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Un ri-incontrarsi della Medicina con la Pedagogia

di Istituto bremologia applicata - 21/11/2006

Fonte: Istituto bremologia applicata

 

 

L’attuale tendenza all’eccessiva tecnicizzazione sta trasformando l’essere umano in una specie di robot il cui funzionamento e demandato a soggetti irresponsabili.

La specializzazione d’altro canto, con l’esasperazione alle sottodivisioni ha notevolmente contribuito alla perdita della visione dell’insieme. La crisi dei Valori infine, ha condotto all’eclissi del sacro, con conseguente perdita dei riferimenti religiosi che per secoli hanno prescritto didascalie sulle condotte, a volte in guisa ipnotica e, comunque distante.

In questo fondale risulta difficile trovare un riferimento autoctono cui poggiarsi che non sia sottoposto al servizio di un potere sempre esterno e inarreffabile.

Il nostro intento è di restituire all’uomo la sua dimensione umana intesa come apertura di senso di responsabilità e coscienza, attraverso una nuova Pedagogia.

Non si può pertanto prescindere da un sapere sentito che trasforma le intimità interpersonali e le riconduce ad una integrazione coerente. Integrazione capace di restituire il piacere di sentirsi protagonista della propria esperienza di vita.

La scommessa è quella di riuscire a liberarsi dalle griglie della clinicizzazione che sebbene abbia garantito agevolezza nei protocolli operativi, assicurando predittibilità, ripetibilità e presunta oggettività, nell’interesse della comunità scientifica; di contro ha contemporaneamente reso inevitabile quella graduale spersonalizzazione indotta dal necessario distacco disaminante, fino ad a quasi negare l’unicità esistenziale di ogni soggetto.

L’analisi nel frattempo ha ulteriormente esasperato la separazione  delle componenti emo-tono-espressionale favorendo una concettualizzazione rappresentata della coscienza piuttosto che una pratica che sia sentita.

Oggi più che mai, si avverte quest’esigenza di rinnovamento educativo e educazionale, di ri-presa di valori altri e alti, valori che siano più vicini a noi sperimentabili e infine amati.

Amati fino al punto d’amare noi stessi, consapevoli di essere la nostra educazione, il risultato di una Pedagogia Amorevole e Unitaria e, no attori passivi di un’educazione che non potremmo comprendere, quindi amare mai, giacché esterna a noi.

La Pedagogia Olistica

La  P. O. consente di accedere ad una visione espansa di sé, degli altri, dell’ambiente sociale e naturale definendo la realtà in termini di mente e di coscienza . Ma i termini di mente e di coscienza hanno ancora un’accezione limitata nel nostro linguaggio e nella nostra cultura ; infatti il campo dell’esperienza umana si estende ben al di là della mente. Per questo motivo la P.O. intende rivolgersi all’individuo come ESSENZA per indicare la natura fondamentale dell’essere.

L’Essenza è più sottile e meno limitata di quelle che chiamiamo coscienza e mente. L’Essenza è presente in tutto; ogni cosa è intrisa di essenza, di coscienza e di mente.

Partendo da questa premessa è possibile definire il modello di P.O.

La realtà di base è la coscienza che si esprime come intenzione ed energia . In altre parole, le nostre intenzioni, coscienti e inconsce, e il modo in cui si esprimono nei nostri pensieri, sentimenti e atti sono assolutamente determinanti per quanto riguarda la salute. E’ la coscienza a creare le basi della manifestazione della malattia sul piano materiale.

Tutto ciò che esiste è interconnesso, in altri termini non è possibile concepire separatamente le persone, gli avvenimenti, le cose, il nulla, noi stessi, l’ambiente sociale e naturale etc. Tutto ciò che facciamo, diciamo, pensiamo e crediamo ha un effetto immediato su tutti quanti.

Ogni parte contiene l’intero. Noi siamo tutto ciò che esiste e tutto l’esistente è in ciascuno di noi.

L’intero è maggiore della somma delle parti: ogni aspetto si trova all’interno di un sistema maggiore di se stesso che a sua volta si trova all’interno di un sistema maggiore. Mettendo insieme le parti e integrandole fra loro possiamo comprendere meglio e più chiaramente l’intero. Secondo la P.O. mettendo insieme le nostre parti o i nostri io ci colleghiamo al nostro io maggiore, al nostro io intero e ne otteniamo una visione migliore. Allargando questa visione sul sociale, ogni gruppo di persone crea un intero maggiore dotato di più potenza, amore e creatività rispetto ai singoli e anche rispetto alla somma dei loro sforzi individuali.

La coscienza crea la realtà e la propria esperienza della realtà. Questo significa che le esperienze sono determinate dalle aspettative le quali, a loro volta, si fondano sulle convinzioni del soggetto e sul suo retaggio culturale. Se la coscienza crea la realtà crea  anche  la propria esperienza del reale.

Riassumendo, attraverso l’approccio teorico-pratico  della P.O. allarghiamo la visione della realtà dell’universo all’essenza, che comprende l’essenza personale/individuale e contemporaneamente quella di tutto ciò che esiste. Ogni creazione procede da quell’essenza: la nostra coscienza, la nostra mente, i  nostri sentimenti e la materia, incluso il nostro corpo fisico. 

Il problema della diagnosi

Quando si nomina una malattia, fisica o psichica, si rinchiude il paziente all’interno di un quadro ristretto, uno spazio angusto dal quale difficilmente potrà trovare le forze per rendersi libero.

In un certo senso, ogni volta che diamo origine ad un pensiero o ad un’idea di malattia, da qualche parte quest’energia comincia ad esistere, a prendere forma; inizia a dare dei segnali, dei presagi, anche se non del tutto e non da tutti avvertibili.

Con il solo proferire il nome della malattia, quindi, colleghiamo il paziente con quest’energia impercettibile ma reale di “coscienza sconosciuta” cui parlavamo. È come se la persona che ha subito una diagnosi si connettesse ad un “portale energetico” alimentato dalla sommatoria dell’energia dei singoli pensieri di malattia.

Prendiamo per esempio la parola “cancro”, basterà questa semplice ma potente parola perché la persona che riceve la diagnosi sia immediatamente messa in comunicazione con l’influenza di questa energia-coscienza che è connessa a questo preciso termine, e che genererà in lui paura, invalidità, morte.

Questa parola incomincia a riecheggiare nella mente della persona placcata al punto tale che il suo inconscio tenta involontariamente di corrispondere con la malattia diagnosticata, di “quadrare” per così dire con quello che gli è stato diagnosticato.

I nomi di certe malattie riescono a rendere vera qualsiasi affermazione, soprattutto per persone già fragili e poco protette le quali non fanno altro che mettere in rapporto la loro cagionevolezza con quella parte potente d’inconscio collettivo dove si condensano le forze distruttive e limitanti dell’idea stessa della malattia.

Una diagnosi di schizofrenia, per esempio, può bloccare una persona dentro quest’energia-coscienza per giorni interi, fino a spingere l’interessato a sottomettersi ad un’inframmettenza terapeutica.

Non vogliamo affermare che le parole vadano abolite, ma fintanto che la diagnosi non è certa e, sopratutto quando si tratta di malattie che non si sono ancora manifestate sul piano fisico/organico, tracciare limiti e apporre dei nomi è come voler mettere una persona in una gabbia da cui le sarà ancora più difficile uscire.

Ci rendiamo conto che molte persone hanno bisogno di questa gabbia perché questo le fa sentire più sicure: trovare una definizione con cui identificarsi è veramente molto rassicurante e, soprattutto altamente deresponsabilizzante.

Dall’altra parte, per il vecchio impianto terapeutico questo sistema garantiva un’estrema copertura di funzionalità: non trattando più con la persona, ma con quella parte d’energia-coscienza collettiva, il terapeuta attingeva anch’esso a forze contrastanti create e custodite segretamente da generazioni di scientisti della salute per sconfiggere il sintomo senza implicazioni personali.

Avevamo così da una parte il “paziente” come massa incosciente e irresponsabile e, dall’altra, il terapeuta quale applicatore di metodi e sistemi collaudati e affermati nel tempo ai quali delegava la sua perduta responsabilità.

Questo vincolo di doppia irresponsabilità ha contribuito nel tempo non solo a rafforzare il dualismo e il senso di separazione e solitudine ad esso connesso, ma ha portato molta paura, dolore, disperazione, disagio e malattia:

 

La vera malattia dell’Uomo è l’inconsapevolezza di ciò che abita in lui

 

Si tratta di capire e scegliere da quale mondo interiore farsi abitare; siamo nel mondo, ma il mondo abita in noi. Prendere coscienza che siamo noi, e noi soltanto ad isolare alcuni frammenti di realtà fra i tanti e a portarceli appresso anche quando non è più necessario, comporta l’assunzione della piena responsabilità di ciò che siamo, momento per momento. Permette una trasmutazione alchemica profonda che non è una cosa magica e vaga, ma al contrario ci permette veramente di spogliarci della nostra vecchia abitudine di delegare sempre il nostro benessere ad un altro considerato più “grande” di noi il nostro genitore ideale che non abbiamo mai smesso di cercare.

Quando smettiamo di rivestire il ruolo di testimone, il cui scopo è quello di mantenerci nell’illusione e diventiamo invece attori della nostra stessa vita, non abbiamo più paura di perdere la nostra identità fittizia, e riusciamo ad accettare anche la morte poiché siamo nella verità ci rendiamo conto che l’unica cosa che può morire è l’ego.

La morte nasce in noi ogni volta che non ascoltiamo la voce del nostro cuore, ogni volta che non lasciamo circolare la vita attraverso di noi in assoluta libertà. Il dolore non è altro che un’invenzione di un’umanità disumanizzata che ha voluto dimostrare la sua superiorità nei confronti della vita stessa tramite un pensiero d’assoluta perfezione. La nozione di sofferenza è profondamente impressa nella coscienza umana collettiva da così tanto tempo che per dissolverla dovremmo spezzare l’abitudine di sottometterci al sonno ipnotico falsamente rassicurante in cui siamo calati.

Affermare queste conoscenze in maniera intellettuale non serve a niente, la comprensione meramente intellettuale non fa altro che attivare la nostra mente ordinaria, e più la mente ordinaria è attiva, più è difficile raggiungere la nostra essenza. La mente ordinaria agisce come un velo che maschera la vita, offrendoci uno sguardo dualista sugli eventi della vita stessa. Con questo sguardo discriminante non possiamo che avanzare come se fossimo rivestiti da una pesante armatura, che forse un giorno è servita a proteggerci, ma che oggi c’ingombra, impedendoci di proseguire.

Siamo, ora, al punto di non ritorno, l’era della coscienzalizzazione: è giunto il momento di recuperare la nostra indipendenza, lasciare le paure e i condizionamenti della mente per riscoprire ciò che non è più nostro. Occorre una nuova educazione che punti intensamente sul risveglio di coscienza, sulla responsabilità che ogni singola persona ha di contribuire a creare un nuovo Universo, per uscire dalla logica analogica di curare il sintomo, la malattia, il disturbo. Bisogna portare l’attenzione sull’essere umano nel suo insieme. Lo scopo non è quello di rimuovere o eliminare parti della persona più o meno dannose o dolorose, ma consentire a queste parti di ricollegarsi con la totalità del soggetto affinché questi possa raggiungere la sua straordinaria potenzialità, fare sbocciare il seme della felicità in lui riposto e vivere nell’armonia dell’interezza.

Per questo non c’è bisogno di terrificanti diagnosi che il paziente non sarà in grado di gestire e verificare, il cui solo scopo è di opprimerlo ad una subordinazione devozionale col suo terapeuta.

Sta nascendo una nuova Medicina che non considera la guarigione come raggiungimento di uno stato in cui non c’e spazio per la malattia. Al contrario, osserva attentamente il manifestarsi di un sintomo come un segnale, un’indicazione preziosa da leggere e comprendere affinché il soggetto possa ritrovare la via dell’allineamento con quelle forze positive che ci spingono ad uscire dall’incanto soporifero, dall’illusione del mondo materiale e che ci aiutano a riprogrammare la nostra vita in una direzione di profondità spirituale.

Ogni volta che scegliamo di assumerci la piena responsabilità della nostra condizione, sia essa fisica sociale, culturale, rafforziamo il nostro potere interiore, poniamo un limite all’autorità che il mondo materiale esercita sulla nostra vita, sul corpo, la salute, la mente, lo spirito.

Quanto meno il mondo esterno influisce con la nostra ampiezza spirituale, tanto più questa rafforza il nostro campo d’energia, quanto più saremo centrati con la nostra essenza spirituale, tanto minore saranno i contatti che avremo con persone ed esperienze negative.

La percezione che n’abbiamo è quella di sentirci “vivi dentro”, rinnovati della nostra forza interiore, ed è possibile che, in un improvviso lampo di luce, allora, riusciamo ad intravedere la soluzione di un problema che prima ci sembrava insormontabile, è possibile che pensiamo a noi stessi come individui potenti e ci rendiamo conto che possiamo raggiungere qualsiasi obiettivo, dalla forma fisica alla realizzazione dei nostri sogni più reconditi.

Malattia e Destino

Sicuramente è molto importante curare il corpo fisico o risolvere un problema psicologico, ma è essenziale adottare una prospettiva che miri a risanare la persona piuttosto che curare la malattia, più si tende a quest’obiettivo di totalità, più profondo e completo è il processo di rigenerazione che si ottiene.

All’interno di questa visione, il concetto di salute sembra non avere limiti, ed una volta che l’individuo comincia a seguire il suo piano terapeutico, la guarigione diventa un processo di crescita e d’apprendimento che dura tutta la vita diventando un’avventura che induce ad esperienze ancora più profonde e complete.

La malattia può quindi servirci per capire che forse non stiamo realizzando ciò di cui abbiamo realmente bisogno per creare la nostra vita. Quando viviamo un’esperienza terrificante, ostile, dolorosa, di intensità esagerata, la nostra coscienza non riesce a gestirla, è come se per un attimo ci distaccassimo, incapaci di sentire e di percepire.

In quei momenti entriamo in uno stato di shock. Dopo passato il momento di culmine, la coscienza si riunisce e, quasi non ricordiamo l'accaduto o comunque ne cancelliamo le punte dolorose. Nella nostra mente in coscia però rimangono registrate tali informazioni, fino a creare come un solco nei pensieri stessi.

Questi solchi ghermiscono una propria consistenza, un’intensità tale da poter parlare in termini di densità stessa “dell’energia pensiero molti ricercatori li definiscono forme pensiero capaci di rapprendersi nelle zone del corpo corrispondenti a secondo della loro natura. Causando ulteriore disarmonia e conseguente sofferenza.

Un vecchio adagio sostiene che "l'energia segue il pensiero" questo indica che i pensieri di cui parlavamo prima, agiscono autonomamente, ci muovono misteriosamente a compiere azioni di cui spesso non ci rendiamo conto.

Spesse volte invece non permettiamo a noi stessi di esprimere questa forma di energia, la quale, non trovando possibilità di espressione verso l'esterno comincia piano, piano, a concentrarsi nel nostro corpo fisico per cristallizzarsi e riconoscersi come Disfunzione Biologica. Ogni volta che blocchiamo l’energia delle dinamiche creative, nascono bisogni insoddisfatti e con loro, dolore e sofferenza. Portare allo scoperto questi spazi interiori è il solo modo per fare affluire energia vitale.

Altre volte invece, quando non vogliamo entrare in contatto con queste parti di noi dolorose cerchiamo di "compensare" con delle azioni fittizie che ci servono a distrarci o cerchiamo di stordirci con degli espedienti che a lungo andare ci danneggiano inreversibilmente.

La malattia in quest’accezione nasce per alterazione del nostro “sistema di Bilanciamento”. Il nostro corpo tende sempre a trovare un equilibrio, verso una sua Armonia "regolata da una logica interna" quando per i motivi citati prima perdiamo contatto con questa saggezza innata, non riusciamo più ad ascoltarci a capire realmente ciò di cui abbiamo bisogno, anzi ci diamo altre cose che ci allontanano sempre più dal nostro centro di coscienza, fino a quando non ci scontriamo con un altro principio di realtà che chiamiamo Malattia.

La consapevolezza è il primo passo verso la guarigione, ammettere l’esistenza di queste forme di pensiero “negative” per il nostro benessere è il primo passo per un riconoscimento delle proprie capacità di discernimento e di autoguarigione.

Assumersi la responsabilità delle nostre scelte e del fatto che i nostri stessi pensieri possano determinare la realtà in cui siamo calati, significa sentirsi parte del processo stesso dell’esistenza, sentirsi co-creatori del tutto, in una parola:

Artefici del proprio Destino.

 La malattia assume così una specifica ragione di esistere, tutto ritrova una ragione d’essere e di esistere in un Armonia sempre più estesa a livelli più intensi ed elevati di coscienza.

Sentirsi coscienti delle proprie forme pensiero ci porta ad onorare e accettare noi stessi che l’abbiamo create, ed anche, approvare tutte le idee e gli atti con i quali  abbiamo realizzato la nostra realtà.

Riuscire a fare questo, ci aiuta ad accettare e superare ulteriori complicazioni che derivano dalla malattia.

Non si tratta di accettare la malattia arrendendosi ad essa e a tutti i suoi processi; bisogna piuttosto fidarsi profondamente della vita, amarla e accettare fino in fondo, celebrare noi stessi in qualsiasi condizione ci troviamo, entrare in contatto con una parte più profonda della nostra essenza, comunicare con essa e scoprirne la sua naturale predisposizione alla guarigione.

Comunicare con questa parte di coscienza più alta di noi significa entrare in un processo permanente di crescita e di apprendimento, significa accettare la trasformazione e quindi la vita stessa nelle sue imprevedibilità e in riducibilità.

Sperimentiamo come la sanità dell’amore, è un’espressione del io profondo e la parte del corpo che si ammala, corrisponde a quella cui non abbiamo consentito alla nostra essenza più vera di esprimersi.

La malattia, quindi non è altro che la voce sommersa del nostro bambino interiore che vuole venire alla luce, che vuole vivere, sovrastata dall’urlo dal bambino impostore e compiante agli adulti per riceverne approvazione.

Ogni volta che lottiamo contro un sintomo, per non sentirlo, perdiamo la possibilità di entrare in contatto con questa voce, con noi stessi, con la parte più profonda e vera della nostra essenza; perdiamo la sovranità personale per continuare a cercare approvazione nell’adulto, quella persona più grande di noi, alla quale continuiamo a demandare perenne riconoscimento.

 

Itinerari di un’educazione Olistica

 

Parlare oggi di Pedagogia sembrerebbe un discorso fuori moda, per molti aspetti desueto. Nelle nostre università è cambiato persino il nome: adesso si chiama scienza dell’educazione: come dire, per stare al sicuro, è sempre meglio utilizzare la parola “scienza”.

Nel momento in cui la scienza accetta un limite al suo campo d’indagine diventa innocua e, all’interno del suo angusto recinto, può sperimentare di tutto. Un tutto già selezionato e devitalizzato dalla parte fondamentale: l’essenza spirituale. Essenza che anima la materia e scorre dentro come un soffio inafferrabile e ci fa sentire vivi, ci muove e fa muovere il mondo.

Fintantoché ci dedichiamo ad un’indagine del mondo fisico, o meglio dire di un certo tipo di fisica, quest’amputazione di conoscenza riesce ancora a prestare risposte facendo presa con l’oggetto di studio. I presupposti della matematica e della geo-metria riescono ancora a fornire adeguate soluzioni e sicurezza.

Nel campo della scienza medica questo tipo di riduzione epistemologica comincia a dare corpo ad una serie di problemi che nei giorni nostri si stanno esprimendosi attraverso svariate forme d’associazionismo underground. Associazionismo che mira alla presa di coscienza della persona, attraverso una sempre più consapevole responsabilità individuale.

La fisica quantica, infatti, ampliando il campo d’indagine subatomica, ha messo in crisi i fondamenti scientifici non solo della Medicina ma della fisica stessa e di tutte le scienze ad essa connesse. Il famoso DNA che stava diventato per i Darvinisti una forma di nume, comincia a vacillare. Il fatto che possa essere modificato ha aperto un baratro senza fondo: il limite della materia è stato valicato. Alcuni ricercatori dell’avanguardia cominciano seriamente a contemplare l’origine della malattia nella perdita d’equilibrio tra la luce e respiro.

Appare evidente che in questo momento di transizione, le scoperte della fisica quantica in medicina vengono ancora volutamente ignorate, probabilmente non sono ancora collaudate per competere con le garanzie offerte dai sistemi ortodossi. Si continua perciò con vaccini, psicofarmaci e chemioterapie.

Un campo di ricerca in cui il riduzionismo scientista è diventato veramente paradossale, è quello dello studio dell’anima, o per dirlo con una parola: della Psicologia.

Questa disciplina, per rientrare nel recinto di un’ermeneutica scientifica, ha trasformato il soggetto nell’oggetto della propria ricerca di studio. Trasformare un soggetto, con la propria irriducibile unicità, in un oggetto circoscritto d’indagine, è veramente un’azione forviante e corrompente. Negando la componente spirituale del soggetto stesso, rimane da chiedersi: cos’è che la scienza psicologica intende per Anima?

La Pedagogia, al contrario, è stata tagliata fuori da quest’ambiguo scenario recinzionista. Occupandosi d’educazione, ha dato e continua a dare fastidio ai Signori dei Massimi Sistemi Religiosi, interferendo con i loro subdoli attentissimi.

Ora, delle due l’una: o la Pedagogia si sottomette al limite dettato da questi abili strateghi della demagogia, come del resto hanno fatto tutte le discipline scientifiche, o esce dalla scena in quanto non scientifica.

Non rimaneva altra scelta: per mantenere la sua dignità epistemologica, la Pedagogia è stata costretta a tirarsi indietro. Uscire dallo scenario culturale, ha permesso alla Pedagogia di continuare a vivere in maniera non corrotta e di occuparsi d’educazione intesa come competenza ad educere, capacità quindi di superare i confini e interrogarsi sul senso stesso del termine e delle cause che lo producono.

Educazione alla Trascendenza

Nella babele educativa in cui siamo immersi, i responsabili dei sistemi istruttivi si preoccupano di potenziare le capacità comunicative, di affinare le capacità relazionali, perfezionare i sistemi di valutazione, di portare avanti i propri progetti di ricerca didattica, ma pochi s’interrogano veramente sul senso dei valori che trasmettiamo ai nostri bambini. Sembra quasi un qualcosa che non li riguarda, come se tutto quello che oggi è, non si possa neppure lontanamente pensare di metterlo in discussione.

La forma, gli stili, le modalità e i termini del “come” prevaricano inesorabilmente sul “cosa” vale a dire sui contenuti dell’azione pedagogica.

Ovviamente noi siamo il risultato della nostra educazione ricevuta, la quale essendo propria, la riteniamo giusta e buona. L’unica cosa che rimane da fare è solamente trasmetterla ai nostri bambini nel miglior modo possibile.

All’interno di questa visione sembra quasi paradossale che qualcuno pensi ad un’altra scala di valori, a nuove verità da trasmettere o ricercare.

Il modo per mantenere suppurato questo tipo di sistema formativo è senza dubbio la pretesa che i saperi trasmessi siano validi poiché erano buoni allora, lo devono per forza essere anche ora.

Vediamo adesso cosa succede all’interno di una famiglia comune partendo dal matrimonio:

Il motivo per cui ci si sposa dovrebbe essere quello di una condivisione della Gioia nell’Amore.

In realtà il presupposto che spesso induce due persone a sposarsi è quello di compensare il gran vuoto della solitudine, cosi i due coniugi scendono a patti per soddisfare un comune interesse. Il patto tacito è quello di perdere la propria libertà in nome della redenzione dei propri bisogni, ovviamente questo è negato da loro e frainteso con l’amore.

Certo che in nessuna scuola, ancora oggi non è trasmesso il valore dell’Amore come Libertà, Verità, Trasparenza.

La scuola nostra è un buon esempio dell’educazione all’ipocrisia, basta pensare che ancora esiste un sistema di valutazione della ritenzione mnemonica per far sentire un bambino “Bravo” ovviamente quello con meno memoria, quello cattivo per sopravvivere è costretto a non essere se stesso, a fare finta d’essere come lo vuole un sistema che ha bisogno di funzionare sempre nello stesso modo.

La cosa peggiore che il bravo bambino è quello che furbescamente ha imparato il modo come stare a galla a prescindere dalle cose che debba fare, imparare, pensare. In pratica, il bravo bambino è colui che essendosi adattato a rinunciare a se stesso per un riconoscimento prima sociale poi etico, continua a rinnegare se stesso fino a quando un trauma esterno s’impone con forza a turbare quell’equilibrio fittizio.

Una scuola così non lascia scampo, o subisci o fingi di esserci dentro sperando che la gabbia protettiva che ci siamo costruiti per sopravvivere funzioni tutta la vita.

Tornando ai nostri due coniugi, dopo l’ubriacatura dell’innamoramento non rimane altro da fare che separarsi, lasciarsi più o meno bene e ritentare in un’altra avventura come dire altro giro, altra prova; oppure tentare la mossa/morsa/morsicante del matrimonio. Dopo poco tempo i due che inevitabilmente sceglieranno il matrimonio, si accorgono che di fatti non è cambiato molto, invece che sentirsi soli da soli, si sentono soli in due, la mossa successiva allora e quella di concepire un bambino quale elemento salvifico del rapporto diventato ormai mono-tono.

Spesso il bambino non è ancora nato che lui, il Marito è già da un’altra parte, altre volte riesce a resistere per quasi un anno la frustrazione del sentirsi messo da parte. Nel frattempo lei, invece, ha riposto tutti i suoi bisogni nel neonato che gli da tutto l’affetto necessario per trovare la forza di andare avanti da sola.

Nel caso in cui, uno dei due partner, quello che ha imparato a scuola la giusta dose d’ipocrisia, il bravo bambino per capirci, riesce a fare funzionare il rapporto e a farlo andare avanti un po’ per forza d’abitudine e un po’ per l’immissione d’adeguate valvole di scarico che di proposito la società mette a disposizione.

Alcune di queste distrazioni si possono chiamare Barboncino, Shopping, Gruppi per Sole Donne per lei, amichetta, Sport, soldi, Successo per lui.

Un bambino, in questa logica, nasce per un bisogno dei genitori o peggio ancora per incoscienza di questi, gettato così per dire nel mondo, se gli va bene, ma spesse volte, tirato fuori con forza o con macchinosità, non sa lui stesso cosa ci fa in questo mondo e perché ci si trova.

Non ha neanche il tempo di un primo respiro che subito diventa un ingranaggio di un sistema rotante di una giostra senza senso dove non potrà mai trovare un significato al suo esistere, se tutto intorno a lui non è altro che un laboratorio, predisposto ad hoc, per rimanere incosciente di se stesso e della sua vera natura.

In tutta quest’incoscienza lui, il bambino prima, e l’adulto dopo, non sa perché è nato, non sa cosa fare della sua vita, non sa quando questa finisce, non capisce perché si ammala, non sa come fare a guarire.

Nel frattempo a scuola continua ancora a studiare le stesse identiche cose di cinquecento anni fa.

Nessuno si preoccupa della sua felicità, della sua relazione con il mondo, del suo rapporto con Dio, della capacità d’essere vero, del valore della purezza, del senso della vita, della ricerca del trascendente.

Le cose più importanti non sono insegnate da nessuna parte, attorno a lui vive un intenso mare di confusione in cui la sola cosa da sperimentare per trovare un limite è la trasgressione.

In questo stato d’ottundimento, cominciano a nascere i primi fondamenti su cui poggiarsi, vale a dire i riferimenti che gli permettono di orientarsi, quelle che sono chiamate regole sociali o leggi.

Il bambino non partecipa direttamente con queste regole, la disciplina è imposta, trasmessa, ma non sperimentata, vissuta. L’ovvia conseguenza di un’imposizione esterna è la ribellione, ma il ribelle è isolato, non trova spazio, allora si nasconde dentro ognuno di noi, per vivere avvinghiato su se stesso, incapsulato come una cimice su di un albero nell’attesa di un cane o di un altro animale su cui crescere e proliferare.

Nel frattempo cominciano a nascere le illusioni per poter meglio sopportare questa prigionia del bambino ribelle domato, rinnegato, sommerso nell’oblio.

La prima illusione su cui ci poggiamo è la certezza della morte, se non avessimo questa certezza, si rischierebbe di impazzire alla sola idea di rimanere eternamente dentro questa trappola insensata che chiamiamo vita.

La speranza della morte è quella forza dorata, quella promessa d’ineluttabile trasformazione che s’impone dall’esterno nonostante la nostra paura al cambiamento. L’aspettazione è quella forza che ci permette di sopravvivere, di accumulare giorni di sopra-vvivenza: sopra, fuori e non dentro la vita!

Il tempo, infatti, è la seconda gran trappola su cui poggiamo i nostri riferimenti ingannevoli, anche se sappiamo benissimo che il nostro calendario è tutta una costruzione fittizia, facciamo finta di confidarci, anzi ci crediamo veramente. Trasformiamo la nostra vita in una saletta d’aspetto accumulando l’illusione che qualcosa avvenga, ma non sappiamo cosa, e in ogni caso, non facciamo niente per farla accadere se non aspettare qualcuno che ci tragga in salvo.

Non solo releghiamo ad altri la nostra coscienza, ma anche il nostro corpo, terza illusione su cui poggiamo la nostra identità, lo prostituiamo al Medico, quando ci ammaliamo, perché riteniamo che questo sia in grado di capire il motivo secondo cui il corpo non funziona più.

La nostra Medicina assediata da circa seicento anni non fa altro che eliminare il Sintomo, spegnere il campanello d’allarme che a volte ci allarma per tutta una vita senza che siamo riusciti a sentirlo una sola volta.

Il medico, quale meccanico della Giostra del Vuoto, a sua volta non ha nessun rapporto col trascendente, infatti, si rivolge ai sistemi religiosi in auge, i ministri di tali sistemi a loro volta si ammalano e si rivolgano al medico di turno che cerca di dare giorni di vita o meglio di “sopravvivenza”.

Nessuno si preoccupa di dare vita ai giorni di riempirli di Significato, di Valore, d’Amore.

Per uscire da una prigione, a parte tutti gli accorgimenti pratici, occorre prima di tutto avere la consapevolezza di esserci, se non c’è la coscienza di una prigione, non c’è neppure la possibilità di potersi liberare.

Un giorno, forse, i nostri nipoti si sconcerteranno delle tante piccole cose su cui noi oggi poggiamo le nostre certezze e confidiamo con tanta fermezza.

Un giorno, quando non teniamo più prigionieri i nostri figli in un angusto palazzo, per tutta la mattina ed oltre, riempiendogli la testa d’inutili e anacronistiche nozioni o infarcendoli di psicofarmaci, quando l’uomo si sarà liberato dalla paura che lo costringe ad una pseudo schiavitù, per più d’otto ore al giorno, quel giorno quando nasceranno bambini nella coscienza dell’Amore ritrovato, ci accorgeremo che quei bambini liberi di vivere e d’Amare forse non sono solo lattanti, ma messaggeri divini.

Conclusioni

 

Parecchi professionisti in erba dedichi alla Pedagogia, anelerebbero ad un riconoscimento istituzionale: non riescono a comprendere il motivo, per cui tutti oggi si occupano d’educazione all’infuori dei preposti che hanno fatto un corso di studi specifico.

L’istituzione tende, per sua natura, a mantenere e trasmettere la stessa forma mentre, la Pedagogia intesa come processo evolutivo: Trans-forma. Passa attraverso la forma per giungere all’essenza. Un percorso indubbiamente pericoloso per coloro che hanno interesse a rimanere in-formati in una posizione di supremazia.

L’obiettivo di una Pedagogia che può definirsi degna di tale nome, è sicuramente quello di polire l’individuo dalle sovrastrutture culturali e farlo brillare della propria luce interiore, restituendo al soggetto la sua irrinunciabile individualità e integrazione di corpo, mente, spirito.

Al contrario, una Pedagogia disposta a sottomettersi alle politiche riduzionistiche, non sarà mai Pedagogia, ma il duplicato di un’altra delle fantasiose e inutili scienze inanimate.

Le prescrizioni religiose stanno mettendo al bando le discipline alternative e le relative associazioni che si occupano dello studio della natura umana in maniera nuova, integrata e incondizionata.

Dichiarate demoniache da tali imposizioni dogmatiche, le nuove correnti di pensiero continuano a germinare dietro un recinto in giustezza, ponendosi reciprocamente gli uni, i tradizionalisti, contro gli altri, i progressisti, dalla parte del bene.

Continuando però ad eliminare il diverso, non facciamo altro che portare avanti la via della separazione e della competizione, alimentando sofferenza e conflitto.

La divisione in sè non porterà mai armonia, poiché sarà sempre manchevole di una parte. La nostalgia della parte mancante impone all’anima una continua ricerca di senso che sarà spettanza e appannaggio dei detentori del polo spirituale.

Fin dalle origini della storia dell’uomo ai giorni nostri, il vecchio adagio “dividi e impera” trova valido riscontro. Dividendo la coscienza, si riesce ad eliminarla o neutralizzarla, per capitanarla deliberatamente a proprio tornaconto. L’idea che esista un Creatore ed una Creatura è talmente stratificata nella nostra coscienza per cui risulta difficile pensare una natura indifferenziata in cui il singolo sia parte del tutto e viceversa. Questa ferita originaria ci fa sentire soli e sconnessi dal mondo. Ci obbliga a cercare qualcuno o qualcosa con cui religere.

Non credo che la Pedagogia debba cercare riconoscimento dall’istituzione, non potrà ottenerlo eccetto che negando se stessa, ed anche negando se stessa non riuscirebbe ed esistere se non come cosa “altra”. Il fallimento della psicologia testimonia ciò che è rimasto di un sapere senza anima.

Al contrario la Pedagogia dovrà avere il coraggio di abbracciare le differenze, cercare un punto focale di confronto, andando incontro ad un processo d’integrazione coerente e consapevole.

Una nuova Pedagogia che sappia essere olistica nella sua più intima natura, capace di spaziare nella vastità degli opposti, portando in sé non il bisogno di un riconoscimento servile, né l’impeto di un rifiuto ma la responsabilità di un dialogo adulto e bilanciato che osi integrare le divergenze epistemologiche e le fratture sapienziali. 

RIFERIMENTI TEORICI E BIBLIOGRAFICI

 

T. Dethelfesen e R Dahlke  “Malattia e DestinoEdz Mediterranee

Claudia Rainville “MetamedicinaEdz. Amrita

Anna Barbara Brennan “Mani di Luce” Edz. Longanesi

Anna Barbara Brennan “ Luce Emergente” Edz. Longanesi 

Caroline MisstAnatomia dello Spirito” Edz. Mondadori          

M. A. Ricci “La realtà vibrazionale: capire ciò che avviene e l’arte di farlo accadere”  Xenia Ed.

R. Zamperini “Anatomia sottile: atlante di terapia energo-vibrazional