Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I call center dei traduttori

I call center dei traduttori

di Eva Milan - 01/12/2006






Quando si parla di lavoro precario, nella maggioranza dei casi si parla soprattutto, giustamente, dei lavoratori dei call center, dei ricercatori, dei precari statali e della sanità, ma si trascura spesso la condizione di una categoria di lavoratori dei “saperi” e della cultura che operano in special modo nei settori dell'editoria e dello spettacolo che meriterebbe un vero e proprio grido d'allarme, denunciando lo stato di degrado in cui è sprofondato l'intero panorama culturale. Per qualche misteriosa ragione, noto che tale grido d'allarme stenta a levarsi e, al contrario, c'è quasi l'impressione di una sorta di “omertà” in certi ambienti, che non denoterebbe soltanto una scarsa attenzione verso l'importanza del patrimonio culturale, ma in modo più preoccupante una sorta di “ricatto” implicito, per cui gli stessi lavoratori del settore si autocensurano per paura di perdere il loro già molto precario impiego. Inoltre, in modo specifico, il sospetto è anche che tale denuncia andrebbe a colpire una parte del settore cosiddetto “indipendente” dell'editoria, formato da medi e piccoli editori, su cui forse una parte della “sinistra” e dei media indipendenti tende a chiudere un occhio. Un sospetto del tutto personale, tengo a precisare.

Mi limiterò a descrivere la situazione nel settore della traduzione, in base alla mia esperienza diretta e indiretta, che credo sia esemplificativa e nella quale anche altre categorie di professionisti “free-lance” potranno certamente riconoscersi.

Quella del traduttore è una figura complessa e spesso sottovalutata. Un traduttore non è qualcuno che semplicemente conosce una lingua straniera, ma che “sa tradurre” anche grazie al fatto di aver acquisito una competenza linguistica attraverso la conoscenza approfondita, lo studio o un'esperienza specifica in uno o più determinati settori che vanno al di là della semplice traduzione letterale, ad esempio in campo medico, scientifico, politico, mediatico e giornalistico, commerciale, sociologico, informatico, letterario/poetico, artistico, etc..

Inoltre, condizione essenziale per poter svolgere l'attività di traduttore è quella di conoscere perfettamente la propria lingua madre, anche nei campi di traduzione specifici che gli competono. Nell'immaginario collettivo, la figura del traduttore è inquadrata come libero professionista, e così a mio modesto parere dovrebbe essere. In realtà tale figura professionale non è stata ancora in tal senso riconosciuta, e nella maggior parte dei casi, essa si può benissimo collocare nella categoria dei “lavoratori a progetto”, e in qualche caso anche nelle tanto discusse definizioni di “lavoratori subordinati o para-subordinati”.

E' noto altresì che in base alla legge sul diritto d'autore, il traduttore godrebbe di tale diritto. Ma nella realtà questo viene sempre ceduto attraverso una clausola contenuta nella lettera di incarico di volta in volta proposto dall'editore (vedi: http://www.aiti.org/leggeDA.html ).

E veniamo ai compensi. Se il traduttore fosse realmente un libero professionista, dovrebbe poter concordare con l'editore il proprio compenso in base alla propria tariffa (vedi: http://www.aiti.org/condizioni.ht m l ) Ma anche qui, la realtà non coincide. Quello che invece normalmente accade è che a stabilire la tariffa e i tempi di consegna e a indicare parametri e strumenti di lavoro è l'editore. Inoltre, mentre una volta si poteva far riferimento agli standard indicati dalle associazioni di categoria, tali tariffari sono stati soppressi in ottemperanza alla Legge 287/90 a seguito di procedura dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. (vedi Statuto AITI-Liguria, Articolo 20. Funzioni del Consiglio Direttivo Nazionale : http://www.aiti-liguria.org/statuto.html )

Ciò che ne consegue è la giungla. Il mercato delle traduzioni nell'editoria si è involuto in un gioco al ribasso, in cui mediamente il traduttore professionista è costretto ad accettare tariffe sempre più basse, potremo definirle tranquillamente “da fame”; il traduttore non ha alcun potere contrattuale e alcun diritto sulla propria traduzione (che può essere modificata in qualunque momento da un correttore di bozza probabilmente anch'egli precario e senza competenze di traduzione), non ha voce in capitolo sui tempi di traduzione e deve rispettare ritmi di consegna massacranti; si ritrova in pratica a svolgere un lavoro altamente specializzato posto sullo stesso piano economico di uno studente universitario o neo-laureato in lingue privo di esperienza di traduzione professionale che venga assunto saltuariamente secondo la legge dell'“abbattimento dei costi”.

Spesso, oltre a dover accettare compensi scandalosi (per fare un esempio pratico, capita anche di dover tradurre un'opera di una certa consistenza e grado di difficoltà, per una rinomata e fiorente casa editrice “alternativa”, per cui si richieda la consegna in un massimo di tre 3 mesi, lavorando circa 12 ore al giorno senza riposo settimanale, per guadagnare un totale di 1800 euro lorde, ovvero circa 600 euro lorde al mese!), il traduttore deve anche sottostare all'attesa di alcuni mesi “di buco” tra un progetto e l'altro. Questo perché qualora si collabori più o meno continuativamente con un editore (con in media un mese o due di intervallo tra un progetto e l'altro), se si accettasse nel frattempo l'incarico da un altro editore che potrebbe accavallarsi con un successivo incarico del “cliente abituale”, non solo si rischierebbe di perdere uno dei due incarichi, ma ad eventuale oltraggioso rifiuto seguirebbe difficilmente un'altra offerta. Vale a dire, vieni punito per alto tradimento e perdi il prezioso “cliente abituale”, che è l'unico che ti aveva offerto più o meno continuativamente uno straccio di lavoro. In pratica, in molti casi il traduttore si trova a dover restare a completa disposizione di un solo “committente”, a doverselo “tenere stretto”, e questo comporta almeno una media di quattro mesi di inattività in un anno (nei casi più fortunati).

Potrei raccontare di peggio. Potrei raccontare di chi ha perso per sempre il lavoro di traduttore poiché i ritmi massacranti davanti al pc hanno causato ernie del disco e invalidità permanente che impediscono il proseguimento della professione, e senza che tale invalidità professionale possa mai essergli riconosciuta. E di chi, per problemi di salute, ha perso il suo “cliente abituale” per aver consegnato con alcuni giorni di ritardo una volta in anni di collaborazione. O di chi, avendo scoperto che la propria traduzione era stata pubblicata a suo nome in una versione totalmente riveduta e risultante in una qualità scadente, ha perso il suo “cliente abituale” dopo quattro anni di collaborazione e tante lodi, solo per aver espresso osservazioni di ordine tecnico sulla traduzione rivisitata. O di chi, per essersi rifiutato di svolgere mansioni extra non pagate e non previste dall'incarico e dagli accordi precedenti, ha perso il suo “cliente abituale”.

Ma anche di chi ha rinunciato spontaneamente a praticare tale professione a cui aveva dedicato anni di studio, lavoro e passione per non sottoporsi più al calpestìo della propria dignità di persona e smettere di partecipare a questo gioco di sfruttamento.

Ovviamente, non sto parlando di tutti quegli ottimi professionisti che lavorano ormai da anni presso i loro grandi “clienti abituali”, che sono ben trattati e soddisfatti del loro rapporto di lavoro, ma solo di tutti gli altri ottimi professionisti sfigati.

La cosa che vorrei far notare è che non stiamo parlando di grandi multinazionali o di grandi gruppi editoriali. Non solo. Ciò che si dovrebbe sapere è che tra coloro che più concorrono alla creazione di questo sfruttamento selvaggio (non saprei come altro definirlo), vi sono medi o piccoli editori che si definiscono o vengono considerati “etici”, “alternativi”, “indipendenti” o…. “di sinistra”. Che pubblicano libri sul precariato, o sulle malefatte delle multinazionali nel terzo mondo. O sui pericoli del neoliberismo.
Non intendo certo demonizzare la categoria in toto, e non dubito che ci saranno tra questi molti esempi positivi, ma quello che ho raccontato è stata purtroppo la mia esperienza e di altri colleghi.

Oltre alla condizione precaria dei lavoratori dei saperi e della cultura, bisognerebbe riflettere sulla qualità delle opere che vengono realizzate e pubblicate grazie a questo stato di cose. Qualità che nella corsa al mercato perde ogni e qualsiasi valenza. Viviamo in un mondo in cui anche l'arte e i valori della civilità divengono spazzatura buona per essere riciclata dai pubblicitari, un mondo in cui la cultura perde di valore in modo proporzionale al valore attribuito alla passione e al lavoro di un uomo. E se questa cultura è il prodotto di ciò che l'umanità è diventata, allora forse all'umanità sta bene così.