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Bambino, attento al «padre padrone»

di Alfredo Carlo Moro - 15/11/2006

 

«La nuova cultura dell'infanzia sta perdendo lo slancio iniziale a vantaggio di un'idea del ragazzo come pura risorsa dell'adulto, nella pubblicità ma anche nella famiglia»

L'infanzia sembra essere particolarmente presente nell'attuale riflessione collettiva: i mezzi di comunicazione di massa prestano molta attenzione alle vicende dei ragazzi; la politica ha ricominciato a mettere nella sua agenda i problemi delle generazioni che si affacciano alla vita; le amministrazioni anche locali assumono nuove iniziative a favore dei soggetti in età evolutiva.
Mi sembra però che il bambino reale, con i suoi gravi problemi di crescita in una società complessa, non sia affatto al centro dell'attenzione collettiva. Vi è più retorica sull'infanzia in astratto che attenzione ai bisogni del bambino concreto; più declamazione sui diritti del bambino che impegno organico e coerente per attuarli; più strumentalizzazione dell'infanzia che rispettosa e vigile attenzione per svilupparne il difficile itinerario evolutivo.
Solo negli anni Ottanta del secolo da poco terminato si è incominciata a sviluppare nel nostro Paese una certa cultura di attenzione e solidarietà verso i soggetti che si affacciano alla vita. E l'ordinamento giuridico ha incominciato a riconoscere che anche il ragazzo è non solo destinatario di diritto ma portatore di diritti; che questi diritti devono essere non solo declamati ma concretamente attuati; che è indispensabile guardare al minore, e alla sua debolezza, non come a un potenziale pericolo per la società ma come a un'autentica ricchezza da sviluppare; che il ragazzo non dev'essere considerato suddito ma cittadino.
Questa nuova, incipiente, cultura dell'infanzia e dell'adolescenza - che ha consentito anche una più incisiva azione a livello politico ed amministrativo nell'ultimo quinquennio per attuare una migliore promozione e tutela dei diritti dei soggetti in età evolutiva - mi sembra che abbia perso lo slancio iniziale e che anzi si stia fortemente appannando. Alcune considerazioni in proposito sono essenziali.
La appena abbozzata cultura del bambino come «persona» viene sempre più soppiantata dalla cultura del bamb ino come mera risorsa dell'adulto: una risorsa per i genitori che attendono da lui solo gratificazioni personali o che tendono a monetizzarne energie e capacità; una risorsa per i mezzi di comunicazione di massa che hanno scoperto che i casi di bambini disgraziati o di giovani devianti suscitano morbose curiosità nel grosso pubblico e quindi consentono aumenti di tirature o di audience; una risorsa per la pubblicità che lo strumentalizza come consumatore da conquistare minacciando che se non si «ha» non si «è» o che lo usa come strumento di propaganda dei suoi prodotti anche deformando l'immagine di ciò che il bambino veramente è; una risorsa per il mercato del lavoro o per la criminalità adulta che lo utilizza, a basso costo, per ottenere profitti illeciti; una risorsa per gli appetiti sessuali degli adulti che sempre di più ricorrono alla pedofilia o alla prostituzione giovanile; una risorsa anche per alcuni operatori dell'infanzia che talvolta utilizzano il bambino come strumento terapeutico per l'adulto in difficoltà senza sufficientemente tener conto delle autonome esigenze del soggetto in crescita; una risorsa perfino per associazioni o strutture che si proclamano di tutela dell'infanzia anche se la utilizzano, facendo anche ricorso a messaggi fortemente catastrofici, per drenare rilevanti risorse economiche.

La cultura della solidarietà e del proficuo rapporto intergenerazionale rischia di essere sostituita dalla cultura del reciproco egoismo delle generazioni, per cui il ragazzo percepisce come insignificante il genitore e questi come poco interessante il figlio e la comunicazione va inaridendosi. In particolare, per gli adulti, la cultura dell'accettazione amorosa del figlio e della donazione gratuita per il bene dell'altro viene sempre più spesso inquinata sia da una cultura, che va emergendo, secondo cui non è opportuno sacrificare troppo la propria vita per un soggetto esigente che non sempre darà quelle gratificazioni e quelle ricompense che solo potrebbero giustificare il sacrificio della propria assoluta libertà sia dal timore - per genitori segnati da una civiltà che ha cercato di espellere dal proprio orizzonte l'idea della morte perché si è incapaci di elaborare il lutto - di investire affettivamente troppo su un ragazzo che appena giunto a un minimo di autonomia è pronto a lasciarci e che può non corrispondere ai nostri progetti.
La cultura dell'attenzione al ragazzo, per percepirne le esigenze e per dare risposte esaustive alle sue pressanti domande spesso non verbalizzate, si va trasformando in una cultura assai formale dell'ascolto del minore, basata sulla mera predisposizione di momenti e strutture attraverso cui il ragazzo possa far sentire la sua voce (i consigli comunali dei bambini, le interviste televisive ai bambini, le ricorrenze loro dedicate in cui i bambini possono parlare). Ma i bambini non parlano in modo autentico a comando e nelle ore e occasioni canoniche in cui il mondo degli adulti decide di poter concedere loro il privilegio di essere ascoltati. Un autentico ascolto si realizza da parte degli adulti se si sa essere sempre attenti e disponibili a cogliere quei tentativi di comunicazione che possono essere inviati dal ragazzo soltanto quando egli ne percepisce l'esigenza o si ritiene in grado di manifestare il suo pensiero: sono i momenti più impensati, i momenti dei bambini che possono non coincidere con i momenti dell'adulto.
Ma quei momenti possono essere irripetibili; se il ragazzo percepisce che non trova nell'adulto una rispondenza quando cerca di comunicare, può chiudersi ritenendo una volta per tutte inutile aprirsi ad un dialogo che sembra non accetto. Inoltre ascoltare significa necessariamente decodificare, depurare, interpretare messaggi che sono spesso ambigui e confusi. Del resto bisogna riconoscere che una simile capacità di autentico ascolto appare difficile in una società come quella di oggi in cui i rapporti interpersonali si vanno riducendo e dequalifican do; in cui il silenzio è stato abolito perché si vive storditi dal rumore; in cui il rispetto per la parola è stato sostituito da un continuo chiacchiericcio, non strumento di comunicazione ma solo utile a riempire il silenzio; in cui ci si difende da rapporti troppo coinvolgenti perché la percezione di essere una personalità debole porta a ritrarsi dall'incontro con un altro.

Infine la cultura del rispetto della persona del bambino e della sua identità originaria anche in famiglia - per cui l'ordinamento giuridico impone che il genitore debba svolgere la sua funzione educativa tenendo conto e rispettando le capacità, le inclinazioni naturali e le aspirazioni dei figli - rischia di essere soppiantata da una cultura dell'appropriazione dei figli da parte dei genitori. Non solo sentiamo continuamente riaffermare il diritto di ogni adulto - non importa se solo, ormai anziano, legato da vincoli monosessuali con un suo partner - alla genitorialità comunque procurata e va profilandosi il concreto pericolo che in un delirio di immortalità l'adulto finisca con il creare il suo clone. Ma va anche pericolosamente diffondendosi l'idea che «il figlio è mio e lo gestisco io» e che di conseguenza non siano accettabili controlli sull'esercizio del potere dei genitori sui figli e debbano essere drasticamente contratti i poteri degli organi di tutela extrafamiliare (operatori sociali, giudici specializzati). Stiamo cioè ritornando, sia pure in forme diverse, alla vecchia figura del padre padrone a cui si aggiunge la non meno conturbante figura della madre padrona, mentre al bambino viene sempre meno riconosciuto il ruolo di persona e sempre più quello di mero figlio di famiglia.
Si va così perdendo la percezione che la sacrosanta tutela della famiglia non può trasformarsi in sostanziale autarchia; che il giusto riconoscimento che la famiglia ha diritti non può far trascurare che tali diritti sono subordinati all'adempimento di inderogabili doveri; che l'esatta affermazione che questa comunità naturale deve potersi liberamente autoregolamentare non significa che la famiglia debba divenire un porto franco in cui abbiano legittimazione tutte le onnipotenze e le eventuali prevaricazioni di un membro su un altro; che la doverosa constatazione che la famiglia è essenziale per una armonica crescita del minore non può far dimenticare che, se molto spesso la famiglia è un nido d'amore, talvolta può divenire un nido di vipere.