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Per una cultura della sostenibilità ecologica e sociale

di Mauro Bonaiuti - 19/11/2005

Fonte: filosofiatv.org

 

Testo Conferenza tenuta a Treviso per www.filosofiatv.org che ringraziamo per l'autorizzazione alla pubblicazione

Introduzione di Silvano Meneghel:
Benvenuti a questo incontro sulla sostenibilità ecologica e sociale. Il relatore della serata è il prof. M. Bonaiuti docente di economia all'Università di Modena e di Reggio Emilia. Dopo la lettura di una breve scheda di Bonaiuti e dopo alcuni annunci di carattere organizzativo, S. Meneghel continua: mi permetto di citare Bernard Shaw quando dice (a proposito del tema su cui parlerà il prof.): "Tutte le grandi verità all'inizio sono delle bestemmie". Cito questo perchè nel tuo ultimo libro: "Obiettivo decrescita" troviamo scritto in copertina: "Chi pensa che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito o è un folle oppure è un economista". Senti cosa dice invece proprio un economista: il premio Nobel per l'economia 2002 Daniel Kahneman, un israeliano che è passato pochi giorni fa a Milano per ricevere la laurea "honoris causa". Dopo aver citato il "paradosso della felicità" (che tu chiami il "paradosso del benessere", ma che secondo me è la stessa cosa), afferma: "L'aumento del reddito, della ricchezza materiale, equivale ad una diminuzione della felicità". La felicità allora può essere usata come indicatore economico? Lui risponde di si, quindi il maggior uso di risorse per un maggior consumo di beni materiali crea molto meno felicità, cioè crea infelicità. In che senso? Nella vita famigliare, affettiva, nelle relazioni, nei rapporti con la natura. Da tutte queste cose dipende in gran parte la nostra felicità. E' un concetto rivoluzionario in una società basata sui consumi. La ricchezza quindi non più come beni materiali, come P.I.L., ma dal punto di vista dell'autentico benessere e della soddisfazione delle persone. Si tratta di un indicatore nuovo che da migliori conoscenze su orientamenti e tendenze delle persone.
A questo punto nasce una domanda: "perchè se aumenta la ricchezza materiale e la felicità diminuisce, le persone investono sempre più risorse per aumentare i consumi, a scapito della vita famigliare e relazionale? La risposta del prof. Kahneman è: "perchè il consumismo crea dipendenza".
In definitiva, caro Mauro, il prof. Kahneman ti da ragione. Un economista che da ragione ad un altro economista, ma io ti chiedo: è un segno di un incipiente consenso alla "Decrescita sostenibile"? La parola al prof. Bonaiuti.

Prof. M. Bonaiuti:
Ringrazio tutti voi per questo invito, in questo luogo così elegante e tecnologico e vorrei partire dalla tua considerazione. Ho l'impressione che siamo sempre più immersi in un mondo che è più grande di noi, Un meccanismo più grande di noi il cui funzionamento sfugge a tutti e ad ognuno.In ciascuno di noi, nonostante l'aumento degli indici economici (ora un pò meno) e cioè l'aumento dei consumi della produzione, del P.I.L., la felicità, cioè il benessere inteso in senso più ampio sta diminuendo. E di questo noi abbiamo un'evidenza che non è solamente soggettiva (ciascuno di noi ha i propri indicatori), ma anche oggettiva. Abbiamo, per esempio, un indice chiamato "genuine progress indicator" che mette in luce come ad una costante crescita del P.I.L. negli anni (riferito agli U.S.A.), corrisponde a partire dagli anni '70, una diminuzione del "genuine progress indicator", cioè del P.I.L. scorporato dalle componenti "negative" come incidenti stradali, spese per le riparazioni dei danni ambientali, per le malattie, ecc. Questo vale per gli U.S.A. non per i paesi del Sud del mondo. Allora è chiaro che se vogliamo tentare un'interpretazione di questo fenomeno che non sia sporadica e occasionale, ma che vada ad interpretare le categorie di fondo che sono alla base della nostra cultura, dobbiamo cercare di andare alle radici della cultura occidentale e di coglierne l'essenza. Probabilmente questo è uno sforzo titanico ma cercherò di tracciare alcune linee.
Io credo che la storia dell'occidente, se vogliamo ridurla a questa sua essenza, sia la storia di una grande espansione, o anche la storia di un grande sviluppo, di una storia che è stata prima militare (già nel Medio Evo, per es., con le Crociate), e poi anche una storia di uno sviluppo geografico (Colonialismo), ma che poi è diventata soprattutto un'espansione economica. Ovviamente il processo è stato lungo e a fasi alterne ma sicuramente negli ultimi 50 anni (ed in particolare quei 30 anni che vanno dalla fine della seconda Guerra Mondiale in poi), ha raggiunto la sua massima espansione con l'industrializzazione, con il fordismo, con le grandi fabbriche con tutte le sue conseguenze.
Un'espansione che poi non è solo economica ma è anche culturale, pensate all'avventura della scienza, della tecnologia ,ecc. Sarebbe interessante aprire una riflessione su dove ha origine questa trasformazione culturale che caratterizza l'espansione e lo sviluppo dell'occidente. In un bellissimo libro recente che si chiama: "Storia dell'arroganza", uno psicanalista, Luigi Zoia, fornisce un'interpretazione molto interessante perchè, da psicanalista, percorre la storia della cultura occidentale partendo proprio dal mito, dalla Grecia,e dimostra come proprio lì, proprio nella cultura greca a cavallo del quinto secolo avviene questa trasformazione e quella che era l'idea del limite, che era profondamente radicata in tutte le società arcaiche, piano piano si trasforma nel suo contrario. Secondo Zoia, in quella cultura nasce l'arroganza, nasce lì nell'occidente che non ha più il contrappeso in una nemesi ,in una giustizia divina, come era nelle epoche precedenti. E' interessante osservare come non solo in tutte le società pre-moderne questa dimensione psicologica del limite fosse profondamente inscritta nella cultura, ma anche il fatto di un uso non strumentale di determinate scoperte come quella , per es. della polvere da sparo da parte della Cina, dove veniva usata per fuochi d'artificio e non per scopi bellici. Nelle società pre-moderne era impensabile quindi una cultura della crescita esponenziale come è invece quella della Modernità .Questo mostra come queste culture fossero profondamente anti-utilitariste e avessero una rappresentazione e un fondamento in una cosmologia e una mitologia che non prevedevano quei valori, diventati essenziali per l'occidente, della crescita continua e del rapporto stretto con i fini, quindi di tipo strumentale.
Per venire allora più vicini a noi, la crescita che è la spina dorsale dell'occidente, quelle che chiamiamo "politiche di sviluppo", diventano, a partire dagli anni 50, le politiche internazionali dell'occidente stesso.
Quindi non solo all'interno delle culture che sono uscite vittoriose dalla seconda Guerra Mondiale (i paesi e le economie occidentali),  lo sviluppo viene presentato come la politica con cui l'occidente si presenta al resto del mondo. A partire dal famoso discorso del presidente Truman allo stato dell'unione nel '49 in cui lo sviluppo diventa la parola fondante della politica internazionale dell'occidente nei confronti dei paesi del Sud. Un programma che riprendeva tutta la cultura universale dell'illuminismo. Venne portata al Sud quindi questa proposta di emancipazione e liberazione dalla povertà e quindi il cammino verso la ricchezza materiale che era stata propria dei paesi più ricchi.
E' assodato però che, a partire dalla fine degli anni 80, è diventato sempre più chiaro che lo sviluppo e l'universalità della sua ricetta non era estensibile a tutti i paesi, in particolare ai paesi più poveri. Basta ricordare qualche dato. L'Africa, per es., nel suo complesso ha un P.I.L. inferiore complessivamente del 2% rispetto al P.I.L. globale. In altre parole l'Africa, cosi come buona parte dell'Asia e delle zone interne dell'India e della Cina, restano al palo o addirittura regrediscono. Non solo ma, a partire dagli anni 80 (e per certi versi anche prima), è sempre più evidente che il mondo va verso una crescente polarizzazione della ricchezza. Le politiche di sviluppo, di crescita, che l'occidente porta nel resto del mondo producono una sorta di forbice dei redditi e cioè i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Su questo possiamo ricordare alcuni dati dell'ONU: il reddito/annuo delle 225 persone più ricche del pianeta supera i redditi del 45% della popolazione mondiale con i suoi 2.500.000.000 persone. Non solo, ma il divario tra il quinto della popolazione più ricca e il quinto di quella più povera è passato dal 30 a 1 del 1960 al 75 a 1 del 1997. E' evidente, come dice Serge Latouche, che il Sud del mondo sta diventando una sorta di pianeta dei naufraghi. I naufraghi, gli emarginati hanno mille volti, diversi tra loro, ma per tutti il processo è lo stesso e cioè quello di una progressiva esclusione. Ovviamente si tratta di realtà molto diverse. L'esclusione comprende dei veri e propri stati-nazione come il Bangladesch, sia delle categorie, per es. le donne e i bambini delle campagne del Sud del mondo abbandonate spesso dagli uomini che cercano la fortuna nelle grandi metropoli e nelle città. Nel complesso se sommiamo i contadini e gli abitanti della campagna di questi paesi (non vengono più chiamati  Paesi in via di sviluppo m a Paesi meno avanzati) arriviamo a 3.000.000.000 di persone. Naturalmente a questi dobbiamo aggiungere le minoranze etniche, cioè coloro che sono oggetti di guerre e di migrazioni e anche i cosiddetti nuovi poveri delle società ricche che assommano a circa 40.000.000 di persone negli U.S.A. e circa altrettanti nel vecchio continente.
Allora è chiaro che in un contesto di questo genere diventava difficile e ormai impossibile anche per gli ideologi e coloro che dello sviluppo avevano fatto la loro bandiera (le grandi tecnocrazie internazionali, il W.T.O, la Banca Mondiale , ecc,) utilizzare la parola "sviluppo" nello stesso modo in cui la utilizzò Truman agli inizi degli anni '50. Ecco quindi che la parola "sviluppo"comincia (siamo alla fine degli anni '80) ad apparire non più sola ma aggettivata. Si parla di sviluppo umano, di sviluppo durevole e soprattutto di sviluppo sostenibile, e questo è il punto essenziale, senza che ne vengano messe in discussione quelle che erano le caratteristiche fondanti della parola sviluppo e cioè la fede illimitata nel progresso, la crescita economica come l'obiettivo essenziale attraverso cui perseguire il miglioramento delle condizioni di vita per tutti i paesi e, lo dico da economista perchè questo si insegna in tutte le università del mondo intero,senza che venisse posta in discussione soprattutto la cosiddetta massimizzazione per le imprese e per i consumatori  come valore fondante delle economie di mercato. Dimenticavo l'efficienza, un altro valore da aggiungere ai primi, che si esprime attraverso il progresso tecnologico. Ora è chiaro che il dibattito sarebbe molto complesso, già alla fine degli anni '80 escono almeno 70 definizioni di "sviluppo sostenibile", tuttavia io credo che tutte queste siano accomunate dalla stessa visione Credo che lo sviluppo cosi come è stato inteso negli ultimi 200 anni, cioè lo sviluppo storicamente realizzato non è sostenibile né da un punto di vista sociale nè da un punto di vista ecologico. Vale la pena di dire  perché lo sviluppo non è sostenibile neanche dal punto di vista ecologico, Facciamo una riflessione non solamente tecnica, per questo basta riportare i dati, ma di altra natura  C'è una differenza tra l’ambientalismo degli anni '70 e quello di oggi. Oggi abbiamo un'evidenza empirica indiscutibile, profeticamente intuita da uomini come Georgescu-Roegen, Peccei, Ivan Illich, e altri, che prima non era disponibile. Però, al di là dei numeri, che poi possiamo richiamare, quello che credo importante è capire le ragioni culturali che sono alla base del nostro modello di sviluppo. Il cuore del problema è in buona parte dentro di noi, contrariamente a quanto continuiamo a pensare.
Vorrei partire da alcune osservazioni relative al fondamento biologico e fisico del processo economico, rifacendomi in particolare a studi di economia portati avanti da Georgescu-Roegen. Georgescu mise in evidenza in modo molto chiaro come il processo economico è un processo di natura dissipativa cioè entropica. Noi non possiamo immaginare di produrre quantità crescenti di beni e servizi senza degradare quantità crescenti di materia e di energia .Questo è una conseguenza diretta del  secondo principio della termodinamica. La produzione di qualsivoglia oggetto comporta necessariamente l'utilizzo di energia, che peraltro è principalmente presa da fonti non rinnovabili, e di materia .Quindi, contrariamente a quanto affermano gli economisti neoclassici, non è possibile, nonostante il progresso tecnologico, produrre più cose utilizzando meno energia e meno materia. Nei sistemi biologici, ciascun organismo, ciascun sistema vivente è soggetto a dei limiti e cioè l'albero non cresce fino al cielo, l'erba quando raggiunge una certa altezza da origine ad un seme e poi muore, ecc. Gli organismi viventi hanno al loro interno dei processi che garantiscono che certi limiti, per quanto flessibili e difficili da determinare, non siano superati. In natura, direi, è cosi in ogni processo. C'è un bell'esempio nella storia dell'elefante e del topo ragno. L'elefante è un animale molto grande e come tale ha a che fare con i problemi della grandezza, per es. si deve rinfrescare continuamente, spruzzare l'acqua per abbassare la temperatura del corpo se è troppo elevata. Tuttavia non starebbe meglio se fosse molto più piccolo. Allo stesso tempo invece il topo ragno, un animaletto minuscolo, ha a che fare con i problemi della piccolezza, per es. può essere preda facilmente di un animale più grande, però non starebbe meglio se fosse molto più grande. Non cosi invece ragiona l'economia, per la quale il più grande è sempre meglio. Le imprese più grandi, le economie di scala, funzionano sempre e prendono il posto delle imprese più piccole e la crescita è comunque un valore.
C'è addirittura un'ipotesi nei corsi di macroeconomia per evitare che ci siano eccezioni a questa regola, cioè la cosiddetta ipotesi di non sazietà, il consumatore non è mai sazio, il più è sempre meglio. Quindi c'è proprio uno scontro di metodo tra il modo con cui funzionano i sistemi viventi e il modo con cui funziona il sistema economico. Un'altra differenza fondamentale sta nel fatto che noi crediamo che l'unico modo con cui i soggetti economici possono interagire è la competizione. La competizione produce efficienza e quindi contempliamo solamente la competizione come modo di funzionamento tra i soggetti. Però già la natura ci insegna che non è cosi. Negli ecosistemi coesistono sistemi di tipo competitivo e di tipo cooperativo e non è affatto vero che i comportamenti di tipo competitivo sono sempre vincenti. In contesti non espansivi , cioè quando l'ecosistema non cresce in dimensione, non ci sono nuovi territori da colonizzare, nuove aree da scoprire, ecc., sono i comportamenti cooperativi ad essere vincenti ed essere premiati per la specie e questo ci fa riflettere anche da un punto di vista storico e antropologico. E' stato dimostrato infatti che culture espansive, culture competitive e individualiste come quella U.S.A. sono premianti in un contesto di espansione, che cresce. Non a caso la cultura U.S.A. si è formata nell'avventura della frontiera che era per eccellenza il contesto di una grande espansione ed è una cultura fortemente individualista e competitiva.
Pensiamo come contro esempio alla cultura classica cinese. La Cina era un grande impero, tuttavia la Grande Muraglia può essere la rappresentazione del limite, Era un grande impero ma aveva dei confini ben delimitati. Non a caso la cultura classica cinese è una cultura per nulla individualista, per nulla competitiva. Lasciamo perdere quello che è successo in Cina negli ultimi anni. Ma se pensiamo alla sua cultura classica non c'è dubbio che la situazione è quella descritta.
Quindi anche la biologia, oltre alla storia e all'antropologia, ci insegna che non c'è un comportamento buono per tutte le stagioni. Comportamenti competitivi possono pagare in situazioni di forte espansioni, ma non pagano in situazioni come quelli verso cui ci andiamo approssimando perchè ormai gli ecosistemi sono interamente colonizzati. Ebbene in questo nuovo contesto sono i comportamenti cooperativi a risultare vincenti e non i comportamenti competitivi. Le risposte degli ottimisti, degli economisti neoclassici, a queste critiche che gia da tempo sono nell'aria sono naturalmente diverse ma il nucleo fondamentale ruota attorno al concetto di "progresso tecnologico". Rispondono che cosi come il legno è stato sostituito dalla plastica, il cavallo dall'automobile e cosi via, il progresso tecnico consentirà di spostare in avanti i limiti della nostra finitezza e di consentire in futuro ciò che in passato non era pensabile. Secondo gli economisti neoclassici il progresso tecnico produce una sorta di dematerializzazione della produzione di cui la new-economy ha rappresentato una delle più recenti affermazioni. Si è passati dal capitalismo fordista con le sue fabbriche fumose e le sue catene di montaggio, alla società "on line" con produzioni leggere, computer, finanza. Un passaggio da un'economia pesante ad un'economia leggera basata su produzione immateriale di ricchezza e attraverso un uso sempre minore di materia, di energia, di risorse. Questo è il quadro che ci viene proposto ogni sera dai media. Tutti continuano a parlare di progresso tecnico, di crescita e cosi sia. Anzi il presidente Bush è diventato noto nei nostri ambienti per aver affermato recentemente che "è la crescita la chiave del progresso ecologico perchè essa mette a disposizione le tecnologie più adeguate". Essa è la soluzione non il problema. Questa non è solo la posizione di Bush e dei leaders delle economie occidentali ma è la posizione che arriva fino alle sinistre dei paesi europei, passando per le tecnocrazie globali, dalla Banca Mondiale al Fondo Mondiale Internazionale, alle varie commissioni sullo sviluppo sostenibile in sede di comunità europea fino a giungere ad alcune parti del cosiddetto movimento no-global e delle associazioni ambientaliste, le quali in buona parte danno risposte di tipo tecnologico, come le risorse rinnovabili e l'ecoefficienza, per risolvere la crisi ecologica.
Su questo occorre essere molto chiari e affermare che il progresso tecnico da solo non è sufficiente a risolvere la crisi ecologica. Se noi infatti consideriamo i dati relativi all'economia U.S.A. vediamo che negli ultimi 20 anni la quantità di energia per produrre un'unità di P.I.L. si è ridotta del 32%, cioè per produrre un'unità di ricchezza è oggi necessario il 32% in meno di energia di 20 anni fa, quindi è molto aumentata l'efficienza attraverso il progresso tecnico. Se andiamo a guardare invece i consumi assoluti, totali di energia, sempre negli ultimi 20 anni, vediamo che questi sono aumentati del 23%. Questo è allora il punto essenziale:
com'è possibile che nonostante l'aumento di efficienza (questo vale non solo per il petrolio ma per tutte le risorse di tipo energetico e materiale), i consumi assoluti continuano ad aumentare? La risposta è di tipo culturale. Ciò che non si capisce, o meglio ciò che i grandi, i potenti non vogliono capire è che il sistema tecnologico e quello economico sono sistematicamente connessi con i valori, per cui le trasformazioni della tecnologia producono delle trasformazioni nella nostra cultura e nelle nostre abitudini che si ripercuotono sull'economia stessa. Facciamo un esempio considerando l'automobile. E' chiaro che l'automobile di oggi consuma il 20-30% in meno di quelle di 20 o 30 anni fa, tuttavia il consumo di materia e di energia negli ultimi 20 anni non si è ridotto ma è aumentato. Perchè? Perchè noi oggi usiamo l'automobile molto di più di 20 anni fa proprio perchè costa relativamente di meno. Perchè si sono trasformate le nostre abitudini e la nostra cultura. Un altro esempio paradigmatico è quello del consumo della carta, legato alla new-economy. Ora, si dice, abbiamo l’E-mail, abbiamo il computer, non c'è più bisogno della carta, legata alla macchina da scrivere. In realtà, il consumo di carta da quando esiste il computer si è quadruplicato. Per quale motivo? Perchè oggi facciamo col computer cose che prima non facevamo. Non solo, ma tutte queste megamacchine hanno bisogno per funzionare di quantità di materia e di energia crescenti. Quando noi abbiamo un oggetto tecnologico come questo monitor che ho qui davanti, che certamente consuma meno di un televisore di 20 anni fa, siamo convinti di aver fatto un passo avanti nella direzione di una società più sostenibile. Invece non è vero, perchè dovremmo domandarci quali strutture produttive e quali istituzioni sono necessarie per produrlo. Quindi una nuova tecnologia ha bisogno non solo dell'energia che direttamente consuma, ma occorrono centri di ricerca, imprese multinazionali che impiegano migliaia di dipendenti, sistemi di trasporto, imprese produttive. Pensiamo all'automobile. Non è solo l'energia che noi mettiamo nel serbatoio, ma è ciò che è necessario per far funzionare il sistema dei trasporti, le strade e così via. E' il sistema che va analizzato e non il singolo oggetto.
Se usciamo quindi da un'analisi settoriale e passiamo al livello di questo pensiero sistemico, ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di non proseguire più sulla strada dello sviluppo ma di una chiara inversione di tendenza. Ed è a questo che lo slogan della "decrescita" allude. Ma che cosa intendiamo e cosa non intendiamo con la parola "decrescita". Innanzitutto bisogna sgombrare il campo da alcuni facili e possibili fraintendimenti. Non si tratta di un restringimento dei consumi e della produzione mantenendo intatti i valori e il modo di funzionamento, cioè la struttura sociale, economica e produttiva della nostra società, perchè questo sarebbe folle (Latouche dice che non ci sarebbe nulla di peggio di una società della crescita senza crescita), ma è evidente che se noi semplicemente riduciamo la domanda, riduciamo i consumi, mantenendo inalterato il nostro sistema produttivo, quello che otterremo è disoccupazione e aumento di disagio sociale.
E' quindi chiaro che la "decrescita "allude ad un'inversione di tendenza. Se noi siamo a Bologna e vogliamo prendere il treno per Reggio Emilia e lo prendiamo in direzione di Reggio Calabria, non basta rallentare o dare una mano di verde al locomotore, occorre scendere e prendere il treno in direzione opposta. Non bastano quindi i compromessi dello sviluppo sostenibile, una cultura che mantiene inalterate le strutture economico-produttive, occorre ripensare l'intera società dello sviluppo e della crescita.
La "decrescita" poi non è una ricetta. Quello che noi proponiamo non è un modello così come ci sono i modelli macro e microeconomici, ma è una sorta di matrice, cioè una trasformazione del pensiero, dell'immaginario, in cui poi ciascuna cultura, ciascuna realtà locale dovrà sapere calare le proprie progettualità, i propri valori ed i propri strumenti di cambiamento. Non si può pensare ad un modello unico che possa andare dal Triveneto al resto d'Italia.
Un'altra cosa importante è che la "decrescita" non è una ricetta di riduzione per i paesi del Sud del mondo. E' chiaro che le ricette per il Sud devono essere profondamente diverse da quelle per il Nord.
Per concludere, un paio di punti che credo siano abbastanza condivisi all'interno del cosiddetto movimento per la decrescita.. Una premessa è quella di un nuovo immaginario. Non c'è dubbio che una società della decrescita debba mettere in discussione i valori e la cultura che ha caratterizzato l'occidente e lo sviluppo. Occorre decolonizzare il nostro immaginario e quindi uscire dalla logica della crescita illimitata, dal puro utilitarismo strumentale e quant'altro e che richiama tutta una serie di valori e di studi.
La "decrescita" fa riferimento ad una riduzione della scala degli apparati produttivi. La scala è una questione interessante e nuova, perchè l'economia moderna prescinde dalla scala. Più grande è sempre meglio. Non c'è un discorso di morfologia. Questo è importante, perchè noi abbiamo un'anatomia e anche un'anatomia patologica. Se abbiamo un fegato grosso così non è una cosa buona, eppure continuiamo a pensare che nell'economia il più grande sia sempre meglio. Occorre rimettere in discussione questo punto e pensare ad una morfologia della produzione che sia adeguata al territorio. Nel nostro paese, per es., c'è una tradizione in questo senso come le reti di produzione formate da soggetti piccoli, piccolissimi o medi che sono sicuramente più adatti al territorio rispetto a quella della grande produzione che opera sui mercati globali, cioè le imprese transnazionali. Ridurre quindi le dimensioni va a fianco con la rilocalizzazione delle attività produttive. Il nostro pensiero dovrebbe muovere da una dimensione di mercato globale ad una di mercati regionali e locali. Questo sposterebbe il baricentro economico e porterebbe con sé una trasformazione della morfologia non solo delle imprese, ma del modo di produrre ricchezza, mettendo in discussione la questione del lavoro. Ivan Illich parlava già negli anni '70 di convivialità e anche S. Latouche ha parlato di "decrescita conviviale", ma l'aggettivo "conviviale" non allude solamente al piacere delle relazioni, al piacere dello stare insieme , ma soprattutto al piacere dell'autonomia. Per Illich, conviviale era quella tecnologia, quel modo di produrre ricchezza che fosse tenuta sotto controllo da chi quella tecnologia utilizza e gestisce. Quindi, riappropriarsi del proprio corpo, della propria dimensione relazionale, della salute e della città.
Il discorso può essere declinato a tanti livelli ma il nocciolo è quello di pensare a forme di produzione che ridiano autonomia ai soggetti, anziché alienazione e stress come accade oggi. Questo naturalmente apre a tutto quel settore che oggi va sotto il nome di "economie solidali". Io credo che la produzione in rete attraverso piccole unità sia più efficiente e molto meno energivora di quella su vasta scala che deve mettere in conto anche i costi ecologici e sociali. A questo va aggiunto il fatto che le economie solidali pongono al centro il legame sociale, sono forme di produzione della ricchezza in cui l'economia avanza mantenendo il legame sociale, al contrario di ciò che accade nell'economia di mercato, nel mercato globale, dove invece il mercato avanza nella desertificazione del sociale.
Quello che è interessante notare è che tra queste diverse dimensioni e cioè quella ecologica, biologica (il fondamento quindi biofisico del processo di formazione della ricchezza),quella sociale (ho fatto riferimento alle reti di economia solidale), quella più propriamente culturale (la trasformazione dell'immaginario),e quella economica, esistono delle forti e possibili sinergie. Non solo, ma la sostenibilità ecologica, la sostenibilità sociale attraverso le reti di economia solidale e la dimensione non espansiva sono tutte forme di produzione della ricchezza essenzialmente pacifiche. Tra tutti questi elementi esistono dei circoli virtuosi che potrebbero innescare il volano della progressiva espansione e autoalimentazione di queste realtà. Naturalmente questo è solo un auspicio e vorrei concludere osservando che la decrescita è oggi già in atto, per lo meno nel nostro contesto italiano e anche in questo Veneto, sia pur nelle sue peculiarità. L'economia italiana sta praticamente decrescendo. Naturalmente è una decrescita non voluta e non capita. Noi non siamo i più competitivi nella competizione globale ma non siamo neanche tra gli ultimi, siamo sempre nell'alveo dei paesi più ricchi, però stiamo perdendo posizioni, stiamo delocalizzando la produzione, stiamo smembrando molti settori della produzione industriale tradizionale e questo lo riconoscono tutti, anche gli economisti neo-classici. Stiamo subendo una decrescita di fatto senza goderne alcun beneficio perchè se non si mette in atto quella trasformazione economica, sociale e soprattutto dell'immaginario collettivo, culturale a cui accennavo, la decrescita ci costa solamente in termini di maggior disoccupazione, maggior disagio sociale, maggior stress, maggior alienazione nel lavoro ecc., senza consentirci di godere dei suoi benefici che potrebbero generarsi, operando una sorta di salto mortale intellettuale e culturale, per cui quelli che sono svantaggi potrebbero diventare punti di forza, liberando maggiori quantità di tempo libero, liberando maggior  qualità della vita, liberando ciascuno di noi da questa sorta di megamacchina di cui parlavamo prima.

Silvano Meneghel :
Grazie prof. Bonaiuti di questi stimoli, di queste interessanti riflessioni che tra l'altro saranno oggetto anche di alcuni seminari che faremo nell'ambito del programma "TV: provincia di pace".
Aprendo la discussione vorrei fare questa domanda: "tu hai parlato dei limiti delle risorse, delle conseguenze dello sviluppo, ma non hai accennato, forse per limiti di tempo, ad un effetto che conosciamo ma che mi permetto di ricordare, , allo stile di vita cosiddetto americano, l'"American life style" : ogni  cittadino degli U.S.A. consuma ogni giorno in media 570 litri di acqua, un chilo e mezzo di cibo e poco più di sette chili di combustibili fossili; produce inoltre 470 litri di acque reflue, un chilo e mezzo di detriti e libera 600 grammi di agenti inquinanti nell'atmosfera. Gli abitanti di New York producono ogni anno una quantità di spazzatura sufficiente a ricoprire tutto il Central Park con uno strato dello spessore di 4 metri.
Le fabbriche statunitensi liberano ogni anno nell'atmosfera un milione di sostanze chimiche tossiche. L'80% delle foreste di legno duro nei territori orientali degli U.S.A. è stato abbattuto e l'80% del petrolio scoperto negli Stati Uniti è già stato consumato, ciononostante il presidente Bush ha già dato il via alla trivellazione del sottosuolo dell'Alaska, dove è stato scoperto un consistente giacimento di petrolio. Nemmeno l'Antartide è stato risparmiato: il fondale marino, nei pressi della baia di Winterquarters, e stato trasformato in un cimitero di milioni di tonnellate di rifiuti metallici, di lattine di birra e di veicoli inutilizzati; la baia è ormai biologicamente morta, avvelenata dai prodotti chimici e dagli scarichi fognari dell'immensa base americana di Winterquarters. ( dal Gazzettino del 7/9/02).
Questo è lo stile di vita che gli U.S.A. diffondono ed esportano nel mondo in un kit comprendente: mercato (per i buoni), bombe (per i cattivi), e democrazia (in offerta speciale). E l'Italia? Apriamo la discussione.

1°domanda:
sono una decina d'anni che leggo queste cose e, vedi caso, vengono dagli U.S.A., dai liberal radicali come Chromsky. Di queste cose in Italia non si parlava; non si parlava di questa forbice che si allarga, di questa economia impazzita, e il modello U.S.A. è sempre stato assunto come il miglior modello. Tuttora lo è per la maggior parte di noi, anche se non è vero che è il migliore. Allora io chiedo perchè questo modello occidentale (nella fattispecie U.S.A.) ha preso così piede altrove e cosa facciamo noi perchè questo modello che abbiamo esportato non venga assunto dagli altri popoli come l'unico modo per vivere un po’ meglio , non tanto per crescere o per diventare ricchi. Ecco, io me lo chiedo di continuo. La Cina sta diventando quello che sta diventando assumendo tutte le nostre pecche. In Egitto si vede che cercano di copiare il nostro sistema perchè pensano che come viviamo noi sia il massimo. Questa è una mia domanda alla quale non so dare una risposta.

2°domanda:
parlo per i ragazzi della mia generazione. Mi trovo a contemplare una situazione in cui i grandi processi storici come il '68, le grandi rivoluzioni sociali ed economiche sono già state tutte praticamente fatte ed altre forse sono ora in atto ma noi non ce ne rendiamo conto. Ci troviamo in uno stato in cui non abbiamo nessun ideale, nessuna cosa in cui credere, nessun punto di riferimento e quindi l'unica cosa che ci rimane è il consumismo che diventa una specie di rifugio, nel senso che è l'unica cosa che ora possiamo sfruttare. Non c'è più un'ideologia generale, niente che unisca i giovani, non c'è niente che li occupi, non c'è un progetto. Per questo mi chiedevo se è realmente possibile, dal punto di vista culturale, un'inversione di marcia quale quella che è stata proposta?

S. Meneghel:
E' una bella domanda da parte di una giovane. Mi viene in mente quanto diceva il buon, caro vecchio Aurelio Peccei, del Club di Roma, ancora negli anni '60: l'unico realismo possibile oggi è l'utopia.

3°domanda:
Il problema è talmente complesso che io ringrazio il prof. di aver tentato di riassumerlo. Ci sono così tanti aspetti di questo problema che meriterebbero molto più tempo, anzi libri interi per riuscire a dominarli completamente. Però, rispondendo anche alla ragazza che ha parlato adesso , io credo che di fronte a tale complessità nessuno di noi pensa di avere una verità globale sperimentalmente provata. Anche perchè le condizioni dei vari paesi sono molto diverse tra di loro ed inoltre l'aumento esponenziale della popolazione sta cambiando le condizioni di base, per cui tutti i dati sono continuamente rivedibili. Allora la maggior parte delle persone cerca di usare il buon senso, come fanno anche i giovani. Cioè dicono: "In questo momento cosa possiamo fare se non di star meglio possibile noi e le nostre famiglie cercando di arrivare ad un titolo di studio che ci permetta di guadagnare bene?" E' un ragionamento elementare, Ora, io direi che in questo caso ci servono le grandi filosofie,Già Aristotile aveva detto che in generale nella vita l'ideale è sempre il giusto mezzo, cioè limitare gli eccessi. Questo è stato poi ripetuto da Gesù, per cui Aristotile è stato considerato un precursore del Cristianesimo ( E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, ecc., ecc.).
Ora lo sviluppo tecnico deve essere visto con il buon senso, con la teoria del giusto mezzo. Cioè tutto quello che viene estremizzato diventa un male. Però non è un male soltanto in eccesso, come quello che adesso si cerca di sottolineare con la teoria della "decrescita", C'è anche il male opposto e cioè troppo poca tecnologia. Infatti nel Sud del mondo, dove hanno il problema di crescere, la tecnologia è un mezzo per combattere la povertà e la fame. Di fame nel mondo ce n'è tanta. Se i nostri immigrati, a casa loro, potessero combattere la fame e aver abbastanza da mangiare, non verrebbero in Italia a cercare lavoro.
Quindi la causa prima è la fame nel mondo e la causa della fame è anche la crescita demografica spropositata che gli svedesi hanno cercato di combattere mandando i missionari in Africa e altrove a convincere le donne a fare meno figli. Evidentemente però ci vuol ben altro, perchè si sa che i poveri, come facevamo noi italiani una volta, cercano di avere tanti figli perchè poi lavorano fin da bambini e portano ricchezza in casa. Quindi c'è tutto un lavoro da fare sulle popolazioni povere, ma c'è anche un lavoro culturale da fare qui da noi per evitare tutti gli eccessi della tecnologia. Quindi queste indicazioni sui mali provocati dall'eccesso di tecnologia sono estremamente attuali e valide. D'altra parte se la popolazione aumenta, per dar da mangiare a tutti dobbiamo aumentare le produzioni e aumentando le produzioni aumentano i rifiuti. Ogni trevigiano produce un chilo di rifiuti al giorno. Cosa facciamo? Dobbiamo mangiare di meno? Non si tratta tanto di questo, ma si può fare meno rifiuti. Con la raccolta differenziata cerchiamo di risolvere anche questo problema, I problemi sono tanti e ognuno dovrebbe scegliere un proprio settore, specializzarsi in tale settore e usare tanto buon senso. Grazie.

4°domanda:
Un'osservazione sulla mancanza di cibo nel mondo in rapporto alla crescita demografica. Non è una questione di mancanza di cibo, perchè tutto il cibo che si produce nel mondo basterebbe ampiamente ad alimentare tutte le persone. E' una questione di distribuzione e mi pare che prima di pensare alla crisi demografica degli altri, occorre pensare a quello che mangiamo noi, nelle nostre società, a quello che consumiamo e ai rifiuti che produciamo, come diceva prima il professore.

Risposte del prof. Bonaiuti:
Vorrei partire dall'ultimo punto perchè mi da' l'occasione di mettere in luce una cosa rimasta in ombra nel corso dell'esposizione sul discorso della povertà e della crescita demografica.
E' chiaro che la povertà è sempre esistita, quello che è cambiato clamorosamente è la prospettiva che attende questi nuovi poveri. Non è una prospettiva di illusione, di risoluzione del problema, ma è al contrario, una prospettiva che non fa che aggravare la situazione. Dobbiamo cercare di comprendere qual'è il meccanismo economico e sociale che è alla base di questo processo di esclusione e tale meccanismo è connesso intimamente col nostro sistema economico, in particolare con la legge della produttività. Il punto è che una minoranza a livello globale è in grado di produrre tutto ciò di cui abbiamo bisogno, grazie al progresso tecnico e all'incremento di produttività. Questo significa che tutti coloro che non sono in grado di essere competitivi non hanno più nulla di interessante da offrirci e, come dice Latouche, sono buoni per la rottamazione. Chi potrebbe immaginare oggi che il Bangladesh entra nella corsa tecnologica e si mette a produrre telefonini, prodotti di medio livello tecnologico o servizi turistici con capitali e risorse loro? E' inimmaginabile, quel poco che fanno, per lo meno quella parte che entra nel mercato, lo fanno con risorse e capitali che vengono dall'occidente. Ma poi è chiaro che se in quei paesi è tutta un'economia informale, le persone riescono a sopravvivere anche al di fuori delle maglie del mercato. Questo è il punto. Nella nostra analisi lo sviluppo essenzialmente (e il progresso) è la causa della povertà. Questo discorso si allaccia anche a quello delle politiche demografiche. Non c'è dubbio che abbiamo bisogno di una diminuzione della popolazione. Si è invocato il giusto mezzo e sono d'accordo. Tutte le culture che avevano il senso del limite e delle proporzioni sono più vicine al nostro ideale di quanto non lo sia la cultura occidentale. Tuttavia quando si parla di politiche demografiche si continua a riprodurre quel modello fondato sul controllo che è tipico della nostra cultura e di tutte le prassi di sviluppo sostenibile. La società occidentale è malata di controllo e ciò significa che ha la presunzione di ritenere che qualsiasi comportamento sia seguito, ad es. l'inquinamento, purchè sia controllato e mantenuto al di sotto di una certa soglia , è tollerabile. Gregory Bateson scrisse un bellissimo saggio già negli anni '70 che c'entrava proprio questo punto, occupandosi degli alcolisti. Disse che il problema essenziale in una situazione di dipendenza, com'è quella dell' alcolista non è quella di controllare ma è il riconoscere la propria dipendenza, il riconoscere di essere parte di un problema che è più grande di te, che la pretesa del controllo è assurda e non fa altro che ributtarti nella medesima situazione. L'essenziale è rendersi conto che sei dipendente e a quel punto solo , forse, potrai guarire. La stessa questione è al centro della nostra cultura per quel che riguarda i problemi ecologici. Si pensa di limitare i danni, entro certi parametri. Finanziamo sistemi raffinati, programmi di controllo e di ricerca costosi, aerei che sondano l'atmosfera facendo rilevazioni che poi nessuno legge, nessuno considera. E poi, sappiamo bene che gli U.S.A. non hanno sottoscritto il protocollo di Kyoto, perciò tutto ciò si inserisce in questa mentalità. Controlliamo perchè abbiamo la pretesa di poter dominare il nostro sistema di sviluppo. Perciò occorre mettere in discussione il nostro immaginario, la nostra cultura e partire dal fatto che il nostro modo di organizzare la produzione della ricchezza è, in sè stesso ,insostenibile. Lo stesso discorso vale per il problema della sovrappopolazione. Occorre cambiare il modo in cui queste società producono i loro mezzi di sopravvivenza.  Come ormai è stato dimostrato dagli antropologi tutte le società africane e primitive erano società della povertà (perchè si viveva con molto poco e i bisogni erano molto limitati), ma non erano società della miseria. E' lo sviluppo che ha prodotto questo stato di "derelizione" in cui si trovano intere popolazioni, intere zone. Pensate alle periferie urbane delle grandi metropoli con 10/15 milioni di abitanti. E' lo sviluppo che ha prodotto questa realtà e se non lo riconosciamo non ne veniamo fuori.
E' stata richiamata poi la questione del modello americano, che è sicuramente insostenibile dal punto di vista ecologico e altro non è che l'occidentalizzazione del mondo. Siamo di fronte ad una cultura che ha pretese universali e che di fatto ha colonizzato il pianeta. Gli alberghi di tutto il mondo sono arredati allo stesso modo perchè la gente non patisca lo spaesamento. Tuttavia, anche nei dibattiti, ritorna la questione che "l'impero siamo noi, è inutile che ce la raccontiamo". Quello che produce questa situazione sono le nostre preferenze, è il nostro stile di vita.
La questione dell’”impero siamo noi” però, è una mezza verità. Dipende da che parte la si considera. Se la consideriamo come un modo per dire che non si può cambiare  modello di produzione, cambiare il mondo, senza mettere in discussione la nostra cultura, le nostre preferenze (di fatto questi archetipi, questi modelli, sono profondamente inscritti all’interno del nostro immaginario, all’interno del nostro modo di fare), non c’è dubbio che è una cosa positiva perché è così. Però se lo si usa per dire che le responsabilità economiche e politiche sono egualmente condivise bisogna fare attenzione perchè questo può essere un discorso pericoloso. Qui ovviamente le opinioni sono diverse  ma, per dirla con una battuta, i cattivi chi sono? Lo sappiamo tutti che questo modello di produzione risponde ad interessi precisi che sono quelli del capitale globale internazionale, con tutti gli addentellati, gli amici e tutto ciò che ci sta sotto e che ci va dietro, però non c’è dubbio che il sistema economico è guidato dal lato dell’offerta e il sistema è organizzato così perché ha bisogno di crescere continuamente, altrimenti non va avanti. Ha bisogno di indurre il consumatore ad acquistare sempre di più perché questa è la sua caratteristica strutturale. E noi consumatori non abbiamo responsabilità se non di tipo culturale ma non interessi di tipo economico e politico. E’ possibile l’inversione? Su questo non esistono previsioni, non siamo profeti. Latouche, parlando di questo, fa riferimento alla pedagogia delle catastrofi, cioè a dire che se le crisi sono funzionali alla  trasformazione del sistema , non avremo problemi, Di crisi ce ne saranno in futuro, sia sul fronte ecologico , sia sul fronte sociale e di fatto già ci sono, per chi le vuole vedere. Se queste producono una trasformazione in positivo e non piuttosto una regressione, dipende da quanto colossali sono gli impatti e le lacerazioni.
Abbiamo già avuto una prima grande globalizzazione prodottasi negli anni dell’impero inglese, negli anni del liberismo che va dalla seconda metà dell’’800 alla prima Guerra Mondiale e non è finita molto bene. Sicuramente c’è stato un ritorno alla politica, un ritorno dello stato, ma in forme autoritarie,non certamente auspicate. Quindi le catastrofi possono produrre trasformazioni nell’immaginario, ma possono produrre anche delle regressioni terribili. Credo quindi sia un punto molto delicato su cui nessuno ha delle risposte.

5°domanda:
Vorrei dire qualcosa sulla questione dell’immaginario che sicuramente è centrale. Lo stesso Latouche ha dedicato uno dei suoi testi proprio a questo tema, riflettendo anche sul fatto che non bisogna pensare la decrescita e quindi un’economia non sviluppista come qualcosa che deve venire. Io credo che bisogna pensarla molto semplicemente come quel tipo di economia di autosufficienza che tutto sommato ha tenuto in piedi le società per millenni. E per dire questo non credo che si debba essere antisviluppisti sfegatati e radicali. Io ricordo, per es., che c’è qualche buon testo di storia che parlando dei rapporti tra l’India e l’occidente riporta dei dati interessanti. Quando l’India si fondava su economie di autosufficienza esse garantivano non certo la ricchezza e il consumismo, ma una qualche forma di dignitosa sopravvivenza, la povertà e non la miseria in cui sono precipitate certe popolazioni. E questi testi di storia che sono scritti da storici qualsiasi riportano dati interessanti dai quali risulta che le più grandi carestie in India si sono verificate  nella misura in cui queste economie di autosufficienza, di non crescita, sono state stravolte dalla penetrazione dell’ideologia e della pratica sviluppista ed ipersviluppista. D’altronde questo vale per molte popolazioni del terzo mondo e per molte popolazioni tribali. Se queste popolazioni stanno in piedi non è grazie allo sviluppo, non grazie ai dati che gli economisti registrano nel P.I.L. (Quasi tutti gli economisti, salvo Latouche, Bonaiuti e pochi altri, purtroppo)      . Si reggono tramite cosa? Tramite reti economico-sociali di sopravvivenza (Latouche le chiama economie informali) della cui realtà gli economisti ufficiali non tengono assolutamente conto. Ma è questo che garantisce la loro sopravvivenza. Quindi, tornando all’immaginario, non dobbiamo pensare alla decrescita come un miraggio cui bisognerebbe tendere. Bisognerebbe innanzitutto riflettere sul fatto che le economie di non crescita sono, o sono state, delle realtà materiali che hanno garantito una sopravvivenza povera ma dignitosa alla stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta. Ovviamente le ideologie sviluppiste possono essere anche in buona fede (tant’è vero che sono sia di destra che di centro e di sinistra, ma anche ecologiste ed ambientaliste), hanno pensato di migliorare le cose e invece le hanno peggiorate.

6°domanda:
Sono d’accordo con quanto ha detto ora Paolo Scroccaro. Vorrei aggiungere che, secondo me, le economie di sussistenza o autosufficienti sono sempre state in equilibrio con la natura, con le sue leggi, con i suoi cicli. E questo si connette anche al discorso fatto in precedenza sulla sovrappopolazione. Le leggi biologiche, per quanto riguarda qualunque essere vivente, sia esso pianta od animale, sono delle leggi per cui un individuo cresce fino ad un determinato punto e poi scattano dei limiti, dei meccanismi che ne bloccano la crescita, altrimenti crescerebbe all’infinito. L’economia invece non obbedisce a queste leggi ma, al contrario, cresce sempre. Non solo il singolo individuo obbedisce alle leggi biologiche per cui prima cresce e poi cessa la crescita, ma anche le comunità di esseri viventi, siano essi animali, piante, microbi, alghe, un bosco di abeti od altro. Quando il territorio e le risorse presenti nell’habitat lo permettono, gli individui di queste comunità crescono ed aumentano di numero. Quando le risorse alimentari e di altra natura come luce, aria, sali minerali  e così via  cominciano a scarseggiare, o cessano del tutto, la crescita numerica della comunità si blocca o addirittura regredisce. Questo non succede per l’economia e non succede neanche per l’uomo. Malgrado tutti siamo coscienti del fatto che le risorse del pianeta sono al limite, sono in via di esaurimento, noi continuiamo in questa folle corsa della sovrappopolazione e del consumismo. Però anch’io sono convinto che lo sviluppo non è il rimedio della povertà. E’un effetto, la povertà, una conseguenza dello sviluppo, perché lo sviluppo non è una concezione universale, è una concezione occidentale, nata in occidente, che noi (è stato chiamato “il vizio assurdo dell’occidente”) abbiamo la convinzione e la pretesa di esportare in tutto il mondo come il più grande bene possibile e quindi diamo per scontato che le altre popolazioni lo accettino tout-court così incartato, pronto per l’uso, pronto per la loro cultura, la loro storia, tradizione ecc. ecc. Non è vero. E’ solo stato un grande fatto storico che è andato bene qui da noi ma che non può andar bene altrove perché le condizioni locali sono profondamente diverse da luogo a luogo. Non si può usare un sistema che va bene qui, chiamarlo universale, e poi pretendere che vada bene in tutto il mondo. Grazie.

Prof. Bonaiuti:
Se volete trovare materiale sulle cose che abbiamo detto, ci sono questi due siti internet:
www.decrescita.it, sulla decrescita e, per quanto riguarda il mondo delle economie alternative e solidali: www.retecosol.org. Trovate indicazioni, esperienze, bibliografie, riferimenti e aggiornamenti sulle iniziative di economie alternative, diciamo sia di destra che di sinistra. Grazie.