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Goodbye Mr Socialism. Ma forse la rivoluzione, ora, si può pensare veramente grazie ad Heidegger

di Gianni Vattimo - 17/01/2007

Un addio al socialismo che ha smesso di credere alla trasformazione radicale della società. Ma forse la rivoluzione, ora, si può pensare veramente grazie ad  Heidegger



Era un po’ impietoso il giudizio di Noam Chomsky sul grosso volume che ha riportato, qualche anno fa, l'attenzione su Toni Negri, quell'Impero (tradotto da Rizzoli) che, forse anche per merito del collaboratore americano Michael Hardt, appariva già meno ermetico di tante altre opere del professore padovano. Chomsky aveva osservato che le tesi di Impero avrebbero potuto essere più utilmente e chiaramente espresse in un numero assai minore di pagine invece che in un tomo di quello stile e di quelle proporzioni. Leggendo ora le conversazioni di Negri con Raf Valvola Scelsi (autore tra l'altro di una antologia di testi politici intitolata Cyberpunk, ed. Shake 1990), ci rendiamo conto di quanto giovi alla comprensione, e anche alla persuasività, delle idee di Negri la collaborazione di un ascoltatore che lo aiuta a riassumerle e a chiarirle.

L’addio al socialismo (Goodbye Mr Socialism è il titolo, ed. Feltrinelli) di cui qui si parla non è affatto, come è ovvio per chi conosca Negri, una presa d'atto di ciò che purtroppo persino molta sinistra ormai sembra aver accettato, e cioè che non c'è altro sistema economico efficace fuori del capitalismo. Al socialismo, invece, si dice qui addio proprio perché si è lasciato affascinare (non certo per motivi estetici) dal modo di produzione capitalistico, rinunciando agli originari propositi di condurre l'umanità fuori dalla preistoria dello sfruttamento e della violenza. Il disastro del socialismo reale dell'Urss, culminato nella dittatura staliniana e nei suoi crimini sanguinosi, si spiega anzitutto in base a questo tradimento originario che, molto al di là delle personali scelte di Stalin, è stato reso necessario dall'assedio in cui fin dall'inizio il sistema sovietico è stato rinchiuso da parte delle potenze capitalistiche. È del resto qualcosa di cui tutti ci possiamo render conto facilmente: per portare la Russia feudale di inizio Novecento al punto di competere con gli Stati Uniti nella corsa allo spazio negli anni Cinquanta, era difficile non seguire la via di quella industrializzazione forzata che ha fatto perdere ogni contenuto libertario al sistema dei soviet: dell'originario programma leninista (comunismo è soviet più elettrificazione) è rimasto solo l'ideale dello sviluppo industriale accelerato, necessario per non essere strangolati dall'assedio del capitalismo (e tra l'altro, per battere Hitler nella seconda guerra mondiale). Non che Negri assolva così completamente Stalin e la classe dirigente sovietica che lo seguì; ma certo mostra quanto di oggettivamente inevitabile ci sia stato nella involuzione della Russia dalla Rivoluzione d'Ottobre fino alla caduta del muro di Berlino. Tutto è dipeso dal non aver creduto, o potuto credere, nella trasformazione radicale della società e anche nella creazione di quell'uomo nuovo sovietico che l'avrebbe dovuta produrre.

Il socialismo è dunque morto per suicidio, si è ridotto, nelle socialdemocrazie industriali, a un capitalismo di Stato che - appunto in quanto sempre fondato sull'idea del profitto, annacquata solo con qualche meccanismo redistributivo (Welfare ecc.) - mostra di non reggere ai ritmi del capitalismo «autentico» che cerca il profitto e che per questo ricostruisce continuamente strutture di dominio e di sfruttamento. La fine del socialismo, si potrebbe dire, mostra per Negri anche l'improseguibilità del capitalismo. Nella quale ha una grande parte proprio lo sviluppo delle tecnologie nell'era dell'informatica. Come volete ancora, per esempio, che sia possibile difendere la proprietà intellettuale - di software, di brevetti farmaceutici, di musiche e film - nella società dove Internet tende a mettere tutto «in comune»? Persino fenomeni come Echelon - il sistema di intercettazione «universale» di messaggi che, diretto da Usa e Gran Bretagna, sorveglia ormai tutta la nostra vita - non permette più di pensare alla distinzione tra pubblico e privato nei termini tradizionali; e se non vuole trasformarsi in una orrenda macchina orwelliana, richiede un ripensamento di tutto il sistema sociale. Che in fondo dovrebbe ricuperare l'originale ideale dei soviet - dei consigli di cittadini coinvolti in prima persona nella direzione collettiva della cosa pubblica. Negri, che ha pubblicato di recente un altro grosso libro «programmatico», Moltitudine.

Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (Rizzoli), conta molto sulla potenza delle nuove tecnologie in direzione della affermazione di ciò che egli chiama «il comune», ciò che non è privato ma neanche pubblico nel senso tradizionale, cioè statale. Comuni sono certi beni che, come nelle società preindustriali, e oggi ancora in certe forme comunitarie di culture non completamente europeizzate (le società andine, per esempio), sono a disposizione di tutti (una volta i pascoli comunali, per esempio). Acqua e aria pulita sono beni «comuni» di questo tipo, che tendono a esserlo sempre meno se non cambia l'ordine capitalistico in cui ancora viviamo. Un comunismo «sovietico» nel senso originario della parola sembra oggi più possibile di quanto non fosse a inizio Novecento: per esempio (come aveva suggerito un bel libro di Aldo Schiavone di molti anni fa) in una società in cui tutti abbiano accesso alla rete informatica è più facile evitare la burocratizzazione di partiti e strutture statali che ha soffocato le società socialiste, giacché si possono mettere in comune molte più informazioni e così anche democratizzare molte decisioni di interesse generale. Il pensiero post-modernista, di cui Negri ingiustamente diffida, forse perché troppo influenzato da autori anglosassoni, o dallo stesso Habermas - che però lo demonizzano proprio come nemico di quella «modernità» che neanche a Negri dovrebbe piacere tanto (stalinismo è stato anche «modernizzazione») - ha lavorato proprio su questo terreno, dell'apertura a nuove forme di vita individuale e collettiva meno centrate sul soggetto proprietario e forse anche meno legate agli ideali «politici» della modernità. Proprio in quanto post-modernisti, potremmo dire, ci sentiamo di scusare l'assenza di programmi strettamente politici dal discorso di Negri. Quando parla delle moltitudini e dei sintomi di un loro risveglio in varie forme e in varie parti del mondo (no global, esperienze cooperative di base ecc.) sembra che le sue tesi sfumino in una sorta di attesa mistica di un rinnovamento che - giustamente, del resto - non può identificarsi con la fondazione di un partito o con la presa di qualche Palazzo d'Inverno. Forse solo il postmodernismo (e penso proprio a Nietzsche e a Heidegger, che Negri bolla come reazionario) può aiutarci a pensare una «rivoluzione» che non pretenda di dar luogo a un nuovo «ordine» rigidamente stabilito e formalizzato (come in fondo lo vorrebbe Habermas), ma che accetti di preparare, con uno stile un po' più ironico e anarchico, nuove forme di esistenza delle quali, per ora, abbiamo solo un vago sentore.