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Banca d’Italia: chi controlla i controllori?

di Andrea Angelini - 30/11/2006




Chi controlla i controllori? Per la Banca d’Italia l’interrogativo è d’obbligo visto che, in conseguenza dei processi di privatizzazione delle numerose banche che erano di proprietà dello Stato, sia direttamente attraverso il Tesoro sia indirettamente tramite l’Iri, sono più di dieci anni che l’istituto di Via Nazionale si trova nella incredibile situazione di essere controllato, dal punto di vista azionario, da quelle stesse banche di cui, secondo la legge, deve controllare l’operato e, se necessario, frenare gli eccessi.
Infatti, come banca centrale nazionale, la Banca d’Italia opera come organismo di vigilanza e controllo e come parte integrante del sistema europeo delle banche centrali realizza la politica monetaria decisa a livello comunitario a Francoforte, sede appunto della Bce, la Banca centrale europea.
Ieri, intervenendo all’assemblea straordinaria di Palazzo Koch chiamata ad approvare il nuovo Statuto, il Governatore Mario Draghi, nel suo intervento, ha colto l’occasione per ricordare questo curioso stato di cose e per sottolineare che resta appunto aperto il nodo dell’assetto proprietario della Banca d’Italia.
Ha affermato infatti Draghi che “rimane viva la necessità di riconsiderare le scelte effettuate dal legislatore circa la configurazione dell’assetto proprietario della Banca, per la piena tutela dell’autonomia e dell’indipendenza dell’istituto”.
Una rivendicazione di autonomia, fatta da un alto dirigente dello Stato, una rivendicazione di quel poco di autonomia che è restata a Via Nazionale e al nostro paese dopo l’assoggettamento (dal 1 giugno del 1998) ai voleri della neonata Banca Centrale Europea e dopo l’entrata in vigore dell’euro (dal 1 gennaio 2001).
Una rivendicazione che da un lato può suonare gradita a chi tiene alla nostra indipendenza nazionale (che passa necessariamente anche attraverso la difesa della nostra sovranità monetaria o di quel poco che ne resta) ma che dall’altro lascia quanto mai sconcertati se si pensa alle vicende passate di cui l’attuale Governatore fu protagonista. Mario Draghi infatti fu direttore generale del Tesoro, e come tale guidò dall’alto e indirizzò i processi di privatizzazione di società ed enti pubblici decisi, pardon auspicati, durante la famigerata crociera da Civitavecchia all’isolo del Giglio, sul panfilo reale Britannia il 2 giugno 1992. Una barchetta sulla quale lui stesso salì, fece un intervento rivolto ai gentili intervenuti e poi, come lui stesso raccontò in seguito, ne scese prima della partenza. Forse, in un sussulto di dignità nazionale, per evitare di vedere i più alti dirigenti dello Stato italiano farsi dettare i tempi e le modalità delle privatizzazioni dai signori della City londinese e di Wall Street. O forse perché già conosceva quanto sarebbe stato detto e “suggerito”. In seguito, nel 2001, tanto per confermare ancora una volta che certi meccanismi sono più forti delle persone, l’ex direttore generale del Tesoro divenne vice presidente della Goldman Sachs, una grande e potente banca d’affari americana e inglese, che troviamo curiosamente troppo spesso presente nella storia delle privatizzazioni italiane e nella ristrutturazione del capitalismo nazionale come dimostra chiaramente la vicenda del riassetto annunciato del gruppo Telecom. E soprattutto è una banca alla quale Romano Prodi è considerata molto vicino.
Draghi è arrivato questo anno alla guida della Banca d’Italia in sostituzione di Antonio Fazio su indicazione del governo di centrodestra ma anche con il pieno benestare dell’allora opposizione di centrosinistra. E’ un grand commis, uno di quegli alti dirigenti dello Stato che godono del gradimento dell’intero mondo politico. A lui toccherà quindi gestire la fase di transizione triennale che dovrebbe vedere, il condizionale è d’obbligo, ritornare allo Stato, e quindi al Tesoro le quote di Via Nazionale attualmente detenute dalle banche. Ma come è stato possibile arrivare a questo stato di cose? Il processo di privatizzazione e di concentrazione del sistema creditizio, che venne avviato nel 1993, ha infatti portato con sé il trasferimento alle banche e alle fondazioni di origine bancaria (che formalmente sono istituti di diritto privato) della quota azionaria che esse detenevano nel capitale della Banca Centrale. Ma essa era una sorta di partecipazione fiduciaria in capo soprattutto alle principali banche pubbliche italiane, come le tre BIN (Banche d’Interesse Nazionale) dell’Iri (Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma), le sei Banche di Diritto Pubblico (San Paolo di Torino, Monte dei Paschi, Banca Nazionale del Lavoro, Banco di Sicilia, Banco di Sardegna e Banco di Napoli) e le decine di banche minori. Un espediente giuridico attraverso il quale lo Stato non voleva figurare formalmente come il proprietario della Banca Centrale anche se poi la realtà era proprio questa. La Legge Ciampi sulle fondazioni bancarie aveva aperto la strada al trasferimento delle azioni della Banca d’Italia dalle banche alle fondazioni che le controllano. Ma è stato un espediente che poco ha cambiato alla realtà delle cose. Si tratta in ogni caso di una anomalia tutta italiana in quanto nella maggioranza dei casi, all’estero la Banca Centrale è posseduta interamente dallo Stato e le quote in mani private sono un’eccezione e comunque non superano mai il 50% del capitale. In Italia gli investitori non hanno però il potere di influenzare le scelte gestionali né di incidere sulla nomina del direttivo ma solo su quella del Consiglio superiore della Banca d’Italia. Formalmente la designazione del governatore tocca al Consiglio, ma la scelta della persona, prima Fazio ora Draghi, è questione che riguarda il Governatore uscente, il Governo e, spesso il Capo dello Stato. E generalmente il prescelto proviene dalle fila di Palazzo Koch. Draghi è un’eccezione…
La nuova Legge Bancaria ha fissato in tre anni il periodo di moratoria nel quale lo Stato dovrebbe rientrare nella proprietà delle quote della Banca d’Italia. Ma resta l’interrogativo di come il Tesoro potrà realizzare seppure gradualmente questa operazione, vista la quantità di denaro necessaria, la situazione poco allegra dei conti pubblici che non permette spese straordinarie e la poca voglia di banche e fondazioni bancarie alla vendita forzosa di tali partecipazioni ad un prezzo minore di quello messo in bilancio. Oltretutto c’è da tenere conto che in molti casi tale quota è stata conteggiata non al costo storico ma al costo ricapitalizzato.
I problemi sono ulteriormente aggravati dal fatto che molte banche sono ormai controllate da gruppi stranieri e che di conseguenza una banca francese o spagnola potrebbe arrivare a mettere bocca nelle vicende di Via Nazionale.

Il nuovo statuto
della Banca d’Italia
Al termine della riunione di ieri l’assemblea straordinaria ha approvato all’unanimità il nuovo statuto di Bankitalia, composto di 49 articoli, che in precedenza aveva avuto il via libera del Consiglio superiore di Via Nazionale. Il documento verrà ora inviato al Governo per l’emanazione del relativo decreto di approvazione da parte del presidente della Repubblica.
E allora, ha precisato Draghi, anche “l’approvazione dello Statuto si iscrive in un processo evolutivo del contesto in cui la banca opera”, con la legge di riforma del risparmio che “rappresenta l’occasione per dotarsi di uno strumentario rinnovato e proiettato sulle future esigenze”.
Le nuove norme, ha affermato Draghi, mirano innanzitutto a garantire l’indipendenza di Via Nazionale nella sua qualità di autorità di vigilanza. Una indipendenza, ha puntualizzato, “che trova il contrappeso nel dovere di rendere conto al Parlamento e al Governo delle attività svolte, con apposita relazione periodica alla quale il nuovo statuto riserva specifica previsione. Anche se - ha ricordato Draghi con puntiglio - la Banca per oltre un secolo non aveva mancato, nella sua relazione annuale e in numerosi altri documenti, di sottoporre all’opinione pubblica il proprio operato”.
Tra le principali modifiche apportate al precedente statuto, e che Draghi ha illustrato agli azionisti, ci sono quelle sull’ampliamento delle competenze del Consiglio superiore, con espressa attribuzione di funzioni di vigilanza e controllo; la definizione dei provvedimenti aventi “rilevanza esterna” che saranno di competenza del Direttorio; la formulazione di norme generali di funzionamento del Direttorio nella veste di organo collegiale; il recepimento delle norme sul mandato a termine del Governatore (sei anni rinnovabili una volta sola) e degli altri membri del Direttorio; l’individuazione del criterio di scadenza del residuo mandato dei membri del Direttorio. Su questa specifica questione Draghi ha fatto notare che “la durata residua delle cariche assicura gradualità negli avvicendamenti”.
Con la riforma sono stati apportate diverse modifiche, come la norma sul capitale, con il rinvio alle legge per la titolarita’ delle quote, gli articoli sull’assemblea dei partecipanti, il limite al mandato dei consiglieri superiori e dei sindaci.
Musi lunghi all’uscita come quello del vicepresidente dell’Acri (le casse di risparmio), Antonio Patuelli, ex deputato liberale: “Il timore in caso di trasferimento delle quote dalla Banca d’Italia allo Stato è che si apra la strada ad una valutazione troppo bassa della banca in luogo all’equo indennizzo previsto dalla legge in caso di esproprio. Insomma il rischio è quello di una distribuzione dei dividendi irrisoria, con un indennizzo e quindi una valutazione troppo bassa”.
Sullo stesso tono il rappresentante di Banca Intesa, primo azionista che ha parlato di “insoddisfazione per l’inadeguatezza della destinazione dell’utile”.
Draghi, ha accolto i rilievi chiedendo di mettere a verbale che si tratta di una “preoccupazione condivisa dai partecipanti all’assemblea”.