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I diamanti restano insanguinati

di Marina Forti - 10/11/2006

 
I diamanti prodotti in Costa d'Avorio continuano a entrare nel commercio mondiale, nonostante siano coperti da embargo perché provengono da un paese in guerra. E questo commercio, scrive un gruppo di organizzazioni internazionali per i diritti umani, «mina gravemente l'efficacia del Kimberley Process», il sistema internazionale di controllo sul commercio dei diamanti grezzi sponsorizzato dalle Nazioni unite.
Il «Processo di Kimberley», così chiamato dal nome della città sudafricana dove si riunirono per la prima volta i paesi e le aziende interessati all'estrazione, lavorazione e commercio di gemme grezze, è un meccanismo di autocontrollo a cui aderiscono 46 paesi più alcuni osservatori (alcune organizzazioni per i diritti umani e l'Onu). Entrato in vigore nel 2003 dopo anni di negoziati, il meccanismo chiede ai governi produttori di certificare i diamanti estratti legalmente nel loro territorio, e ai compratori di acquistare solo gemme certificate. I paesi aderenti sono tenuti a rispettare questo sistema di autocertificazione, e a commerciare solo con paesi che lo rispettino. Questo dovrebbe impedire che gemme estratte in zone di conflitto servano a finanziare milizie e forze armate belligeranti, e dunque a perpetuare la guerra. Il legame tra risorse naturali (in questo caso i diamanti) e le guerre è documentato da fior di rapporti delle Nazioni unite: da tutti gli anni `90 e oltre milizie ribelli, «signori della guerra» e commercianti senza scrupoli hanno finanziato con i diamanti l'acquisto di armi alimentando conflitti sanguinosi. Era successo in Angola, il primo caso che ha suscitato le denunce di organizzazioni per i diritti umani come Amnesty international, Human Rights Watch o Global Witness (e le prime ammissioni da parte di De Beers, l'azienda leader della produzione e commercio di diamanti), e spinto per la prima volta il Consiglio di Sicurezza dell'Onu a intervenire. Altri casi sono poi emersi: Congo, Liberia, Sierra Leone - di cui si tornerà a parlare il mese prossimo, quando arriverà nelle sale il film «Blood Diamond», diamanti insanguinati, con Leonardo DiCaprio nei panni di un mercenario arrestato perché contrabbanda diamanti dalla Sierra Leone in pieno conflitto.

Oggi la storia si ripete in Costa d'Avorio. Nel settembre 2002 una ribellione tra i militari è diventata una guerra civile che ha spaccato il paese in due; un cessate il fuoco (gennaio 2003) e accordi di pace hanno retto pochi mesi, poi il paese è ripiombato nel conflitto: oggi una fragile zona pattugliata dalle Nazioni unite separa i «governativi» nel sud dai territori controllati dai ribelli nel nord. Il conflitto ha fatto migliaia di morti e grandi masse di sfollati. Un anno fa un Comitato di esperti dell'Onu ha affermato che la produzione di diamanti nel nord del paese (circa 300mila carati di diamanti all'anno, un valore intorno ai 25 milioni di dollari) «fornisce un importante reddito a Force Nouvelle», il movimento ribelle contro il governo centrale. Allora i paesi aderenti a Kimberley hanno deciso di controllare l'export di diamanti grezzi da tutta l'Africa occidentale, per rintracciare quelli prodotti in Costa d'Avorio (vedi terraterra, 17 novembre 2005). Sembrava una misura drastica. Un anno dopo però un nuovo rapporto delle Nazioni unite dice che il commercio illecito continua; con la probabile complicità di mediatori in Belgio e in Israele una grande quantità di diamanti estratti dalle zone di conflitto ivoriane vengono messi sul mercato con false certificazioni. Approfittando degli scarsi controlli, i diamanti di guerra ivoriani passano per il Ghana e il Mali che ne attestano la regolarità con falsi certificati di pietre «esenti da conflitto».

Il fatto è che il «Processo di Kimberley» è solo un meccanismo volontario, basato sull'autocertificazione dei governi e su meccanismi di controllo deboli (e anche questi volontari), che lasciano molte scappatoie. Per questo, in una lettera alla presidenza di turno del Kimberley process (quest'anno è del Botswana, uno dei maggiori produttori mondiali di diamanti di alta qualità), un gruppo di organizzazioni per i diritti umani invita a prendere misure drastiche per mettere fine al contrabbando di diamanti della Costa d'Avorio. E la prima misura è che il Ghana sospenda volontariamente le sue vendite di diamanti (o sia sottoposto a embargo) finché non avrà bloccato il contrabbando dalla Costa d'Avorio, e che si studino ispezioni sulle aziende di intermediazione sospette. Se il meccanismo di Kimberley «non dimostra che è in grado di chiudere le scappatorie e rendere efficaci i controlli», scrivono le organizzazioni per i diritti umani, «rischia di diventare irrilevante».