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Les Bienveillantes. (recensioni)

di Stenio Solinas - 07/12/2006

Un libro crudele e disperato proprio perché non si ferma di fronte agli orrori della guerra

Strutturato in maniera esemplare su sei principali blocchi narrativi, il romanzo racconta,

viste dall’interno, l’ascesa al potere e la caduta rovinosa degli dei di Germania.

Nell’Orestea di

Eschilo, Le

Furie che

incalzano Oreste,

uccisore di

sua madre che

aveva ucciso

suo padre, reo di aver sacrificato una

figlia, si placano allorché, grazie al

voto determinante di Atena, i giudici

mandano libero il matricida: le ragioni

per condannarlo equivalgono,

infatti, a quelle per assolverlo. Da

persecutrici, Le Furie diverranno da

ora in poi Le Eumenidi, benevole

custodi della giustizia e della prosperità

ateniese.

Vera e propria summa del Senso del

Tragico, non è un caso che Jonathan

Littell abbia tratto il titolo del suo

ambiguo e straordinario romanzo

proprio dall’ultimo capitolo della trilogia

eschilea: Les Bienveillantes

(Gallimard, 900 pagine, 25 euro) non

sono altro, infatti, che le Benevole, le

Erinni placate... E se lì a chiedere

vendetta c’era il sangue degli Atridi,

la ragion di Stato e la morale, il rogo

rituale degli innocenti e la sua liceità

in tempo di guerra, la legge e il timore

della legge, la colpa che deve essere

espiata e la espiazione che la

riscatta, ma non la annulla, qui c’è il

cuore nero dell’Europa 1939-1945, la

Seconda Guerra Mondiale, i massacri

e le stragi, il mito della razza e l’antisemitismo,

la “soluzione finale” e la

consapevolezza che non esiste più

pietas. Qui le Erinni non inseguono

Oreste, figlio di Agamennone e di

Clitemnestra, fratello di Ifigenia e di

Elettra: qui sono sulle tracce dell’ormai

vecchio dottor Max Aue che

cominciò il conflitto da sottotenente

delle SS e lo terminò da tenentecolonnello,

uno che forse, non è chiaro,

non ha ucciso la propria madre,

ma di certo ha amato carnalmente la

propria sorella, uno che in piena

coscienza ha liquidato prigionieri di

guerra, ebrei e non, e accettato di pianificare

la loro eliminazione in grande

scala, un nazionalsocialista che

credeva in quello che faceva.

Con duecentomila copie vendute in

pochi mesi, la vittoria al Goncourt e

al Grand Prix de l’Académie Française,

Les Bienveillantes è il caso letterario

più clamoroso di Francia.

Intendiamoci, non si tratta di un

romanzo apologetico e, letterariamente

parlando, Max Aue è uno dei

personaggi più contorti e scostanti

che è dato incontrare. L’amore incestuoso

nutrito da ragazzino verso

Una, la sorella gemella, ne ha fatto

un omosessuale passivo e senza

affetti, capace sì di amicizie, ma teso

a preservare la propria unicità anche

a costo di uccidere chi, in fondo, lo

ha sempre aiutato. L’idolatria per un

padre, già ufficiale nella Grande

Guerra e poi nei Corpi franchi, andato

via di casa e non più tornato, è la

molla dell’odio verso la madre e il

patrigno, ma anche la chiave psicologica

atta a spiegare il perché della sua

adesione: il riscatto di una Germania

sconfitta e umiliata, la necessità di un

Capo, una disciplina, una fede. Laureato,

colto, intelligente, Aue non è

un semplice esecutore di ordini e Littell

è bravissimo a tracciare le motivazioni

filosofiche del suo agire:

«Era vitale comprendere in sé la

necessità degli ordini del Fürher: se

ci si piegava per semplice spirito prussiano

d’obbedienza, per spirito di

Knecht, di servilismo, senza capirli e

senza accettarli, vale a dire senza sottomettervisi,

allora non si era che uno

schiavo, non un uomo. L’Ebreo, lui,

quando si sottometteva alla Legge,

sentiva che quella Legge viveva in lui,

e più era terribile, dura, esigente, più

l’adorava. Il nazionalsocialismo doveva

essere proprio quello: una Legge

vivente. Uccidere era una cosa terribile;

la reazione degli ufficiali lo

mostrava bene, anche se tutti non tiravano

le conseguenze della loro azione;

colui per il quale uccidere non era una

cosa terribile, uccidere un uomo

armato come uno disarmato, e un

uomo disarmato come una donna e il

suo bambino, questi non era che un

animale, indegno di appartenere a una

comunità umana. Ma era possibile che

quella cosa terribile fosse anche una

cosa necessaria; e in questo caso bisognava

sottomettersi a questa

necessità». La necessità per Aue e per

quelli come lui, le SS garanti della

purezza, è la supremazia nazionale che

si incarna nella supremazia razziale.

Non è sufficiente vincere, bisogna

estirpare il pericolo alla radice, perché

il nemico vinto, ma lasciato in vita,

può un domani rivoltarsi ancora contro

di te. È una questione numerica, una

logica numerica...

Costruito su sei grandi blocchi narrativi,

Les Bienveillantes racconta l’ascesa

e la caduta degli dei di Germania dal di

dentro. C’è la grande avanzata verso

l’Est, gli scontri fra il Partito e la Wermacht

su come garantirsi le retrovie,

l’invasione dell’URSS, Stalingrado e

poi l’ordinato prima, convulso poi,

ripiegare e intanto il fronte interno, la

vita a Berlino... Nelle sue vesti di ufficiale

addetto a stendere rapporti sulla

pianificazione dei campi di lavoro e di

sterminio, sulla eliminazione dei prigionieri

o sul loro utilizzo come forza

di fatica, Aue è testimone di scelte che

non possono lasciarlo indifferente, ma

che non sono altro che la conseguenza

dell’assunto che le ha rese possibili.

L’identificarsi con una razza di signori

non lascia spazio a dialettiche: ci può

essere solo la vittoria totale per annientamento

altrui o la sconfitta totale per

annientamento proprio.

Visto dall’esterno, il delirio appare in

tutta la sua tragica e insensata, militarmente

come eticamente, dimensione,

ma Littell nel raccontarlo dall’interno

ne mette in risalto anche la quotidianità

e, per certi versi, la anormale normalità.

Sul fronte bellico orientale, il

più sanguinoso e il più duro, per le

condizioni climatiche, per lo scontro

armato fra due potenze dittatoriali

padrone assolute dei loro sudditi, non

c’è che il mors tua vita mea. Non esiste

generosità, cavalleria e rispetto. È

uno scontro fra soldati dell’età della

pietra, una regressione nell’animalità.

Les Bienveillantes è un libro crudele e

disperato perché non indietreggia di

fronte a nulla. Sul sadismo indotto, per

esempio, Littell scrive pagine esemplari:

«Una facile soluzione sarebbe

biasimare la nostra propaganda:

l’Hëftling, il detenuto, è un sottouomo,

non è nemmeno umano, perciò è legittimo

bastonarlo. Ma non è proprio

così: dopotutto anche gli animali non

sono umani, ma nessuna delle nostre

guardie tratterebbe un animale come

tratta un detenuto. La propaganda in

effetti gioca un ruolo, ma in modo più

complesso. Sono arrivato alla conclusione

che la guardia SS non diviene

violenta o sadica perché pensa che il

detenuto non sia un essere umano: al

contrario, la sua rabbia cresce e

diventa sadismo quando si rende conto

che il detenuto, lungi dall’essere un

sottouomo come gli è stato insegnato,

è giustamente, dopotutto, un uomo

proprio come lui, ed è questa resistenza,

vedete, che trova insopportabile,

questa persistenza muta dell’altro, e

dunque la guardia lo batte per cercare

di far sparire la loro comune umanità.

Naturalmente, la cosa non funziona:

più la guardia colpisce, più è obbligato

a constatare che il detenuto rifiuta

di riconoscersi come non-umano. Alla

fine, non gli resta altra soluzione che

ucciderlo, il che è la constatazione di

uno scacco definitivo».

Intellettuale, Max Aue cerca nelle

parole qualcosa che spieghi e/o giustifichi

la tragicità delle scelte, l’accettazione

del loro grado zero.

«Le parole mi preoccupavano. Mi

ero già chiesto in che misura le

differenze fra Tedeschi e Russi, in

termini di reazioni alle uccisioni

di massa, e che facevano che noi

avessimo dovuto finalmente cambiare

di metodo per attenuare in

qualche modo la cosa, mentre

invece i Russi sembravano, anche

dopo un quarto di secolo, esservi

rimasti imperturbabili, potevano

essere dovute a differenze di vocabolario.

La parola Tod, dopotutto,

ha la rigidità di un cadavere già

freddo, pulito, quasi astratto, la

finalità in ogni caso del dopomorte,

mentre Smiert, il termine

russo, è pesante e grasso come la

cosa in sé. E il francese, nel caso

in questione? Questa lingua,

restava per me tributaria della

femminilizzazione della morte

attraverso il latino: quale scarto

alla fine fra la Morte, e tutte le

immagini quasi calde e tenere che

essa suscita, e il terribile Thanatos

dei Greci! I Tedeschi, loro,

almeno avevano preservato il

maschile (anche Smiert, sia detto

di sfuggita, è femminile).

Lì, nella chiarezza dell’estate,

pensavo a questa decisione che

avevamo preso, questa idea

straordinaria di uccidere tutti gli

Ebrei, chiunque essi fossero, giovani

o vecchi, buoni o cattivi, di

distruggere il Giudaismo nella

persona dei suoi portatori, decisione

che aveva ricevuto il nome,

oggi ben conosciuto, di

Endlösung: la “soluzione finale”.

Ma che bella parola! E tuttavia,

non era sempre stato sinonimo di

sterminio: dall’inizio si reclamava

per gli ebrei un Endlösung, oppure

una Völlige Lösung (soluzione

completa), o ancora una Allgemeine

Lösung (soluzione generale)

e secondo le epoche questo

significava esclusione dalla vita

pubblica, esclusione dalla vita

economica, infine emigrazione. E

a poco a poco il significato era

scivolato verso l’abisso, ma senza

che il significante, lui, cambiasse,

ed era un po’ come se questo senso

definitivo fosse sempre vissuto

nel cuore del termine, e che la

cosa fosse stata ghermita da lui,

dal suo peso, dalla sua smisurata

pesantezzza, in quel buco nero

dello spirito, sino alla singolarità:

e allora si era passato l’orizzonte

degli avvenimenti, a partire dal

quale non c’è più ritorno. Si crede

ancora alle idee, ai concetti, si

crede che le parole designano delle

idee, ma non è necessariamente

vero, forse non ci sono veramente

idee, forse non ci sono realmente

che parole e il peso loro proprio.

E forse anche noi ci eravamo

lasciati trascinare da una parola e

dalla sua inevitabilità».

Così parla Max Aue e Jonathan Littell

gliene dà facoltà per 900 fitte pagine in

cui c’è spazio per una glaciale quanto

impressionante conta dei morti e per una

comparazione filosofica fra nazismo e

comunismo, per una rilettura del processo

di denazificazione della Germania

sconfitta, nel momento in cui i nuovi

equilibri post-bellici ricreano un fronte

occidentale democratico in contrapposizione

a un fronte orientale totalitario,

per una messa a punto dell’antisemitismo

come moneta corrente europea di

tutto l’Otto-Novecento. Scrittore versato

in campo militare, il racconto che Littell

fa della battaglia e poi dell’assedio di

Stalingrado è da manuale, ma tutto il

romanzo è attraversato da comprimari e

primi attori splendidamente ritratti, siano

essi dei teorici nazisti dell’odio antiborghese

che alla fine troveranno a

Mosca il modo per proseguire la loro

lotta, degli aristocratici antihitleriani,

degli ottusi esecutori di ordini, dei fanatici

assassini... Quanto ad Aue, il capitolo

in cui, in una Germania ormai in

fiamme, cerca rifugio nei possedimenti

abbandonati della sorella tanto amata, è

un superbo concentrato di regressione

all’infanzia, sadomasochismo sessuale,

volontà di annientamento...

Les Bienveillantes è non solo il grande

romanzo dell’anno, ma uno dei più affascinanti

che da almeno un trentennio a

questa parte la letteratura ci abbia regalato.

Lo è per le ambizioni, la ferocia

visionaria, il cinismo, la vergogna, l’orrore

e il dolore di cui si nutre. Se poi

quelle del titolo siano veramente Eumenidi

placate o ancora Furie in cerca di

vendetta, il giudizio sta nel cuore di chi

legge.