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Inquieto non è infelice

di Marco Mancassola - 21/01/2007

     
   

"Nei rumori ovattati del fiume, respiro. Il lento disperdersi del mio fiato condensato. La brezza attraversa i vestiti, accendendo nel corpo l’inquietudine come una brace, e so che è questo che sarò per sempre: inquieto. Oh, non la solita inquietudine di chi ancora si sta cercando, né un’inquietudine-punto di partenza, bensì un nuovo e stabile strumento, un rigoroso organo di conoscenza. Nella notte lucida e fredda, so davvero quello che sono." (Marco Mancassola, Last Love Parade)

I sentimenti umani sono sempre gli stessi. Sempre uguali, sempre diversi. Sono soprattutto le parole che li definiscono a cambiare, nel loro peso, nelle loro implicazioni. "Amore" non può suonare oggi la stessa rassicurante, promettente, eterna parola che poteva sembrare fino a pochi decenni fa.
Questa era l’idea dietro un libro uscito da un paio di mesi. Il libro è un’antologia, si chiama "I Nuovi Sentimenti", sta andando piuttosto bene e sembra, anzi, che sia esaurito nelle librerie. In questo libro c’erano interventi di vari scrittori, e fra questi scrittori c’era il sottoscritto, e il mio pezzo è stato titolato fatalmente dai curatori "Amore", sebbene il pezzo parli soprattutto di sesso. Anzi, il pezzo parla del tentativo di dare un nome ai propri desideri sessuali, quanto mai inquieti e sfuggenti.
Ciò di cui mi sono accorto, da commenti trovati su blog e giornali, è che il panorama sentimentale descritto dal libro (e quindi descritto anche dal mio pezzo) sia stato preso come il classico "deserto sentimentale", grigio e un po’ squallido, cinico e disulluso, del quarantenne single contemporaneo (categoria cui apparterrebbero, sempre che significhi qualcosa, alcuni dei miei compagni di antologia).
Io non sono un quarantenne single. E anche se lo fossi, sentirei comunque stretta questa immagine. Così come mi sta stretta, da sempre, qualunque immagine (più o meno sessuale, più o meno "sociologica") che gli altri si fanno di me. Quello di cui scrivo, da sempre, sono sentimenti di attesa, sentimenti inquieti, stati d’animo sfuggenti. Cioè posizioni che non si lasciano incasellare. Non per paura di dar loro un nome, ma semplicemente perché sono oltre ogni nome.
Eppure mi accorgo che per molti tutto questo ha un nome ed è, appunto, "grigio". "Squallore". "Depressione giovanile". Molti vengono a chiedermi perché parlo sempre di gente emarginata e depressa. Strano, rispondo io. A me sembra di scrivere di gente normalissima, e semplicemente inquieta. L’inquietudine non è infelicità. L’inquietudine è uno stato a sé. L’inquietudine, a volte, può anzi sconfinare nell’esaltazione, nella gioia, nella percezione di essere gloriosamente soli, perfettamente liberi. L’inquietudine, per me, è condizione per la nascita di una nuova razza di eroi.
Rivendico fieramente l’inquietudine come stato non di miseria sentimentale, bensì al contrario di forza, di ricerca instancabile, di continua meraviglia percettiva. L’inquietudine è uno stato epico. Uno strumento di conoscenza. Non è la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa che verrà. Non so cosa sia, ma so che la nostra epoca è dominata da questa attesa, da questo eco retroattivo di un evento (sentimentale, esistenziale, apocalittico, cosmico o chissà) che sentiamo avvicinarsi. Lo sentiamo nel corpo. Nel sangue, nei nervi. L’inquietudine è questo stato di chi si trova nel limbo, oggi, tra un’epoca storica e un’altra. È come correre nudi in un’immensa prateria. È tutto già visto, tutto sconosciuto, è tutto spaventoso e tutto bellissimo.
Mi piacerebbe si smettesse di pensare che questo sia un tempo inutile e vuoto. Che l’unico stato soddisfacente sia una tranquilla sazietà stile anni 60. Mi piacerebbe smettere di parlare con gente che fantastica di vivere in un’altra epoca. E che ognuno provasse ad amare il proprio tempo. Questo tempo in cui viviamo, quest’attesa in cui siamo immersi. Affondare le mani nell’inquietudine, per trarne inattesa conoscenza.
Mi piacerebbe si smettesse di riportare tutto al minimo comune denominatore, ossia al luogo comune, alla scala minima del pensiero. Potrà sembrare un’affermazione snob, ma mi piacerebbe smettere di essere coinvolto nella mediocrità degli altri. Nella loro banalità. Se tu dici specchio d’acqua, loro capiscono pozzanghera. Se tu dici veste, loro capiscono straccio. E se tu dici amore, loro cosa capiranno?
Siamo gente che vive sull’orlo del burrone. Il burrone è profondo e pauroso, eppure brilla nell’oro dell’alba. Siamo gente che grida la parola ‘amore’, ancora, nell’abisso, aspettando che l’eco ce la riporti. Ogni volta uguale, ogni volta cambiata.