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Il Male, la riflessione nella cultura occidentale dall’antichità a oggi (recensione)

di Tatiana Genovese - 18/12/2006




Un’indagine sociologica, storica e filosofica sulla concezione del male, quella condotta da R. Safranski nel libro “Il Male, la riflessione nella cultura occidentale dall’antichità a oggi”. Indagine naturalmente destrutturata dall’esigenza di cavalcare stereotipi sulla necessità o ineluttabilità della dicotomia tra il Bene e il Male, quest’ultimo iconizzato in chiave anti-nazista sulle scie dei pensieri dei vari Fromm.
Safranski - un intellettuale ebreo - dichiara che “il male fa parte della libertà umana” e ne è l’antitesi. La strada per giungere alla dimostrazione che “il male non è un concetto, bensì un nome per designare la minaccia che la libera coscienza si trova ad affrontare, o che questa può arrecare a un altro ente” è ardua e prende avvio da due cosmogonie sull’origine del mondo (il mito egiziano del dio aria Shu e il mito prometeico di Esiodo) e soprattutto da alcune storie del Vecchio Testamento: quella del peccato originale, in cui la possibilità di decidere di accettare o di trasgredire il divieto e quindi di scegliere tra il bene e il male, offerta da Dio a Adamo ed Eva, rappresenta la presa di coscienza della libertà dell’uomo e la fine dell’innocenza paradisiaca; e quella del diluvio universale, dopo il quale, Dio, avendo scoperto che il male fa parte non solo della conditio humana ma anche di quella divina, delega agli uomini, attraverso i dieci comandamenti, “ il diritto di tutelarsi vicendevolmente esercitando il diritto di punire”, rimanendo figli di Dio, “ma gestendo personalmente la propria autoconservazione”. Ma l’uomo cosciente della propria libertà è capace di vivere secondo sé stesso e di fare il bene? Secondo Socrate si, in quanto “che un uomo agisca bene o male è una questione di conoscenza adeguata o inadeguata (…) Perché fare involontariamente il male significa piuttosto che ognuno di noi vuole quel che è bene per lui, solo che non tutti sanno quel che per loro è bene”; per tal motivo al centro del pensiero Socratico c’è la conoscenza di sé: “bisogna che il logos dell’uomo assista la sua physis”. Secondo Sant’Agostino invece l’uomo non può vivere secondo sé stesso ma secondo Dio perché “l’uomo che non è aperto a Dio limita drammaticamente il proprio poter essere”, rinunciando alla possibilità di superamento di sé, quindi “di trascendenza”, arriva a rinnegare Dio. Aderiscono a questa visione agostiniana anche Shelling, per il quale “il male è la condizione di un mondo stravolto e bisognoso della rivelazione. L’origine di tale stravolgimento è la libertà intesa come possibilità del bene e del male. Essa pretende troppo dall’uomo il quale non si è mostrato all’altezza del compito (…) Non portando questa libertà a buon esito, si rende necessario un atto del Dio immemoriale. La libertà divina che si manifesta nella rivelazione”; e da Shopenauer, per il quale “contro il male serve il pensiero (…) come alternativa all’azione (…) tutto preme per una vita trasformata. La grande trasformazione sarebbe l’illuminazione della santità” anche se l’uomo di Shopenauer può giungere massimo ad un “distacco estetico”. Ma una volta che l’uomo ha rinnegato il bisogno metafisico, restringendo drammaticamente le sue potenzialità, come può proteggersi da sé stesso? Sant’Agostino confida sempre nella Santa Istituzione della Chiesa, invece l’antropologo Ghelen tiene ferma “l’idea del sacrificio come conquista di sé. Il sacrificio nel quale non si sacrificano altri, ma si fanno offerte sacrificali con la propria persona è l’ascesi. Chi raggiunge tale indipendenza ascetica è un’istituzione in prima persona”. Questo uomo che in quanto cosciente è divenuto “un caso a rischio”, questo uomo in cui l’istinto di autoconservazione conduce all’aspirazione a distinguersi e “alla guerra di tutti contro tutti” anche per Hobbes necessita di un “un potere supremo ancor più alto di quel Dio mortale che è lo Stato, cui esso fornisce una legittimazione”, solo sotto la sua protezione, “il Dio Mortale dello Stato” può garantire, non solo la difesa e la pace, ma anche l’uguaglianza (cfr. 104). Un’uguaglianza però della quale, il Dio della Genesi era stato geloso (come dimostra l’episodio della Torre di Babele), forse perché, come disse Hamann in polemica con Kant: “Un Dio, che non possa più ingerirsi delle differenze ma si limiti a regnare sul tutto non è più un Dio vivente ma un’astrazione parossistica…”. La disuguaglianza conduce gli uomini alla guerra, a quella guerra che per Kant rappresenta “il male in ogni senso”, infatti secondo la sua morale “non ci sarà un universo politico omogeneo e pacificato (…) e i rapporti elementari di ostilità (lo stato di natura) tra i diversi organismi politici nazionali – a differenza che tra gli individui – non potranno essere rimossi, ma nella migliore delle ipotesi regolati”. Ma Kant pone il rimedio nell’ “universalità della ragione, organo che consente al singolo di sentirsi membro, non soltanto di un popolo e di uno stato, ma dell’intera umanità. La ragione fa cadere le barriere; il singolo, rispettando e ascoltando la propria ragione, scopre e rispetta al contempo l’umanità dentro di sé”. Max Scheler, nel suo “Il genio della guerra” si oppone alla morale kantiana, infatti per lui la guerra ha il significato estremamente positivo di “riemergere i talenti esistenti” in quanto “richiede al singolo di andare al di là del puro interesse per l’autoconservazione”. Per il cattolico Carl Schmitt, anche lui in contrasto con le considerazioni kantiane, “la fede nelle illimitate possibilità di cambiamento e di felicità dell’esistenza naturale e terrena dell’uomo” rappresentano un’aspirazione che porta all’insuccesso, perché per lui “l’unione della vita con la pace è configurabile solo in Dio e nella riconciliazione da lui operata”. Rousseau invece sposta l’attenzione, non parlando più solo dell’uomo, o del rapporto tra Dio e l’uomo, l’uomo e il mondo, il cogito e la rex estensa, questi ripiega sul collettivo singolare: la “volontà universale”, il popolo. Infatti nella visione sociale rousseiana “questo singolare popolare viene sussulto sotto l’ideale esistenziale del vero sé, un ideale che può svilupparsi nel singolo essere personale e che questo soltanto può realizzare. Se Rousseau non ha accettato la sfida della pluralità, la tradizione del pensiero liberale, (rappresentata nel libro da Montesquieu, da Marx e dal documento base della Costituzione americana, il “Federalist Papers”) invece investe nell’idea che “non si possono migliorare gli uomini, bisogna invece investire nella razionalità delle strutture”, sarà quindi “la natura dei loro legami reciproci a decidere il buono o il cattivo svolgimento della storia.” Ma tra i liberali esistono anche delle differenze, c’è infatti tra di essi chi confida nella divisione dei poteri e nel mercato e chi invece punta sui rapporti di produzione; in tutti e due i casi però si ignorano i rischi a cui può condurre la libertà umana. Al di là di questa breve incursione nell’universo socio-politico, il discorso ritorna a stringersi attorno all’uomo e alle considerazioni kantiane sulla libertà morale, in cui il male viene inteso come “un’opzione della libertà”, in quanto “pur essendoci un’inclinazione al male, non c’è tuttavia coazione ad esso, dal momento che noi, in quanto esseri razionali, disponiamo pur sempre del margine per decidere a quali istinti concedere un’influsso sulle massime dell’agire”. Come Kant, anche il marchese de Sade spera in una “vittoria della libertà spirituale sulla natura”, ma “è una libertà di segno opposto”, infatti in Sade “la libertà finisce per inabissarsi nella negazione assoluta (…) e se Kant cerca il bene assoluto, Sade cerca il male assoluto” e finisce per riversare “l’intera energia dell’azione malvagia nella scrittura”, ma si scopre che il male, volendo sé stesso, alla fine sfugge, e rimane il nulla. E questo fascino sinistro esercitato dal male sull’arte è ricco di esempi: Flaubert, l’horror vacui di Baudelaire, l’esperienza dell’abisso di Conrad, Sartre (“l’uomo è l’essere mediante il quale il nulla entra nel mondo”) e infine la potenza distruttrice e autodistruttrice liberata dal romanticismo.
Ma se quindi “il male viene all’arte dal mistero creativo di lei, in quanto creazione dal nulla” è anche vero che l’arte è buona perché come scrive Hegel “riesce a far apparire vera la bellezza e bella la verità”. Ma tale condizione “presuppone la concezione che l’arte svolga una funzione utile nell’ordine del mondo”. Diverse sono le motivazioni date all’arte affinché essa possa considerarsi utile all’esistenza e giustificare il suo ruolo (in Shiller l’arte è gioco e “solo in essa l’uomo perviene alla propria verità”, per Nietzsche “solo in quanto fenomeni estetici l’esistenza e il mondo hanno perenne giustificazione”, per Kafka “non è più l’arte a doversi giustificare dinnanzi al mondo, ma il mondo dinnanzi all’arte e non ci riesce più”. Ma se l’estetica del terrore, iniziando da Sade ha esplorato un “nulla” seducente e minaccioso, con Nietzsche il pensiero approda al nichilismo. Facendo un passo indietro, si ricorderà che l’uomo si era “elevato” attraverso la conoscenza, ma in seguito facendo della conoscenza la misura di tutte le cose l’uomo è stato sommerso nell’universo delle cose, approdando al nulla; quest’ultimo passaggio rappresenta l’aspetto inquietante della conoscenza moderna ed è a questo aspetto inquietante che si richiama Nietzsche quando dice che la “la vita si scopre come qualcosa che non basta a sé stessa, che è troppo debole per trarre dal suo essere immediato l’autoaffermazione necessaria”, e quindi quando approda al nichilismo, ma, per il filosofo tedesco c’è chi può sfuggire a questa “totale assenza di significato e di morale”: “ le nature forti non devono temere il nichilismo e l’insensatezza, perché tutto il senso è già in quel che essi incarnano (…) I forti non sanno che farsene di una morale che protegga i deboli e li preservi dalla sfida dell’insensatezza. La volontà di potenza produce la propria morale”. Ed ecco che, con un atteso volo pindarico, questo nichilismo e questa rottura con tutto l’universo morale viene, secondo Safranski, perfettamente incarnata da Hitler:
“A partire da Auschiwtz, mito fondante negativo, la civiltà occidentale è segnata dal nichilismo” (cfr.p.238). Si giunge così alle finali faziose considerazioni di Safranski sulla immancabile “cupa follia del secolo”, con un “Hitler che rappresenta l’estrema follia dei freni inibitori nell’età moderna”. Con tesi che tentano invano di rovesciare i dettati nicciani, tipo: “Allorché si è smesso di credere in Dio, si è cercato un surrogato credendo nell’uomo. Ora facciamo la strabiliante scoperta che credere nell’uomo era più facile quando, evitando le scorciatoie, si passava attraverso Dio”.
Ma in questo mondo, che come scrive Margarete Susman, “è diventato cieco per eccesso di male”, giova ricordare a Safranski la storia della devozione di Giobbe, il quale sopporta le sofferenze che Dio gli infligge, dopo la “scommessa” con Satana”, ma “non la conoscenza di averle meritate”. Giobbe, accuserà Dio per aver “consentito la perversità morale del mondo”, ma poi ritornerà a lui e si manterrà fedele a Dio, per non rinunciare a sé stesso perché se “si staccasse da Dio distruggerebbe anche sé stesso (…) un sé capace di trascendere e di trovare in questa trascendenza la propria ricchezza, l’umanamente possibile. Giobbe rifiuta di abbandonarlo, di tradire la trascendenza. Col chè si mantiene fedele alla dignità dell’uomo”. Con questa rinnovata fiducia nell’uomo e “nella libertà che consente all’uomo di mantenersi fedele alla trascendente vastità del suo essere” (Max Weber), nonostante il pericolo in agguato del non controllo della logica della civiltà scientifico-tecnica, che Safranski termina questo saggio, in cui ha riportato sul piedistallo la tesi manichea del bene e del male, naturalmente con “il male che è sempre, in un modo o nell’altro, sulla cresta dell’onda e non c’è bisogno di scomodare il diavolo per capirlo”.