Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il capitalismo selvaggio negli Stati Uniti ( 1860 – 1900) [recensione]

Il capitalismo selvaggio negli Stati Uniti ( 1860 – 1900) [recensione]

di Stefano Boninsegni - 24/11/2006

Marianne Debouzy,  Il capitalismo selvaggio negli Stati Uniti ( 1860 – 1900).

 

In sintonia con i teorici californiani della new economy, Lester C. Thurow, economista influente, ha sostenuto che  proprio nell’economia vada cercata la soluzione che ci sbarazzi dal carattere letalmente insipido dei tempi correnti, per la precisione nella new economy  resa possibile dalle nuove e profonde scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche.

Tutto ciò aprirebbe  la via ad  generazione di nuovi e identificabili  costruttori di imperi economici (in altre parole è il capitalismo che si ridà un volto, modello Microsoft – Gates ), alle cui lotte e vicende la gente possa appassionarsi, ritrovando così un “mondo incantato”

Il riferimento storico al quale l’economista ammicca, è la fase della storia americana  della seconda metà dello ottocento, che vide uomini  “provenienti dal nulla”, arrivare alla posizione di magnate : Daniel Drew, Cornelius Vandelbilt, Andrew Carnegie, John D. Rockefeller, ecc. Sono questi uomini che incarneranno, agli occhi degli uomini del nuovo mondo, l’ideale del self made- man, parte integrante dell’American dream, la religione civile che unisce tutti gli americani.

Dopo un fase critica dell’operato dei magnati, le posizioni attuali dominanti in fatto di storia economica riprendono sostanzialmente le tesi correnti durante la guerra fredda, secondo le quali senza il genio di questi businnes men l’America non sarebbe diventata la prima potenza industriale, nonostante le immense risorse. Il businnes, si teorizza, è in realtà una forma d’arte, l’arte specifica del popolo americano.

Contro questa ricostruzione ideologica si scaglia la studiosa francese, asserendo che in realtà i magnati, al di là delle loro dichiarazioni di amor patrio, regalarono decenni di capitalismo selvaggio, biecamente speculativo. Il che contiene senz’altro profondi elementi di verità, mentre sbaglia ad associare alla nozione di capitalismo selvaggio il condurre i propri affari, così come fecero i soggetti in questione, senza porsi alcuna preoccupazione sociale ed etica. E’ la dottrina liberale stessa che lo prevede come condizione essenziale del funzionamento della “mano invisibile” del Mercato. Tuttavia detto per inciso, si tratta di un errore interessante , perché riflette una convinzione tipica di molti autori e gente comune, che eternizzano  la particolare configurazione sociale assunta dal capitalismo nell’era socialdemocratica, considerandola come una sorta di soglia di accettabilità sotto la quale non si può scendere.

Il libro della Debouzy , che in realtà si limita ad analizzare lo sviluppo delle strade ferrate, un settore dove in particolare è presente un aspetto “frontieristico”, prende le mosse dalla decisione del partito Repubblicano al Governo di,  terminata la guerra di secessione, dare il via allo sviluppo del trasporto ferroviario, fino alla costruzione di una ferrovia transcontinentale.

Per gli eventuali imprenditori erano previsti finanziamenti ( rispetto a questo fu essenziale l’opera del finanziere Morgan nel convincere i banchieri dell’est sulla lucrosità dell’affare )  e concessioni varie e importanti, quali lo sfruttamento delle risorse che giacevano sotto e sopra gli ampi territori attraversati dalle ferrovie.

Inizia così la “grande impresa”, costellata, come puntigliosamente riportato dall’autrice, da concorrenza sleale fino allo scontro fisico e al sabotaggio, odiose speculazioni, corruzione politica, un clima di intimidazione e di ricatto verso agricoltori e comunità locali

In ogni caso, nel 1869 la ferrovia transcontinentale fu realizzata, e tutti quelli che avevano partecipato all’impresa, proclamati “eroi nazionali” ( le ferrovie americane erano scomode e insicure, frutto dell’avidità affaristica ).

Le conseguenze fondamentali di tale processo furono essenzialmente due. Innanzitutto il dominio del capitalismo finanziario sul capitalismo industriale. E inoltre, grazie alle varie concessioni territoriali concesse alle ferrovie, si arrivò a grandi concentrazioni economiche e di ricchezza. Era insomma l’avvento del capitalismo monopolistico, che secondo l’autrice, avrebbe costituito una rottura radicale con l’originale mentalità americana, ispirata ad un individualismo democratico ostile ad ogni eccessiva differenza di condizione e, sotto certo aspetti, allo stesso lavoro salariato.

Per questo la Debouzy insiste nel vedere, nei grandi cicli di lotta popolari successivi,  non solo un aspetto rivendicativo, ma un soffuso elemento utopico verso il restauro dell’America come democrazia di piccoli proprietari Non per nulla nel 1890 nasce il People’s Party, che ebbe una breve ma indiscutibile influenza, trascinando nelle lotte piccoli proprietari agricoli, proprietari di piccole officine restii a diventare dei lavoratori salariati, ecc.

E’ la tesi, grosso modo, avanzata da Christopher Lasch. Ma vi sono altre interpretazioni : secondo Sombart la febbre speculativa era costitutiva del popolo del mondo nuovo, la cui Costituzione stessa invitava ognuno ad arricchirsi.

Quel che sicuramente cambiò fu il costume dei capitalisti, passando dalla sobrietà di weberiana memoria ( Vanderbilt andava sempre vestito di nero e con la bibbia fra le mani ) alla voglia di ostentare la propria ricchezza, e nello stesso tempo l’aspirazione a raffinarsi, “aristocratizzarsi”, ovvero europeizzarsi.

Ne conseguì un  processo ridicolo di emulazione pecuniaria, di cui fanno testimonianza le dimore costosissime quanto orribili che si possono ancora vedere e visitare, frutto di un eclettismo insensato. Il collo delle mogli, osserva l’autrice, veniva erto ad organo più importante, perché vi si ponevano appendere collane dai prezzi altissimi

Eppure, notiamo, anche queste stramberie avranno un loro ruolo nel configurare e preparare gli americani ad una nuova fase del capitalismo, ovvero quella del consumismo di massa e delle alte paghe di Ford.

In chiusura del testo la studiosa francese si cimenta nel cercare quali elementi ideologici, stravolto l’assetto economico e sociale, legittimasse il potere dei magnati, indicandoli nella propagazione del darwinismo sociale, del superominismo, dell’uso della beneficenza a scopo di consenso.

Dalla nostra crediamo che la più profonda legittimazione derivasse dalle loro storie personali di ascesa sociale, che erano storie di sfide vinte soprattutto con sé stessi, secondo il sentimento dell’American dream,  che appassionarono gli americani e legittimavano l’America come la terra promessa delle opportunità.