World Bank's Global Economic Prospect 2006
di Jacopo Dettoni - 19/11/2005
Fonte: comedonchisciotte.it
World Bank’s Global Economic Prospect 2006: esercizio economico fine a se stesso?
Rimango francamente perplesso di fronte all’approccio al tema dei flussi migratori proposto dal Global Economic Prospect 2006, recentemente pubblicato dalla Banca Mondiale. Bastano poco righe di introduzione per scorgere la tesi finale che viene successivamente svolta e dimostrata, mediante l’utilizzo dei più raffinati strumenti economici:
“I fenomeni di mobilità internazionale possono generare sostanziali miglioramenti nel benessere tanto delle persone coinvolte e delle loro famiglie, quanto in quello dei paesi coinvolti.”
A posteriori, il destino sembrerebbe essere stato beffardo nei confronti del pool di economisti designato all’elaborazione di questo importante documento. I recenti avvenimenti delle banlieu parigine gettano un’ombra di diffidenza sull’intero lavoro, proprio in ragione della sua ottimistica e propositiva tesi che vede nei flussi migratori internazionali un potenziale beneficio, in termini prettamente economici, per molti, se non per tutti. Al di là comunque delle particolari contingenze che possono in parte inasprire il giudizio finale, ritengo che sia necessario rivedere l’intero fondamento teorico sul quale si basa l’analisi degli uomini della banca mondiale.
Analizzare il fenomeno in questione dall’esclusivo punto di vista della crescita del PIL dei paesi di destinazione e di origine, oppure del trasferimento di risparmi tra un paese e l’altro mi appare ormai un modo di ragionare obsoleto, limitato e limitante. Prescindere totalmente dall’impatto sociale, psicologico, politico, per citare i più importanti, credo sia oggigiorno un terreno d’indagine totalmente sterile. E le sconcertanti immagini che ci giungono dalle periferie francesi non possono che esserne una conferma.
Chiunque abbia avuto una testimonianza delle periferie delle nostre città negli anni cinquanta e sessanta, periferie sottoposte ad intensissimi flussi migratori campagna-città, sud-nord, non può che sorprendersi di fronte all’anacronismo degli argomenti proposti nel Global Report.
Allora, non solo in Italia, il problema delle periferie era sì un problema di reddito, mancavano i soldi per comprare il pane, l’acqua, i vestiti, ma insieme ai soldi mancava anche tutto il resto: case che avessero una dignità per non chiamarsi baracche, strade, ponti, scuole, ospedali, trasporti pubblici e via dicendo.
Tuttavia, il problema era allora così evidente che non si poteva non notarlo e conseguentemente agire nella prospettiva di accompagnare a maggiori opportunità di reddito un progressivo miglioramento della qualità della vita in generale, dalle infrastrutture ai servizi.
La situazione attuale appare affine a quella descritta, discostandosi solo per la minor evidenza delle problematiche soggiacenti.
Soffermarsi sulle potenzialità economiche insite nel lavoro di un immigrante può essere sì utile, ma all’alba del nuovo millennio si potrebbe chiedere qualcosa di più ad un’istituzione che ricopre un ruolo determinante nella risoluzione delle problematiche legate ai paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. Non è mia intenzione mettere in discussione i risultati a cui giunge un’equipe di economisti dal pedigree “luccicante”, è che semplicemente ritengo ormai necessario affrontare il problema da una prospettiva d’insieme, dove l’analisi economica vada di pari passo con quella sociale, politica e psicologica.
L’economia è una scienza molto potente, ma altrettanto flessibile ed adattabile a contesti d’indagine pluridisciplinari (il recente libro di Steven Levitt e Stephen Drubner Freakonomics ne è una lampante dimostrazione). Adattabilità che diventa una necessità quando si affrontano temi per loro stessa natura complessi e multiformi, quali il benessere e lo sviluppo. L’argomento era già ben noto agli antichi saggi: il denaro non è che un mezzo per raggiungere altri obiettivi più rilevanti, diceva Aristotele, ed in quanto tale si affianca a tutta una serie di elementi la cui presenza è fattore determinante nella realizzazione degli obiettivi individuali e sociali (libertà politiche, libertà sociali, libertà individuali ecc.).
Anche oggigiorno molti studiosi hanno rivolto la loro attenzione verso tali tematiche e addirittura, addirittura perché l’odierno orientamento della banca mondiale sembra non farne alcun tesoro, uno di loro, Amartya Sen, vinse un premio nobel per l’economia (1998) per aver approfondito la necessità di una visione più ampia alle problematiche dello sviluppo e del benessere.
Ovviamente, proprio in virtù del pedigree di cui sopra, simili conoscenze sono scontate agli occhi di un economista della banca mondiale, il quale tuttavia non ci prova nemmeno, almeno in questa sede, a proporre un’impostazione che si possa considerare multidisciplinare, barricandosi dietro il suo sapere specialistico e liquidando il problema come segue:
“La nostra attenzione, focalizzata sull’aspetto economico del tema, riguarda la mobilità internazionale dai paesi in via di sviluppo verso stati ricchi e sviluppati. Nonostante la loro importanza, fenomeni quali la mobilità interna, la mobilità tra paesi in via di sviluppo, nonché l’impatto politico e sociale del fenomeno migratorio, rimangono esclusi dalle riflessioni qui proposte. ”
Ma allora mi chiedo: qual’è l’utilità di un documento di 182 pagine, costruito intorno ad un oggetto d’indagine molto attuale e tuttavia sostanzialmente inadeguato a fornire anche una sola chiave di lettura di ciò che ci circonda e che vediamo tutti i giorni? Cosa serve sapere che il Pil dei paesi di destinazione e di origine può ottenere dei vantaggi dai flussi migratori se aprendo un quotidiano risaltano le immagini di giovani figli di immigrati, il cui disagio appare più esistenziale piuttosto che legato alle particolari circostanze reddituali, che bruciano le automobili dei loro vicini di casa?
Come mai, se la sua condizione di immigrato costituisce, in linea teorica, un beneficio non solo per se stesso, ma per tutte le parti coinvolte (famiglia di origine, paese ospitante e paese di origine), un giovane francese dovrebbe dare una dimensione reale e tangibile alle profetiche immagini del film “L’odio” di Vincent Cassel?
Eppure la Banca Mondiale afferma che un aumento della forza lavoro del 3% è capace, tra l’altro, di accrescere il Pil del paese ospitante dello 0,4%! Senza parlare degli effetti benefici dei risparmi che vengono indirizzati verso il paese di origini, il cui valore aggregato ufficiale è più del doppio degli aiuti della comunità internazionale!
Mettendo da parte l’ironia, non voglio esasperare gli argomenti a sfavore del Global Economic Prospect 2006 o dei suoi redattori, mi chiedo semplicemente da dove iniziare a cercare le risposte alle problematiche reali che mi circondano, se anche parte dell’elite scientifica, dotata di strumenti e conoscenze ben al di sopra della media (per un economista, lavorare alla banca mondiale è posizione di non secondaria autorevolezza), si dimostra incapace di individuare, o soltanto elude, anche nelle intenzioni, la strada verso conclusioni degne di nota, in grado di costituire un punto di partenza per successivi progressi.