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Non solo villette, ma società. Parla l’urbanista Pier Luigi Cervellati

di Pier Luigi Cervellati/Leonardo Servadio - 03/01/2007

Parla l’urbanista Pier Luigi Cervellati: con occhio critico alle trasformazioni delle ex aree industriali in zone dove avvengono affari mercantili. «Penso a Novoli, a Firenze»

 

«La tendenza dominante è quella di Milano, con la "città diffusa", ma il rischio è la dispersione della convivenza storica»

 

Riqualificazione sì, ma anche molto, forse troppo "mercato". Pier Luigi Cervellati, docente di recupero e riqualificazione urbana presso l'università di Venezia, guarda con occhio critico al fiorire di trasformazioni delle periferie industriali. «L'esempio che ho in mente - spiega Cervellati - è quello di Novoli, a Firenze, uno dei primi casi di ampia riqualificazione urbana, di cui si è molto discusso negli anni '80. Per favorire lo sviluppo industriale, il Comune fiorentino aveva ceduto quell'area alla Fiat, nel 1945, per il prezzo simbolico di 1 lira. I capannoni industriali che vi sorsero avevano una loro dignità, e non solo per il lavoro che vi si svolgeva. Ma negli anni '80 la Fiat ne propose la "valorizzazione". Giù i capannoni, al loro posto nuovi edifici abitativi: qualche servizio, aree pubbliche a verde… Fu la madre delle grandi speculazioni sulle aree urbane. Seguita a distanza di qualche anno dalla Bicocca a Milano: la Pirelli indisse un concorso, Vittorio Gregotti lo vinse e là dove c'era l'imponente insediamento industriale a nord di Milano, ecco sorgere un nuovo quartiere urbano: appartamenti di pregio, il teatro degli Arcimboldi, uffici, università… E dalla realtà industriale Pirelli nasce "Pirelli Real Estate", dedita agli investimenti immobiliari. Il mio timore è che con interventi di questo tipo, più che il "recupero" di queste zone un tempo industriali, possa avvenire la loro cancellazione.»
Ma l'industria ormai si è trasferita altrove…
«Sì, ma in quelle aree c'erano edifici significativi di quella che oggi si considera archeologia industriale: bisognerebbe mantenerli. Penso agli altiforni delle acciaierie situate nelle zone limitrofe a quelle del progetto Bicocca, a Sesto San Giovanni. Gli altiforni sono strutture veramente esemplari, stanno a testimoniare il lavoro e la fatica di generazioni di uomini. Vi si sente ancora l'eco della sofferenza, dell'impegno, dello sforzo di chi vi entrava come operaio all'età di 14 anni e vi spendeva tutta la vita, fino a 55 anni, per poi andare in pensione qualche anno e morire. All'inizio del secolo scorso in posti come questi si lavorava fino a 12 ore al giorno; chissà se ce ne ricordiamo, quando oggi giustamente ci indigniamo per lo sfruttamento degli operai cinesi. E tuttavia c'era anche l'orgoglio di chi con le proprie mani sapeva di forgiare la crescita di una nazione, e di chi si univa nelle lotte per migliorare le condizioni di lavoro… Per me gli altiforni sono sculture di grande significato, migliori di quelle di tanti artisti contemporanei. Toglierli di mezzo, sostituirli con edifici che a volte sembrano prevalentemente esercizi di un esibizionismo architettonico smodato, comporta uno stravolgimento totale del territorio e della sua storia, una imperdonabile banalizzazione dell'ambiente urbano. L'età industriale ha prodotto edifici enormi, lunghi centinaia, migliaia di metri, spesso di qualità ingegneristica non indifferente. Bisognerebbe mantenerli, almeno in parte, almeno nei loro aspetti più caratteristici. Possono essere riutilizzati come biblioteche, musei, centri di studio. Eppure in prevalenza questi luoghi sono cancellati, sostituiti da nuovi insediamenti abitativi. È accaduto anche a Trento, con gli ex stabilimenti Michelin: ma gli esempi in Italia sono numerosi».
Tuttavia si parla ancora di necessità di case…
«In Italia non c'è bisogno di edilizia residenziale. Stiamo assistendo alla crescita di una bolla immobiliare. Che si innesta peraltro sulla necessità reale di intervenire bonificando e migliorando, certe porzioni di territorio. Quindi è in parte legittima, ma il punto è che bisognerebbe limitarla, ed evitare che giunga a cancellare l'identità di certi luoghi. Napoli città sta perdendo abitanti: si ingrandiscono le periferie; occorrerebbe trovare soluzioni diverse da quelle dei meri edifici abitativi, trovare aree che favoriscano l'aggregazione e il sorgere di nuove attività lavorative».
Qualche esempio di riuso riuscito?
«Penso ai loft inglesi degli inizi: edifici industriali riabitati da professionisti e artisti. Erano fabbriche e rimanevano luoghi dove si svolge del lavoro. Ma in Italia esempi di questo genere sono rari. La tendenza dominante è quella che si vede a Milano, dove si parla tanto di "città diffusa", "città regione": ma in realtà avviene la dispersione della città. E in fondo il suo rifiuto. La città storica era il luogo della convivenza: con le sue piazze e le sue chiese, ma anche le sue fabbriche dove c'era aggregazione e lavoro cooperativo. Nella villettopoli diffusa, non solo i luoghi della memoria, ma anche i luoghi della socialità tendono a scomparire».