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Immigrazione, crociate, ideologie

di Giuseppe Giaccio - 01/12/2006

 

Tempo fa ci è capitato di leggere in un refranero, ossia in una raccolta di detti popolari (refranes) spagnoli, il seguente proverbio: quien de lejanas tierras viene, miente como quiere. Il che significa che bisogna diffidare dello straniero, di colui che viene da lontano (quien de lejanas tierras viene), in quanto ingannatore (miente como quiere). I francesi esprimono lo stesso timore dicendo: à beau mentir qui vient de loin. Non sono da meno gli inglesi: long ways, long lies. Probabilmente, se facessimo una ricerca, scopriremmo che ogni popolo ha la sua brava collezione di detti da cui trapela un senso di paura per l’altro, che innesca una reazione difensiva consistente in una certa «sordità» o «relativa incomunicabilità», per dirla con Lévi-Strauss, nei confronti del diverso. Atteggiamento che, secondo l’antropologo francese, può persino rappresentare, entro certi limiti, «il prezzo da pagare perché i sistemi di valori di ogni famiglia spirituale o di ogni comunità si conservino e trovino in sé le risorse necessarie al loro rinnovamento» (cfr. la prefazione a Le regard éloigné, Plon).

Non pochi segnali, tutti connessi al problema dell’immigrazione e della non facile convivenza fra culture, ci lasciano intuire che questi limiti, in Italia e in Occidente, li stiamo superando, che stiamo per imboccare una china pericolosa. I più recenti, limitatamente al nostro Paese, sono stati il referendum leghista contro la concessione di un terreno  per la costruzione di una moschea a Lodi, bocciato dal consiglio comunale, e la nota pastorale “La città di San Petronio nel terzo millennio” dell’arcivescovo di Bologna cardinale Biffi.

Un primo spunto di riflessione è che in entrambi i casi – ma se ne potrebbero citare tanti altri che la cronaca minore dei media ci offre quasi quotidianamente – al centro degli attacchi c’è l’Islam, sebbene in Italia siano presenti molte confessioni religiose, a nessuna delle quali viene tuttavia riservato lo stesso, ostile trattamento riservato ai musulmani (con la sola, parziale eccezione dei “Testimoni di Geova”, i quali però suscitano all’interno del mondo cattolico discussioni che di solito hanno a che fare più con la sfera religiosa che con quella politico-sociale).

Questa peculiarità islamica può essere spiegata in vari modi. Anzitutto, la memoria storica. Per secoli, la civiltà cristiano-occidentale e quella islamica si sono spesso violentemente contrapposte, la qual cosa non poteva non riflettersi sulla rappresentazione dell’Islam, generalmente negativa, che il cosiddetto uomo della strada introietta a partire dai banchi di scuola. Se restringiamo lo sguardo agli ultimi anni, non si può non riconoscere che il libro di Samuel P. Huntington Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (Garzanti) ha esercitato un’influenza considerevole nell’ambiente intellettuale ed in particolare in quello degli opinion makers, gettando nuova benzina sul fuoco dell’immagine negativa dell’Islam. Com’è noto, infatti, una delle tesi di questo saggio è che fra Islam e Occidente (ma sarebbe più corretto dire Stati Uniti) è da anni in atto una «guerra strisciante» combattuta con azioni terroristiche da una parte e raid aerei dall’altra. E la posta in gioco non è meramente economica o politica, ma culturale, di civiltà; stiamo assistendo a un conflitto tra due mondi, ciascuno convinto della propria superiorità sull’altro, il primo dei quali – l’Islam – sarebbe «ossessionato dallo scarso potere di cui dispongono» le popolazioni musulmane, mentre il secondo si sente in obbligo di diffondere ovunque la propria cultura, ritenuta universalmente valida.

La “nota” del cardinale Biffi è figlia anche di questo clima culturale e politico. Le aspre reazioni che ha suscitato negli ambienti laici appaiono per certi aspetti sorprendenti. Ridotta all’osso, la tesi di Biffi è la seguente: immigrazione sì, ma a determinate condizioni. Fermo restando che per un cristiano aiutare chi si trova nel bisogno è un dovere elementare, il cardinale si chiede se non sia il caso, stante la forte pressione migratoria, di selezionare gli ingressi in base a criteri non solo economici, ma anche culturali e religiosi. Rispetto alle altre confessioni presenti sul territorio nazionale, l’Islam sembra avere, proprio grazie all’immigrazione, una maggiore capacità espansiva che ne fa la seconda religione del Paese. Il numero degli aderenti si aggira, in base alle stime più basse, intorno alle 600.000 unità; quelle più alte, arrivano a un milione. Tra i 10000 e i 25000 sarebbero invece i convertiti di origine italiana. Attualmente in Italia ci sono già un centinaio di moschee, solo tre delle quali dispongono di un minareto (quelle di Roma, Milano e Catania). Queste cifre pongono certo un problema pastorale alla Chiesa, ma interpellano anche lo Stato, invitato dall’illustre presule a «far bene i suoi conti». Conviene a tutti e due, allo Stato e alla Chiesa, argomenta il cardinale, favorire l’ingresso in Italia di immigrati più omogenei culturalmente e religiosamente ai postulati della civiltà occidentale e scoraggiare l’ingresso di immigrati islamici che, oltre a festeggiare il venerdì anziché la domenica e a non mangiare carne di maiale, hanno anche una visione integralista della sfera pubblica, mischiano politica e religione, mettendo così a repentaglio uno dei pilastri dello Stato moderno, la «sana» laicità. Inoltre, hanno un diritto di famiglia poligamico da cui traspare una visione della donna lontana anni luce dalla nostra.

Queste tesi hanno sollevato un vespaio di polemiche di cui, a rigor di logica, non si riesce a comprendere il motivo, giacché gli interlocutori ai quali si rivolge l’arcivescovo, proponendo loro una sorta di Santa Alleanza – i “laicisti”, portatori di una laicità insana, in quanto tendente ad escludere dall’orizzonte umano la dimensione religiosa o a banalizzarla, ma che comunque promanano da un ceppo sostanzialmente cristiano secolarizzato – questi interlocutori non ragionano diversamente da lui. Se le parole del cardinale appaiono loro inaccettabili, è solo perché, tranne poche eccezioni, il mondo laico, al di là delle formali attestazioni di stima e rispetto, è incline a pensare che l’homo religiosus è una sorta di bambinone incapace di emanciparsi, di diventare adulto, uscendo dal monde enfant costituito dall’universo del sacro. Ai loro occhi, pertanto, l’idea di discriminare gli immigrati musulmani per motivi religiosi non può non sembrare aberrante, perché per essi la religione non ha alcuna importanza, è una sovrastruttura che prima o poi sarà spazzata via. È soltanto questione di tempo. Anche i laici (o “laicisti”) hanno tuttavia un loro universo sacro del quale non tollerano profanazioni, dei tabù che non vogliono veder infranti, un pantheon inviolabile. I Diritti dell’Uomo, lo Stato di diritto, il Mercato, l’homo œconomicus, sono alcune delle loro divinità davanti alle quali tutto il mondo è chiamato a prosternarsi, pena l’esclusione dal consorzio umano, la morte civile. Siccome però viviamo in un’epoca nichilistica, in cui, morto Dio, tutto è permesso, i laici hanno qualche difficoltà “teologica” a fondare la loro fede. Vediamo così un loro “santone”, Norberto Bobbio, che, di fronte alla necessità di giustificare i diritti dell’uomo, deve ammettere che un fondamento assoluto, certo, indiscusso, è impossibile trovarlo, e che tocca accontentarsi di un fondamento relativo e aleatorio, il consenso generale, che per sua stessa natura può essere revocato in qualunque momento. Perciò, presentare i diritti umani come naturali, fondamentali o inalienabili, significa «usare formule del linguaggio persuasivo che possono avere una funzione pratica in un documento politico per dare maggior forza alla richiesta, ma non hanno nessun valore teorico, e sono pertanto completamente irrilevanti in una discussione di teoria del diritto» (cfr. L’età dei diritti, Einaudi). E quanto più traballanti e precari sono questi dèi, tanto più vengono imposti con la forza, la violenza “umanitaria”, come abbiamo abbondantemente potuto constatare negli ultimi anni. E l’uso della forza è giustificato ricorrendo a un discorso identitario: l’identità dell’Occidente, coniata da secoli di dure lotte, alla quale non possiamo rinunciare, poiché, dicono gli apologeti, essa si risolve in un beneficio per tutti, essendo i valori occidentali valori universali. Ad un discorso analogo si fa ricorso anche per giustificare la conservazione dell’attuale assetto istituzionale e politico, messo in pericolo dall’introduzione nei Paesi occidentali di elementi culturalmente alieni (si veda il saggio di Giovanni Sartori Pluralismo, multiculturalismo e estranei, edito da Rizzoli). Ora, non è forse vero che anche il discorso del cardinale è identitario? All’identità nazionale l’arcivescovo di Bologna fa infatti espressamente riferimento in un volume uscito l’anno scorso (Risorgimento, stato laico e identità nazionale, Piemme), in cui, a proposito di immigrazione, si leggono gli stessi concetti riportati nella nota pastorale, ma che, stranamente, non provocò alcuna indignata reazione da parte dei media. Come si sa, il processo che ha portato all’unificazione dell’Italia è stato più subito che voluto dai cattolici e qualche traccia dell’antica ostilità trapela anche nelle pagine di Biffi, il quale, non senza compiacimento, osserva che quando era divisa l’Italia ha offerto il meglio di sé sotto il profilo culturale, mentre dopo l’unità la nostra nazione è stata solo una delle tante, e nemmeno la più importante, delle nazioni europee, «fino a rassegnarsi all’attuale condizione di colonia culturale statunitense». Per cui, se Risorgimento c’è stato, è stato alquanto relativo. Bene o male, il cattolicesimo italiano ha comunque in larga misura metabolizzato il Risorgimento, cosicché Biffi è disposto ad ammettere che esso ha prodotto dei frutti positivi. L’idea che l’Italia è un’unica nazione può quindi anche andargli bene, a condizione però di non espungere dal quadro nazionale l’eredità cattolica, come invece cercano da sempre di fare i laicisti, poiché senza il cattolicesimo gli italiani rischierebbero di ridursi a «un’accolta di individui: un’accolta informe e insignificante, senza valori radicati e senza pregio agli occhi delle genti». Se dunque il cattolicesimo è parte integrante della nostra identità, ai nuovi venuti bisognerà far spazio «non demolendo la nostra casa, ma ampliandola e rendendola ospitale, sì, ma nel rispetto della sua originaria architettura e della sua primitiva bellezza». Altrimenti, si prepara uno scenario apocalittico o quasi. Se l’Europa, e quindi l’Italia, volterà le spalle al cristianesimo in nome dell’odierna «cultura del niente», non potrà sostenere l’impatto dell’Islam. L’Europa futura o riscoprirà il cristianesimo o diventerà musulmana. Il clima, come si vede, è di mobilitazione, di chiamata (metaforica, ovviamente) alle armi, alla battaglia culturale contro l’invasore. Questo clima, come si accennava prima, è rinvenibile pure nel discorso laico (che, nell’Italia di oggi, significa in sostanza liberale, occidentale). Anche per i laici vale il principio “immigrazione sì, ma a certe condizioni”. Il documento più chiaro al riguardo è il citato libro di Sartori, il cui punto di partenza è squisitamente e fortemente ideologico, la qual cosa può sorprendere in un’epoca in cui si sente parlare dovunque di fine delle ideologie. Un’ideologia è un insieme di idee – non importa se vere o false: basta che siano efficaci - che si prefigge uno scopo pratico: spingere all’azione nell’ambito politico-sociale. Per ottenere questo risultato, il discorso ideologico tende a presentarsi come l’ora decisiva della storia, il momento che da sempre l’umanità attendeva con ansia per realizzare il suo destino. Il liberalismo non sfugge a questa regola. Prima che il liberalismo apparisse sulla scena del mondo, scrive ad esempio Ludwig von Mises, gli uomini brancolavano nell’oscurità, nel buio. A partire dal liberalismo, «l’umanità diviene consapevole dei poteri che guidano il suo sviluppo. Le tenebre che si stendevano sui sentieri della storia recedono. L’uomo comincia a comprendere la vita sociale e permette che essa si sviluppi consapevolmente» (cfr. Socialismo, Rusconi). Allo stesso modo, apprendiamo da Sartori che prima del liberalismo il mondo era «monocromatico» (e non ci vuole molto ad intuire che per Sartori questo colore unico era il grigio). Con i liberali, la diversità, il pluralismo e il dissenso (la luce, insomma) irrompono nel mondo, dando a una piccola parte di esso le forme della civiltà liberale. Questo patrimonio è ora messo in discussione da un’immigrazione incontrollata dai paesi islamici, particolarmente pericolosa in quanto i musulmani, a differenza degli asiatici, sono fanatici e/o teocratici e perciò del tutto estranei alla tolleranza occidentale, poiché «le fedi rivelate non tollerano contro-fedi». Se l’andazzo non cambia, e quindi «se l’identità degli ospitati resta intatta, allora l’identità da salvare diventa, o diventerà, quella degli ospitanti».

Sul piano storico questa posizione non pare sostenibile, dal momento che la storia ci offre un esempio di società, la Spagna (che gli arabi chiamavano al-Andalus), niente affatto monocromatica, in cui, tra alti e bassi, com’è logico nelle cose umane, hanno convissuto per quasi ottocento anni (dal 711, anno in cui Tarik passò lo stretto che poi assunse il suo nome, Gebel-el-Tarik, e sbaragliò l’esercito visigoto di Rodrigo, al 1492, anno della presa di Granada da parte dell’esercito cristiano di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia) ben tre monoteismi: Islam, Ebraismo e Cristianesimo.

In al-Andalus, cristiani ed ebrei potevano liberamente praticare le loro religioni, essendo «gente del Libro» (ahl al-kitab) o del «Contratto» (ahl al-dhimmah); svolgevano ogni tipo di lavoro; avevano una propria giurisdizione in materia di diritto di famiglia e civile; potevano possedere proprietà; in teoria, non potevano costruire nuove chiese o sinagoghe, né far parte della burocrazia, ma in realtà si costruirono numerose chiese e sinagoghe, e cristiani ed ebrei occuparono posti importanti, persino quello di visir. I matrimoni misti erano tutt’altro che infrequenti. Nel complesso, la Spagna musulmana può essere indicata come «esempio di integrazione sociale e cooperazione». La società andalusa «era aperta e flessibile, e un uomo di origine umile poteva avanzare nella scala sociale ed occupare qualunque alta carica, tranne quella di capo supremo» (cfr. Anwar G. Chejne, Historia de España musulmana, Cátedra).

A questa obiezione Sartori risponde, secondo noi arrampicandosi sugli specchi, che una cosa è il pluralismo, un’altra la pluralità, l’essere plurali. Quest’ultimo elemento è rinvenibile in molti contesti socio-politici, ma solo il liberalismo è pluralista. Ma quando si ha pluralismo? La risposta sartoriana, in puro stile politologico, è la seguente: «Quando i cleavages, le linee di divisione, sono neutralizzate e frenate da affiliazioni (e anche lealtà) multiple», ossia quando siamo in presenza di «cross-cutting cleavages, e cioè di linee di divisione intersecanti (o incrociate)». Tradotto, questo significa che c’è pluralismo se sono libero di circolare, sia in senso letterale che figurato, nel mondo in cui vivo; se posso essere, successivamente o persino contemporaneamente, cristiano, ebreo o musulmano in campo religioso; socialista, fascista o comunista in ambito politico, eccetera. Attribuire ai liberali un terreno privilegiato, esclusivo, quasi sacro, il terreno del pluralismo, ci sembra, ancora una volta, un’operazione ideologica, tendente ad escludere e delegittimare, in nome della modernità e dei suoi valori, quanti la contestano. Ci pare invece più corretto ammettere l’esistenza di una forma di pluralismo liberale sgorgante da un’antropologia individualistica, peraltro astratta, lontana dalla realtà, frutto, per ammissione degli stessi autori liberali, di una finzione giuridica; e una forma di pluralismo olistico, attento, nelle sue forme migliori, alla salvaguardia dei differenti patrimoni culturali, a partire dai quali l’uomo è in grado di costituirsi e crescere sia come singolo, sia come parte di un gruppo.

Oltre all’ampia convergenza tra Sartori e il cardinale Biffi registrata intorno all’individuazione di un nemico comune, i musulmani, e di una medesima, anche se diversamente declinata, formula con cui combatterli – l’appello all’identità nazionale e statale – dobbiamo accennare al forte dissenso tra Sartori e quella parte del mondo laico che l’illustre politologo definisce ironicamente «cittadinista». Il riferimento polemico immediato è il ministro Livia Turco ed allude all’idea che la concessione della cittadinanza agli immigrati, con tutti i diritti politici e civili annessi, sarebbe un efficace mezzo di integrazione, e perciò di soluzione, dei problemi di xenofobia e razzismo posti dall’immigrazione. Sartori ha gioco fin troppo facile notando che non c’è alcun rapporto di causa-effetto tra la cittadinanza e l’integrazione degli immigrati, e che il semplice fatto di pagare le tasse non attribuisce un diritto alla cittadinanza, giacché il versamento delle imposte finanzia dei servizi di cui usufruiscono anche gli immigrati. Dal nostro punto di vista, questo conflitto, anche se ha prodotto un certo rumore, appare tuttavia scarsamente rilevante, in quanto non tocca i punti veramente salienti della questione, essendo tutto interno alla stessa concezione nazionale e statale che invece rappresenta, per noi, il vero problema. 

Negli Essais sur l’individualisme (Seuil), Louis Dumont distingue due modelli di Stato nazionale: il primo, di origine illuministica, francese, individualista, è ben descritto dalla celebre frase di Renan secondo la quale la nazione si fonda su un plebiscito quotidiano (plébiscite de tous les jours). Essa dipende, quindi, dalla volontaria adesione di una moltitudine di persone considerate nella loro individualità a un quadro normativo, costituzionale. In apparenza, questo modello è molto aperto e cosmopolita, poiché è pronto ad accettare chiunque, a condizione che aderisca alla costituzione. Ottenere la cittadinanza è cosa relativamente facile, vigendo lo jus soli, in virtù del quale si diventa cittadini se si è nati nel territorio nazionale (principio applicato con maggiore o minore rigore, a seconda delle fasi storiche). A ben vedere, però, il modello francese è fortemente assimilazionista, poiché la condizione per entrare a far parte della Repubblica è di spogliarsi delle proprie differenze culturali, di presentarsi come un recipiente vuoto, pronto ad accogliere in sé le regole repubblicane e magari a scoprire inopinatamente di avere degli antenati francesi: nos ancêtres, les Gaulois. Il repubblicanesimo d’oltralpe è centralista e accentratore e non è un mistero per nessuno che in Francia le minoranze etniche e culturali hanno sempre avuto vita molto dura.

Il secondo modello, tedesco, è invece riconducibile alle elaborazioni teoriche di Herder e Fichte, e costituisce una variante del primo nel senso che l’individualismo illuministico viene qui trasferito al livello delle nazioni, viste come una sorta di individui collettivi, ciascuna con proprie peculiarità che la rendono unica. Un pizzico di olismo viene innestato in un insieme che rimane individualistico. La cittadinanza viene concessa in base allo jus sanguinis: si diventa cittadini in quanto si è figli di cittadini, attraverso i quali viene trasmesso non solo un patrimonio genetico, ma anche culturale. Patrimonio che si rischierebbe di “contaminare”, di “inquinare”, con l’introduzione di elementi estranei nel corpo della nazione-individuo collettivo Per questo prendere la cittadinanza in Germania è molto difficile (anche se una recente legge ha reso più agevoli le pratiche per ottenerla). Mentre nel caso francese l’immigrato sparisce per assorbimento, in quello tedesco sparisce per ghettizzazione: c’è, ma solo per motivi di lavoro; è un Gastarbeiter, un lavoratore ospite, che può sempre essere rimpatriato, non un immigrato, perché Deutschland ist kein Einwanderungsland, la Germania non è terra di immigrazione.

Ora, è evidente che il modello cui è più vicina la Turco è quello francese; per contro, Sartori è sensibile a quello tedesco (naturalmente, parliamo di un orientamento di fondo che non esclude incroci, prestiti reciproci o anche deviazioni dagli originali). Sia l’una che l’altro (e lo stesso cardinale Biffi), tuttavia, si muovono all’interno di uno schema, lo Stato nazionale, che, per quanto aggiornato e agghindato con riferimenti, oggi molto di moda, al federalismo o all’Europa, ci pare radicalmente incapace di affrontare il problema del rapporto con i «dannati della terra», come si diceva una volta, che si riversano dalle nostre parti. Incapace in quanto lo Stato nazionale è costituzionalmente, fisiologicamente, e non di rado patologicamente, articolato intorno all’unità e al disconoscimento della diversità che assume le forme o del dissolvimento nell’ampio grembo repubblicano della Marianne di turno, o del confino ai margini della società. Gli immigrati che assumeranno la cittadinanza potranno essere pochi o molti, a seconda che si adotti l’uno o l’altro modello, ma questo di per sé non risolverà il problema delle relazioni che, volenti o nolenti, dovremo stabilire con tutti, cittadini o stranieri, poiché queste persone si troveranno inserite in un “contenitore” istituzionale che non prevede la loro presenza, essendo stato storicamente forgiato per salvaguardare, in modi diversi, la compattezza dell’unità politica, della nazione una e indivisibile. I problemi che abbiamo di fronte sono quindi due: a) che genere di rapporti stabilire con gli immigrati, e b) dentro quale contesto politico.

Sul primo punto ci siamo già espressi molte volte. Se ci torniamo sopra è perché siamo stati piacevolmente sorpresi nel leggere tesi in buona parte convergenti con le nostre sul quotidiano spagnolo El País dello scorso 28 ottobre, nell’articolo Justicia y verdad para la inmigración dell’eurodeputato, nonché professore invitato all’Università “Carlos III” di Madrid, Sami Nair. Ciò dimostra che certe idee sono nell’aria. C’è da augurarsi che quest’aria venga respirata da un numero crescente di persone, soprattutto a sinistra, dove si è sovente inclini, quando si toccano certi tasti, allo scandalo a buon mercato, alla facile levata di scudi. A giudizio di Sami Nair, in materia di immigrazione la politica deve avere tre dimensioni. Anzitutto, occorre un atteggiamento di apertura verso gli immigrati legalmente stabiliti, il che significa, in concreto, «riconoscere in modo chiaro il diritto alla residenza permanente trascorso un certo periodo di tempo, il diritto all’educazione, alla Sicurezza Sociale, alla libertà d’espressione e organizzazione, al voto alle elezioni municipali». E fin qui tutto bene per un palato di sinistra. Ma Sami Nair subito dopo aggiunge che bisogna altresì realizzare «una politica di controllo delle frontiere che sia chiara e comprensibile per tutti» e che non consista semplicemente nel tenere un discorso da «matamoros», ossia da ammazzasette (e qui è chiaro il riferimento alla destra), perché per quanto si controllino frontiere, o si caccino immigrati, non si potrà mai respingerli tutti; ma questa politica non deve nemmeno predisporre maglie troppo larghe alle frontiere, risolvendosi praticamente in una rinuncia ai controlli (qui è invece chiaro che l’accenno polemico riguarda la sinistra). Ciò non è possibile, sia perché gli accordi di Schengen vanno rispettati, sia perché si creerebbe una concorrenza tra poveri (lavoratori allogeni e autoctoni) che farebbe il giogo dell’estrema destra xenofoba, com’è successo in Francia, dove il Front National raccoglie molti voti proprio negli strati popolari. Infine, le autorità politiche dei paesi di accoglienza debbono favorire una politica di sviluppo dei paesi terzi, ad esempio aiutando i progetti di reinserimento degli immigrati che si propongono di rientrare nei paesi d’origine, o sostenendo gli investimenti nelle infrastrutture locali.

Quanto al secondo punto, cosa offre il “mercato” politico in alternativa allo Stato nazionale? La risposta oggi più ovvia a questa domanda, che riesce a mettere d’accordo destra e sinistra, è il federalismo, lo Stato federale. Fino a qualche anno fa, questa risposta poteva anche soddisfarci, ma ora non più. Federalismo è un termine ormai troppo generico. Questa parola è diventata una formula magica in grado, secondo certi imbonitori, di risolvere ogni problema. Ma non è così, e basta guardare l’esperienza degli Stati Uniti per convincersene. Il fatto che gli Usa abbiano adottato una costituzione federale non ha impedito l’affermarsi di una politica assimilazionista il cui simbolo è il melting pot, il crogiolo dove le identità di gruppo si sciolgono, svaniscono, per lasciare posto a una nuova razza di uomini, individui autosufficienti in cerca solo della realizzazione personale, tenuti insieme, in modo peraltro sempre più precario, da una serie di regole e da un Credo di ispirazione illuministica. Il multiculturalismo e il politically correct, pur con tutte le loro esagerazioni, e talvolta paranoie, sono la spia delle insufficienze di questo federalismo “hamiltoniano”, attento principalmente agli assetti istituzionali, ai pesi e contrappesi costituzionali, che finisce col perdere di vista le esigenze di partecipazione delle entità collettive, delle differenti realtà comunitarie presenti sul territorio e col ridurre il federalismo, come ha ben visto Alexandre Marc, a tecnica per la costruzione di uno Stato più vasto e potente, a «federalismo dello spazio e del potere politico». Di qui la proposta di Marc di un federalismo integrale, globale, che si proponga di cambiare non solo la forma, ma la sostanza della polis: «Non si tratta, come si sarà compreso, di progettare su un piano più vasto le strutture di una società vittima dei demoni: quello che importa non è solo cambiare la scala delle istituzioni o di determinate strutture, bensì, e soprattutto, il suo senso, conseguimento e sostanza, cioè la sua stessa natura» (cfr. Europa e federalismo globale, Il Ventilabro).

Echi di un simile approccio sono rinvenibili anche da noi con gli studi di Silvio Trentin (1885-1944) e Adriano Olivetti (1901-1960). In tempi più vicini, ci pare di scorgere suggestioni analoghe nel cacciariano manifesto per un nuovo federalismo.

La formula del federalismo globale non appare tuttavia immediatamente spendibile sul piano politico. Il seme del federalismo integrale è germogliato solo in ristrette élites, né poteva essere altrimenti date le condizioni politiche generali. Anche il tentativo di Cacciari non ha finora sortito effetti degni di rilievo. La sinistra non sembra particolarmente scossa o interessata agli stimoli dell’ex sindaco di Venezia. Quando si arriva al dunque, la sinistra non riesce ad andare oltre il buonismo dell’I care. Quanto alla destra, stendiamo un pietoso velo. Ancor più della sinistra, naviga a vista, interessata unicamente a due punti programmatici: il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi e la riduzione dei magistrati in condizioni di non nuocere. Questa è la strategia; il resto è solo tattica e fumo. Eppure, se si vuole fare del federalismo qualcosa di più di una soluzione gattopardesca, di un paravento grazie al quale continuare con le pratiche di sempre, cambiando loro semplicemente il nome; se si vuole che diventi uno strumento capace di accogliere e organizzare democraticamente il proletariato interno ed esterno prodotto dalla globalizzazione, le masse tumultuose che premono e traboccano ai confini o nel cuore dell’Occidente, la via stretta del federalismo integrale ci pare una delle poche percorribili.


L'articolo è apparso sul numero 241 (dicembre 2000) di Diorama Letterario.

Si ringrazia il dott. Giaccio per l'autorizzazione alla pubblicazione.