborazione.

In sintesi, dunque, le aspettative sono molto alte dopo la vittoria democratica al Congresso. Questo, paradossalmente, potrebbe sfavorire in futuro gli stessi democratici, nel caso non adempiessero alle promesse elettorali che hanno portato loro alla vittoria, soprattutto riguardo al ritiro delle truppe dall’Iraq ed alla lotta alla corruzione, che ha piagato il Congresso uscente con una serie di scandali senza fine. Nessuno ovviamente pensa che i democratici possano essere la panacea di tutti mali. Quello che però è sicuro è che da oggi è finita un’era e tutto ciò che potrà accadere in futuro nella politica americana, non potrà prescindere dalla volontà del popolo americano, espressa fin troppo chiaramente dal risultato di queste elezioni. Cosa significherà tutto ciò nei fatti e se davvero si tratta di una svolta nella politica americana, come qualcuno ha già affermato, è troppo presto per dirlo. Dipenderà molto, tra le altre cose, anche dalla forza dei diversi gruppi di pressione liberal e progressisti, come MoveOn.org, sulla neonata maggioranza democratica. Per adesso comunque un risultato fondamentale è già stato ottenuto: niente più per Bush sarà come prima. Per ora almeno, tanto ci basta.