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Clima: un'impronta devastante

di MarTa - 18/11/2006



L'ottobre di quest'anno in Italia verrà ricordato, almeno dai fortunati abitanti delle località marine, perché così mite da permettere ancora gradevoli nuotate. Magari, tra un tuffo e un altro, buttando l'occhio sulla stampa quotidiana, qualcuno si sarà accorto della quasi contemporaneità con cui si pongono all'attenzione dell'opinione pubblica due rapporti ambientali. Analogo il tema dell'indagine, diversi gli autori. Da una parte il WWF con i risultati del suo studio biennale "The living planet report 2006", dall'altra un gruppo di lavoro guidato dall'economista Nicholas Stern che ha condotto una ricerca sulle conseguenze economiche dei cambiamenti climatici, commissionata dal governo britannico di Blair.
La considerazione singolare è che, questa volta, le conclusioni cui giungono gli studiosi, pur partendo da un differente approccio, sono molto simili.
È probabile che Blair non voglia essere ricordato solo in relazione alla sua partecipazione alla guerra in Iraq, o forse ha bisogno di trovare una giustificazione per l'introduzione di alcune "tasse ambientali", ma è comunque significativo che dagli estratti dello studio di 700 pagine, proposti in anteprima dalla stampa inglese, risulti uno scenario a dir poco preoccupante. Fino al 20 per cento del prodotto lordo mondiale perso per colpa del global warming e 200 milioni di profughi in fuga dai territori che, più pesantemente, subirebbero le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Stern analizza l'impatto del riscaldamento globale sui vari comparti produttivi da oggi al 2100, delineando le conseguenze limite dell'anomalo incremento delle temperature prodotto, principalmente, dal modello energetico basato sul petrolio e sui combustibili fossili.
L'ipotesi peggiore, quella indicata dai dati prima riportati, costituirebbe un pericolo gravissimo per la capacità di tenuta dell'economia mondiale ed un fattore di grande tensione per gli "equilibri" politici.
Per scongiurare questa minaccia lo studio Stern suggerisce, sostanzialmente, di sostenere i rimedi proposti dal protocollo di Kyoto prevedendo però un rilancio nella individuazione degli obiettivi ed un'accelerazione nella loro realizzazione. In particolare sottolinea la necessità del coinvolgimento degli Stati Uniti, quali maggiori responsabili dell'immissione dei gas serra, e dell'immediata partecipazione al protocollo di paesi come la Cina e l'India che, in seguito al loro rapido sviluppo economico tra i paesi emergenti, saranno presto responsabili di una significativa fetta delle emissioni inquinanti.

Il rapporto WWF
Il rapporto WWF descrive, invece, i cambiamenti relativi alla biodiversità globale associati alla pressione esercitata sulla biosfera in seguito al consumo delle risorse naturali ad opera dall'uomo. Due gli indici utilizzati, il "living planet index" che valuta la salute degli ecosistemi terrestri, e "l'impronta ecologica" che mostra l'estensione della domanda umana su questi ecosistemi.
I rilievi sono stati effettuati su diversi decenni per inquadrare la situazione del passato, verificare lo stato attuale ed infine delineare possibili scenari del futuro.
Il primo rapporto è stato pubblicato nel 1998 cui sono seguiti i successivi con cadenza biennale, l'ultimo, quello datato 2006, con l'elaborazione dei dati raccolti fino al 2003.
Sono state monitorate popolazioni di 1313 specie di vertebrati di ambienti terrestri, marini e di acqua dolce. I dati provenienti dai tre differenti habitat sono stati aggregati per fornire un unico parametro (living index), che dal 1970 al 2003 ha subito una caduta del 30%. Un andamento decrescente che indica un degrado degli ecosistemi naturali ad un tasso mai rilevato in precedenza.
L'impronta ecologica misura l'estensione della superficie terrestre o acquosa necessaria a garantire le risorse produttive e ad assorbire le sostanze di rifiuto legate all'attività delle società umane. L'impronta di un paese comprende, quindi, le aree destinate alla coltivazione, ai pascoli, alle foreste, alla pesca, per la produzione di cibo, fibre e legname, oltre a quelle necessarie alla costruzione di infrastrutture o allo smaltimento dei rifiuti compresi quelli generati per il fabbisogno energetico.
L'utilizzo delle acque dolci non è contabilizzato nell'ambito dell'impronta ecologica ma analizzato a parte.
Un altro parametro da considerare è la biocapacità terrestre che comprende le aree biologicamente produttive siano esse campi coltivati, foreste, pascoli o zone di pesca disponibili per soddisfare le richieste umane.
È dalla fine degli anni '80 che l'impronta ecologica ha superato la biocapacità terrestre, ma i dati del 2003 indicano che il carico in eccesso ha raggiunto globalmente la quota 25%. Stiamo sfruttando gli ecosistemi del pianeta un quarto oltre le capacità rigenerative, stiamo trasformando risorse in rifiuti più velocemente di quanto la natura possa riconvertire attraverso il processo contrario. Per essere ancora più chiari, è come se svuotassimo una vasca usando un secchio e cercassimo contemporaneamente di riempirla con l'ausilio di un bicchiere.
Presupponendo una tendenza verso una moderata crescita, così come indicato dalle proiezioni delle Nazioni Unite, nel 2050 assisteremmo ad una richiesta pari al doppio della capacità produttiva del pianeta. A questi livelli di deficit ecologico, il collasso degli ecosistemi su grande scala diventerebbe molto probabile.

Abitiamo il pianeta con altri 5 - 10 milioni di specie, è intuitivo pensare che quanto più spazio occupiamo come esseri umani tanto più limitiamo lo spazio disponibile per gli altri viventi, in questo senso il "living planet index" e "l'impronta ecologica" costituiscono una base di conoscenze per delineare gli scenari futuri.
Per quanto riguarda le specie terrestri, sono le zone tropicali ad aver accusato un evidente impoverimento tra il 1970 e il 2003 (gli ecosistemi delle zone temperate avevano subito un rapido degrado già precedentemente, a cavallo degli anni '60).
Per quanto riguarda le specie marine, ricordiamo che le acque di mari ed oceani ricoprono il 70% della superficie terrestre, si è evidenziato un drammatico declino della biocapacità dell'oceano indiano e dei mari del sud-est asiatico. Come esempio basti il riferimento alla distruzione tra il 1990 e il 2000 di circa un terzo della foresta di mangrovie che, tipica delle zone costiere di questi mari, garantiva una fondamentale area di ripopolamento per l'85% delle specie di pesci di interesse commerciale. Se a ciò aggiungiamo il super sfruttamento legato ad un'intensissima attività di pesca, la situazione risulta ancor più negativa.
Il decremento delle specie degli ambienti d'acqua dolce è legato a più fattori: la distruzione degli habitat naturali, l'inquinamento, la pesca ed in particolare la frammentazione del naturale flusso dei fiumi regolato, attraverso le dighe, per favorire gli usi industriali e domestici, o per la produzione di energia idroelettrica.
Nel 2003 l'impronta ecologica globale era di 14,1 bilioni di ettari (2,2 ettari per persona). La disponibilità totale di superficie produttiva globale o biocapacità, calcolata nello stesso anno, era di 11,2 bilioni di ettari (1,8 ettari per persona).

Naturalmente dobbiamo rammentare che paragonare l'impronta media per persona di diversi paesi con il valore medio di biocapacità globale non presuppone un'eguale distribuzione delle risorse.
Ricordiamo che nonostante la sua considerevole biocapacità il Nord America ha il più ampio deficit con un utilizzo di 3,7 ettari per persona in più della disponibilità della regione. Nell'Unione Europea il deficit calcolato è di 2,6 ettari con un utilizzo più che doppio della propria biocapacità. All'altro estremo troviamo il Latino America che disporrebbe di una "riserva ecologica" di 3,4 ettari per persona. Sappiamo bene che i cosiddetti paesi ricchi, in realtà, sfruttano risorse presenti anche al di fuori dei loro confini generando quello che in questo contesto definiamo "deficit ecologico" che in pratica sancisce una sorta di condanna alla povertà per chi a queste risorse non ha accesso.
Continuando con questa tendenza, anche secondo le più ottimistiche proiezioni delle Nazioni Unite, pur con un moderato incremento della popolazione, entro il 2050 la richiesta di risorse da parte del genere umano sarebbe pari al doppio del tasso con cui la Terra le potrebbe generare.
Ed è proprio la componente dell'impronta ecologica legata all'emissione di CO2, conseguente all'uso dei combustibili fossili, quella cresciuta più rapidamente, più di nove volte dal 1961 al 2003.
Certamente un incremento di produttività sarebbe auspicabile ma del tutto inutile se non associato ad una riduzione dell'impronta ecologica umana.
Prima si sana lo squilibrio, minore sarà il rischio di sconvolgere gli ecosistemi "pagando" i costi annessi.

Secondo il rapporto del WWF tre fattori giocheranno un ruolo fondamentale per quanto riguarda l'impronta ecologica.
La popolazione. L'aumento della popolazione può essere rallentato attraverso una miglior educazione alla procreazione, con l'offerta di migliori opportunità economiche ed una maggior attenzione alla salute.
Consumo di beni e servizi per persona. Il potenziale di riduzione dei consumi dipende in parte della situazione economica individuale. Mentre le persone che vivono al di sotto del livello di sussistenza dovrebbero uscire dallo stato di povertà, la parte di popolazione più ricca dovrebbe ridurre i propri consumi pur migliorando la propria qualità della vita. Ovviamente abbracciando un concetto di qualità della vita che non sia sinonimo di consumismo, spreco, prevaricazione e disuguaglianza sociale.
L'intensità dell'impronta. La quantità di risorse usate nella produzione di beni e servizi può essere significativamente ridotta attraverso diverse azioni: migliorando l'efficienza energetica nella produzione industriale e nell'utenza domestica, minimizzando la produzione dei rifiuti e incrementando il riciclo e il riuso dei materiali, progettando veicoli con minor consumo di carburante, riducendo le distanze di trasferimento delle merci, ottimizzando l'uso delle risorse attraverso l'innovazione tecnologica.
Altri due fattori determinano invece la biocapacità.
La superficie bioproduttiva. Terreni degradati o marginali possono essere recuperati attraverso un'oculata gestione, parimenti le terre più produttive non devono essere perse in seguito ad urbanizzazione, salinizzazione o desertificazione.
La bioproduttività per ettaro. Essa dipende sia dal tipo di ecosistema sia dalle modalità di interazione. Per esempio alcune tecniche agricole possono "spingere" la produttività ma anche diminuire la biodiversità. Un'agricoltura intensiva ed energivora con abbondante utilizzo di fertilizzanti può incrementare i raccolti ma determinare un maggior impatto ambientale con un costo ecologico che nel lungo periodo porta ad un impoverimento del suolo ed un crollo della fertilità.

Nel suo rapporto il WWF illustra due strategie d'uscita dal deficit ecologico, la prima prevede uno scenario caratterizzato da un lento cambiamento, secondo cui il riequilibrio del rapporto uomo –Terra si raggiungerebbe a fine secolo. In questo contesto le emissioni di CO2 dovrebbero essere ridotte del 50% entro il 2100, la pesca dovrebbe essere ridimensionata della stessa percentuale. La necessità di aree destinate alle coltivazioni agricole o al pascolo dovrebbe crescere seguendo un tasso pari alla metà di quello relativo all'incremento della popolazione; ciò sarebbe possibile diminuendo il consumo della carne. La richiesta di aree forestali crescerebbe del 50% per compensare la diminuzione d'uso dei combustibili fossili e di altri materiali.
Questa combinazione di fattori permetterebbe la riduzione dell'impronta ecologica del 15%, un aumento della biocapacità del 20% con un saldo del deficit ecologico raggiungibile circa vent'anni prima della fine secolo, fatto che garantirebbe la disponibilità di un 10% della produttività naturale per le altre specie viventi.
Per comprendere meglio la dimensione dello sforzo richiesto per realizzare la riduzione nelle emissioni di gas serra si consideri che una recente analisi indica che con una riduzione del 25% delle emissioni dagli edifici, un'economia nei consumi dei due miliardi di veicoli in circolazione passando da un utilizzo medio di 8 litri a 4 litri per 100 km, un incremento di 50 volte dell'uso dell'energia eolica e di 700 volte di quella solare, si riuscirebbe semplicemente a mantenere l'attuale tasso di crescita delle emissioni, ben altro, quindi, sarebbe necessario per riuscire a ridurle.
Il secondo scenario quello definito come cambiamento rapido prevede la riduzione del 50% dei gas serra entro il 2050 e del 70% entro il 2100 con un aumento dei terreni coltivati e dei pascoli del solo 15% legato ad un deciso cambiamento della dieta umana, almeno in relazione agli stili alimentari dei paesi ricchi.
Il tutto associato ad un ottimistica previsione secondo la quale la bioproduttività salirebbe del 30%, prima del 2100, grazie all'innovazione tecnologica e a miglioramenti gestionali.
In questo modo l'impronta ecologica umana si ridurrebbe del 40% minimizzando il debito ecologico in tempi rapidi riducendo, però di molto, il rischio di un irreversibile sconvolgimento ecologico.
In attesa delle conclusioni della prossima Conferenza Internazionale sui cambiamenti climatici, indetta annualmente dall'ONU e in programma a Nairobi dal 5 novembre, non possiamo che osservare come, benché gli obiettivi fissati per la prima fase dell'accordo internazionale di Kyoto siano piuttosto modesti (-5% delle emissioni di gas serra entro il 2012 rispetto ai livelli del 1990), questi vengano inseguiti a fatica. Anzi, fra il 2000 e il 2004 le emissioni da parte dei Paesi industrializzati sono aumentate dell'11%.

L'immobilismo delle burocrazie statali, l'arroganza dei governi, la tutela dei profitti dei capitalisti il privilegio di pochi a danno di tutti, non sono, compatibili a qualsivoglia ipotesi di rientro dal debito ecologico. Speriamo lo siano, invece, la consapevolezza e la determinazione degli individui perché le responsabilità di chi popola il pianeta, in questo secolo, sono grandi.



Per info: http://assets.panda.org/downloads/living_planet_report.pdf