Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La Filosofia della moda (recensione)

La Filosofia della moda (recensione)

di Tatiana Genovese - 02/01/2007



“Può esistere una filosofia della moda?”
Il giovane filosofo norvegese Lors Fr. H. Svendsen ha tentato di rispondere a questo “dubbio amletico” a cui, per fortuna, nessun filosofo ha mai risposto, forse perché la moda non si considerava all’altezza dell’indagine filosofica o forse perché, semplicemente e giustamente, i filosofi precedenti erano impegnati nella risoluzione di altre problematiche esistenziali.
In ogni caso il fatto che Svendsen abbia scritto un libro intitolato “Filosofia della moda”, edito in Italia dalla Guanda, non implica una conseguente risposta positiva alla succitata questione.
Presupponendo, però, che l’indagine filosofica ha lo scopo di coadiuvare l’uomo nella comprensione di sé stesso e del suo comportamento, allora la moda, data la sua enorme influenza (“nella parte di mondo dove noi viviamo e in questo momento storico è praticamente impossibile restare immuni dal suo influsso. Perfino i più poveri tra noi rientrano nella sfera d’azione della moda attraverso la loro coscienza di non poterne partecipare in un grado degno di nota.”), necessiterebbe di una seria, o quasi, rivalutazione, magari anche sotto il profilo filosofico.
Certo la questione sembrerebbe marginale ed estremamente superficiale, e forse lo è, ma, data l’originalità del testo e lo sguardo acuto dell’autore sulla realtà, vale la pena leggere questo saggio e interrogarsi assieme a Svendsen sul vero significato, sempre se lo abbia, della moda.
Se il principio della moda consisteva, inizialmente, in una “logica sostitutiva”, guidata da una compulsione innovativa, volta alla perenne creazione di qualcosa di nuovo (“il principio della moda imponeva una rapidità sempre maggiore, esigeva che si rendesse superfluo un oggetto il più velocemente possibile per poterne introdurre un altro”); oggi i dettami sono cambiati, e tale processo è stato sostituito da una “logica suppletiva”, secondo la quale “tutte le tendenze sono riciclabili e una moda nuova non si propone di subentrare alle precedenti: si accontenta di aggiungersi ad esse.”
Una volta chiarito il principio, è necessario, in questa disciplinata analisi del “fenomeno moda” illustrare anche il suo processo di sviluppo. Svendesen parte dalla teoria, propugnata in origine da Adam Smith, del “drop up down” (“gocciolamento dal basso”), secondo la quale “l’innovazione ha luogo nei livelli sociali altolocati e si diffonde poi verso il basso facendo leva sull’aspirazione a innalzarsi degli strati inferiori, con la conseguenza che però questi ultimi restano sempre in posizione arretrata.”. Tale tesi però è immediatamente contraddetta, in sociologia, dalla teoria di Gabriel Tarde (“la società moderna si apre a una maggiore flessibilità imitativa, al punto che anche le classi superiori possono prendere a modello le inferiori.”) e, nella moda, dalla collezione del 1966 di Yves Saint Laurent che propose i jeans (capo da lavoro per eccellenza) firmati, elevandoli a “capo egualitario”. L’unica certezza che ha Svendsen, riguardo al modello di diffusione della moda, attiene ai tempi moderni, caratterizzati, oltre che da un marcato individualismo, soprattutto da un’espansione che non segue più il criterio del reddito o del ceto, ma quello dell’età, per cui “la moda comincia presso i clienti più giovani per poi estendersi ai più vecchi”.
Se fino ad ora, l’autore ha tentato di svelare, con scarsi risultati, il “significato moda” attraverso lo studio della sua logica, della sua temporalità e del suo modello di propagazione, adesso si rivolge all’analisi del rapporto che essa ha con il linguaggio e con il corpo. Nel primo caso Svendsen sottolinea come oggi, l’abbigliamento non è in grado di esprimere un’informazione in sé, soprattutto se decontestualizzato. Non ha quindi un “codice semantico”, ma piuttosto un effetto estetico, in quanto, sempre secondo l’analisi di Svendsen, “Se è vero che la moda può comunicare qualcosa, allora dirà ‘Guardami!’ o simili (…) Non possiamo escludere che essa ‘dica qualcosa’, però come mezzo di comunicazione i vestiti sono nel complesso ben poco adeguati”. Nel caso invece del rapporto tra la moda e il corpo, l’autore tende soprattutto a sottolineare come la moda abbia sempre goduto di una certa libertà rispetto alle forme del corpo; al contrario è il corpo, o meglio “la nostra percezione del corpo umano”che si è sempre imbevuta delle mode vigenti (cfr 84); un concetto quest’ultimo assai significativo perché è teso a mostrare come sia il corpo che tenti di adeguarsi alla moda, ricercando un perenne ideale di bellezza e per tale motivo, rimanendo sempre a mani vuote, e non viceversa.
Una volta esclusa quindi la possibilità di un linguaggio della moda e di un rapporto di interdipendenza con il corpo, Svendsen tenta un altro approccio: la dimostrazione che la moda sia vera arte. L’analisi condotta con una seria precisazione storica e innumerevoli esempi (dai pittori che hanno disegnato abiti come Klimt, Matisse e Dalì, a espressioni artistiche adattate a contesti di moda come le t-shirt con le stampe di Keith Haring, fino all’esposizione degli abiti di Armani presso il Guggenheim di New York o le pretenziose sfilate di John Galliano e Alexander McQueen) sembra inizialmente tesa a mostrare perché la moda possa essere considerata una forma d’arte, il giudizio finale dell’autore però chiarisce che la questione da porsi non è questa, quanto piuttosto: “se si tratta di arte di qualità e rilevanza. E di conseguenza anche fino a che punto la moda, letta in chiave artistica sia arte di valore.” La risposta, posta in termini generali, secondo Svendsen, non può essere positiva, non solo, anche in questo caso tra l’arte e la moda, non esiste un rapporto interdipendente di continuità, in quanto “l’arte ha continuato a essere di moda, mentre quest’ultima sembra sostanzialmente essere uscita di moda ogni volta che ha voluto essere considerata arte.”
Se quindi un capo d’abbigliamento non ha un significato, né un linguaggio, non è neanche una forma d’arte, qual è allora l’essenza della moda, anche in rapporto a noi consumatori? Svendsen insiste nello sviscerare il “fenomeno moda” e questa volta sposta l’obbiettivo sui consumatori e sulla loro necessità di cercare un’identità attraverso l’acquisto di valori simbolici: abiti firmati. Ma anche in questo caso l’essenza della moda è quella, sì di produrre segni efficaci, ma che, in poco tempo, diverranno inefficaci; così il valore simbolico ricercato dal consumatore “si consuma sempre più rapidamente” e il vero oggetto dei suoi desideri diviene quindi la ricerca di appagamento di nuovi bisogni, perennemente creati dalla moda. Anche quindi in rapporto al consumatore la moda non trova la sua espressione. È ormai evidente, anche per Svendsen, che la moda è un fenomeno fin troppo complesso “che finge di possedere un significato – o magari di procurarlo a chi la segue – ma che in realtà lo possiede solo in minima misura” in quanto “ Un individuo può avere un’identità solo in forza del fatto che determinate cose significano qualcosa per lui o per lei, e viceversa è l’identità dell’individuo che rende possibile stabilire che cosa assuma significato e cosa no per quella specifica persona”. A questo punto all’autore resta solo una constatazione: la moda altro non è che un “viaggio tra le verità scomode del mondo?” Ma ora la questione diviene: “Quali verità?” Svendsen risponde: “che coltiviamo la superficie, che viviamo in una realtà sempre più fittizia, che abbiamo un’identità sempre meno durevole? Se è così, allora la moda ci racconta verità della cui realizzazione essa ha rappresentato la più attiva forza motrice”.
Lors Fr. H. Svendsen, “Filosofia della monda”, Guanda, pp.224, Euro 13,00.