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La politica energetica Usa affidata al capo dei petrolieri

di Sabina Morandi - 18/11/2006

 
Ben pochi governi sono propensi a stilare piani energetici che possano in qualche modo limitare la libertà d’azione delle compagnie, ed è uno dei motivi per cui, anche dalle nostre parti, la politica si dimostra restia ad assumersi questo importante compito. Naturalmente l’annosa disputa fra l’interesse privato delle compagnie energetiche e quello pubblico può sempre essere risolto con il classico colpo d’accetta di cui Bush è maestro. La soluzione del presidente petroliere è infatti molto semplice quanto arrogante: il piano che dovrebbe suggerire all’amministrazione le misure per incrementare «il potenziale contributo della conservazione, dell’efficienza energetica, delle fonti alternative e gli avanzamenti tecnologici» necessari a «superare la crisi energetica» è stato affidato a Lee Raymond, da diciotto anni alla testa della più ricca e potente multinazionale petrolifera del pianeta, la ExxonMobil.

Va precisato che questo signore non è un tipo qualunque. Sotto la sua direzione la sua compagnia si è guadagnata il titolo di peggiore fra le peggiori riguardo a ogni aspetto dell’attività petrolifera, che si tratti di impatto ambientale, di rispetto dei diritti umani o di trasparenza in materia fiscale e finanziaria. In particolare, proprio rispetto al problema del riscaldamento globale del quale si discute in questi giorni a Nairobi, durante la direzione di Raymond ExxonMobil ha investito una cosa come 19 milioni di dollari per finanziare qualsiasi ricerca che potesse mettere in dubbio i risultati degli autorevoli scienziati dell’Intergovernamental Panel on Climate Change delle Nazioni

Inoltre, mentre lavorava nell’ombra per minare il consenso che nel corso degli anni si è andato consolidando intorno al Protocollo di Kyoto, Exxon si pronunciava pubblicamente contro l’indipendenza energetica statunitense e spingeva per un maggior legame con paesi produttori come l’Arabia Saudita dove la compagnia ha forti investimenti. Investimenti che fanno sì che sia l’unica, fra le major, a pronunciarsi ufficialmente contro la ricerca sulle fonti rinnovabili.

Se queste sono dunque le premesse è facile capire perché l’ambientalismo di mezzo mondo è insorto alla notizia che il ministro dell’Energia di Bush, Samuel Bodman, aveva affidato al National Petroleum Council, diretto appunto da Raymond, il compito di stilare il Rapporto globale sul petrolio e sul gas che dovrebbe individuare le strategie nazionali di politica energetica da qui al 2025. Va sottolineato fra l’altro che il National Petroleum Council è una sorta di Confindustria dei petrolieri e annovera fra i propri soci compagnie come Bp, Chevron e ConocoPhilips, tanto per citarne alcune. Lee Raymond inoltre è stato al centro di un’accesa polemica quando, l’anno scorso, ha concluso la sua carriera alla Exxon con una buonuscita che non ha precedenti nella storia: ben 400 milioni di dollari fra liquidazione, stock options e altri benefit. Una cifra talmente scandalosa da provocare la mobilitazione di numerose associazioni di consumatori - fra cui Public Citizen di Ralph Nader - e perfino degli azionisti Exxon, che hanno votato contro la decisione.

Ma l’incarico “ambientalista” al più agguerrito dei petrolieri non è l’unica polemica scoppiata negli Stati Uniti intorno ai temi in discussione al vertice di Nairobi. Sotto accusa è la decisione di Bush di bloccare i lavori del Global Climate Change Research Programme, organismo di ricerca governativo che, come stabilisce una legge del 1990, dovrebbe produrre ogni quattro anni delle valutazioni sull’effetto del cambiamento climatico nel paese. Spaventata dai risultati del rapporto del 2000, che Bush è riuscito a seppellire con l’aiuto dei suoi uomini piazzati nei punti nevralgici - famoso è il caso di Phil Cooney che, dopo aver dato le dimissioni nel 2005 dal Consiglio sulla Qualità ambientale della Casa Bianca è stato assunto dalla Exxon - l’amministrazione ha bloccato i lavori della commissione governativa che non ha quindi potuto confezionare il rapporto del 2004. Il boicottaggio degli studi sul clima è stato criticato da eminenti ricercatori come Rick Piltz, ex membro anziano del prestigioso Climate Change Science Programme, che ha dato le sue dimissioni per protestare contro quello che ha definito «lo scandalo peggiore dell’amministrazione Bush», e ha spinto i senatori John Kerry e John McCain a chiedere l’apertura di un’inchiesta ufficiale. La questione è stata riportata agli onori della cronaca da un gruppo di organizzazioni internazionali - fra cui Greenpeace, Friends of Earth e il Center for Biological Diversity - che hanno sottoposto la questione ai rappresentanti dei paesi che partecipano ai negoziati sul clima.