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Dal vostro inviato nei cambiamenti del clima

di Robert Fisk - 31/01/2007

 



 

Era un campanello d'allarme. Un filmino fatto in casa, ovviamente ormai rovinato dopo più di 50 anni, girato da mia madre, a colori. Ma il colore più ricorrente è il bianco. Bill Fisk, il cinquantasettenne tesoriere del distretto amministrativo di Maidstone, in piedi nel giardino della nostra casa con indosso il suo lungo cappotto nero, tipico della sua carica, e con al collo – come d'abitudine – la sua cravatta regimental della Prima Guerra Mondiale, lancia palle di neve a suo figlio.

Io ho 10 anni, in pantaloncini corti ma sprofondato nella neve fino alla cintola. Ci dovevano essere almeno 60 cm di neve nel giardino. Si poteva persino vedere il ghiaccio condensato agli angoli della mia bocca. Ovviamente mia madre non appare nel filmino. Lei si trova in piedi in mezzo alla neve alle spalle di mio padre: 36 anni, figlia di proprietari di un caffé i quali ogni 26 dicembre erano soliti ospitare la mia famiglia e la famiglia di mia zia, accogliendoli con un grande pranzo e un fuoco scoppiettante. Allora faceva veramente freddo.

Credo che il primo a farmi riflettere su cosa stesse accadendo sia stato Andrew Marr, quando era direttore di The Independent. Era un'estate afosa e io ero appena arrivato a Londra da Beirut; dissi che non c'era una grande differenza di temperatura. E Andrew si voltò è indicò la città. “C'è qualcosa che non va in questo dannato tempo!” ruggì. E naturalmente aveva ragione.

Adesso lo riconosco silenziosamente: le grandi perturbazioni che spazzano l'Europa, la strana turbolenza che i piloti d'aereo sperimentano ad alta quota sull'Atlantico. Poiché non ho mai viaggiato così lontano o così frequentemente, noto che a fine anno ci sono 15 gradi a Toronto e a Montreal – un “Natale primaverile”, i giornali canadesi annunciano in una terra famosa per la sua tundra. A Denver, l'aeroporto è bloccato a causa delle nevicate. Torno in Libano per scoprire che è caduta così poca neve che la maggior parte del Monte Sannine sopra casa mia è del colore della roccia grigia, appena una spruzzatina di bianco sulla vetta. La neve è alta a Gerusalemme. A Beirut c'è penuria d'acqua.

Con quanta noncuranza ci arrivano questi campanelli d'allarme. Con quanto noncuranza li ascoltiamo. Sospetto che la maggior parte della gente si senta così lontana dal potere politico – così rassegnata quando si trova di fronte a una tragedia di dimensioni planetarie – che non riesce a fare altro che restare a guardare con angoscia e rabbia crescente. Ci viene detto che il livello dell'acqua negli oceani può aumentare di sei metri. E io ho calcolato che a Beirut, le onde del Mediterraneo – col cattivo tempo – si infrangeranno contro il muro del mio balcone del secondo piano.

Mi rannicchio nel letto, perché le notti sono stranamente umide, e leggo alla luce della lampada del mio comodino il resoconto avvincente e doloroso che Hans von Sponeck dà degli anni in cui è stato Coordinatore Umanitario dell'Onu per l'Iraq, “Un tipo differente di guerra”, un'analisi del regime di sanzioni crudeli e criminali rivolte contro il popolo iracheno tra il 1990 e il 2003. Questo, ad esempio, è ciò che Sergei Lavrov, ambasciatore russo alle Nazioni Unite, scrisse nel marzo del 2000: “… la vasta portata della catastrofe umanitaria in Iraq sta inesorabilmente portando alla disintegrazione della stessa struttura della società civile.” Si trattava di “una situazione in cui un'intera generazione di Iracheni è stata piegata fisicamente e moralmente”. L'ambasciatore francese alle Nazioni Unite Alain Dejammet ha parlato in maniera simile della “crisi umanitaria molto seria in Iraq”, un crimine che alla fine avrebbe indotto von Sponeck a dimettersi.

Un altro campanello d'allarme. Ricordo come von Sponeck mi disse le stesse parole a Baghdad. E la stessa cosa aveva fatto il suo predecessore, Tennis Halliday. Ma Peter Hain, ora così disperatamente ansioso di prendere le distanze dalla politica statunitense in Iraq, invitato a esprimere un proprio commento in proposito, rispose che von Sponeck e Halliday “ovviamente non erano gli uomini giusti per questo lavoro”. James Rubin, che allora era il portavoce di Madeleine Albright, disse che von Sponeck “è pagato per lavorare, non per parlare”.

Eppure vi sono tutti i campanelli d'allarme. Pensavamo davvero che dopo averli impoveriti ed avere ucciso così tanti loro figli, dopo che una generazione di Iracheni era stata “piegata fisicamente e moralmente”, loro avrebbero acclamato la nostra “liberazione”? Dalle macerie dell'Iraq era logico che nascessero le insurrezioni e gli odi che adesso stanno lacerando e dividendo il suo popolo e che stanno distruggendo la presidenza di George W. Bush e il governo di Tony Blair.

Tuttavia che cosa ci dicono? Vogliono ancora che abbiamo paura. Terrore, terrore, terrore. Adesso abbiamo il Dottor Morte, il nostro Ministro dell'Interno, che ci dice che la Guerra al Terrorismo potrebbe durare tanto quanto la Guerra Fredda. Di recente era stata la Dama della Paura a capo dei nostri servizi segreti a dire che la Guerra al terrorismo potrebbe durare “una generazione”. Allora si tratta di 30 anni? O di 60 come sostiene il Dottor Morte? Bush ha dichiarato che potrebbe durare “per sempre”, di sicuro un obiettivo ambizioso per il boia di un ex-leader.

Ovviamente, ciò che tutti questi uomini sanno, mentre blaterano riguardo ai nostri “valori”, è che l'unico modo per limitare il rischio di un attacco contro Londra o Washington è adottare una politica giusta e onesta nei confronti del Medio Oriente. Un fallimento nel perseguire questo fine – ed è evidente che né i Blair né i Bush hanno intenzione di perseguirlo – significa che subiremo altri attacchi terroristici. E le parole del Dottor Morte non volevano essere un campanello d'allarme per le nostre orecchie. Non miravano a prepararci al futuro. Miravano a consentirgli di dire “ve lo avevo detto” quando il prossimo attentatore con lo zaino sulle spalle ucciderà altri innocenti nella metropolitana di Londra. E allora ci verrà detto che abbiamo bisogno di una legislazione ancora più severa. E dovremo avere paura.

Sì, dobbiamo avere paura. Dobbiamo svegliarci ogni giorno con un senso di paura addosso. Dobbiamo indirizzare il nostro sistema politico nel suo complesso verso una macchina di paura. La società organizzata deve ruotare attorno alla nostra paura. Come i teorici del terrore del passato – i Claire Sterling e i Brian Crozier che ci raccontavano di migliaia di terroristi, “bande di professionisti che dispensano morte violenta”, tutti addestrati a Cuba, in Corea del Nord, Unione Sovietica o Europa Orientale – il Dottor Morte, Lord Blair di Kut al-Amara e l'ex Ministro degli esteri Jack Straw “l'occultatore” (ve lo ricordate?) – vogliono farci vivere nella paura. Vogliono che noi abbiamo paura.

Io penso che noi dovremmo avere paura – di quello che stiamo facendo al nostro pianeta. Ma non dobbiamo temere i nostri nemici nel mondo. Loro ritorneranno. La nostra occupazione occidentale di così tante terre mussulmane ci assicura questo destino. Ma se adesso noi poniamo fine all'ingiustizia che stiamo perpetrando in Medio Oriente, i 60 anni del dottor Morte potrebbero trascorrere prima che lui lasci la sua alta carica. Questo è uno spunto di riflessione.

Nel frattempo, osservate il mondo e il tempo e le turbolenze ad alta quota. E ricordate la neve a Maidstone.


da The Independent - Traduzione per Megachip di Eleonora Iacono