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Quel Montparnasse a stelle e strisce

di Stenio Solinas - 23/02/2007

 

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«Mai andare a Montparnasse» era il cartello, scritto di propria mano, appeso da Max Jacob al muro della sua stanzetta di rue Ravignan, a Montmartre. All’inizio del Novecento il passaggio di consegne intellettuali fra i due quartieri era di fatto avvenuto, e la modernità era discesa dalla Butte, la collina del Sacro Cuore, e si era installata sul Monte Parnaso di un quartiere non particolarmente bello né caratteristico, per nulla elegante, povero quanto a monumenti: la fontana di Carpeaux dedicata alle Quatre Parties du Monde e la statua del maresciallo Ney, opera di Rude, entrambe al Carrefour de l’Observatoire, quella del Lion de Belfort scolpita da Bartholdi in piazza Denfert-Rocherau.
Nulla che valesse il viaggio, bofonchiava Jacob, e in più che babele di lingue e di costumi, che assenza di gusto e di moralità! La Rotonde aveva aperto i battenti nel 1911, proprio all’angolo fra i boulevard Raspail e Montparnasse: era ristorante, dancing e locale notturno, c’era una fauna di artisti slavi, sudamericani, scandinavi mischiata a modelle, magnaccia, spacciatori. Ci andavano Picasso, Modigliani, Van Dongen, «i pittori traditori di Montmartre» secondo Jacob, i poeti Cendrars, Salmon, Fargue. Di fronte c’era il Dôme, che il critico d’arte del Figaro, André Warnod, aveva definito «piazza pubblica, albergo, foro, ghetto, corte dei miracoli»: nel 1905 l’arrivo di Jules Pascin, l’illustratore principe del Simplicissimus, era stato festeggiato da tutti i pittori dell’Europa centrale di stanza a Parigi.
La «resistenza» di Max Jacob durò sino all’agosto del 1916: c’era la Grande guerra, molti amici erano al fronte, un invito a pranzo difficile da rifiutare, per di più da Bety, che il suo adorato Apollinaire definiva l’unico vero vinaio di Parigi. E pazienza se Bety era in quel maledetto quartiere e proprio accanto alla Rotonde, di faccia al Dôme. Una serie di fotografie scattate da Jean Cocteau con la macchina presa in prestito dalla madre (perché naturalmente c’era già Cocteau lì dove la celebrità affermata e/o in fieri era presente) mostra Jacob, Picasso, lo scrittore Henri-Pierre Roché, quello di Jules e Jim, e la scultrice ventenne Marie Vassilieff. Sono loro i quattro commensali di Bety, ma le immagini sono state prese al momento del caffè, quando il quartetto si è traferito sulla terrazza della Rotonde ed è stato raggiunto da Modigliani, Salmon, Kisling, Ortis de Zàrate. In quelle istantanee c’è, nero su bianco, lo spirito di un’epoca e di un luogo.
Quando la guerra finisce e gli anni Venti hanno inizio il quartiere odiato da Max Jacob non si chiama più così, ma The Quarter: ci vivono almeno 250 americani, poeti, romanzieri, direttori di riviste, editori. Al cambio un dollaro vale cinquanta franchi, e questo è già un buon motivo per spiegare il perché di una scelta. E poi c’è l’America puritana, l’America austera, l’America del proibizionismo che invoglia alla fuga: a Parigi si beve, si fuma, non ci si scandalizza, si va alle mostre, c’è Proust, c’è Joyce... Cosa si può chiedere di più? Les exilés de Montparnasse (Gallimard, pagg. 291, euro 21) li definisce Jean-Paul Caracalla nel saggio appena uscito che li immortala, e il connubio arte-vita è per gran parte di essi la vera molla a un «esilio» volontario e per nulla sofferto.
Prendiamo l’americana Sylvia Beach. Ha 29 anni quando incontra la francese Adrienne Monnier, che ne ha 24 e gestisce una libreria in rue de l’Odeon. Nel giro di poco, Sylvia apre la sua, prima in rue Dupuytren, poi di fronte a quella dell’amica, con cui ormai convive: si chiamerà Shakespeare and Company, avrà la benedizione di Gertrude Stein, la decana degli americani a Parigi, diverrà il luogo di ritrovo di tutti gli scrittori anglosassoni che contano. Sarà Sylvia a editare l’Ulisse di Joyce, proibito oltre Manica e oltre oceano.
Prendiamo Robert McAlmon. Ha 26 anni, sogna di essere poeta, ha fama di seduttore, ha contratto un matrimonio «bianco» con Winifried Ellerman, nome d’arte Bryher, inglese, figlia di finanzieri, lesbica. In cambio del patrimonio, che gli vale il sopranonme di McAlimony, cioè «assegno alimentare», Bob le dà la rispettabilità di un’unione borghese e le permette di dividere il letto matrimoniale non con lui ma con lei, Hilde Doolittle, il grande amore di Bryher. Tutto ciò a Parigi, naturalmente, dove McAlmon sarà di volta in Marie Vassilieff. Sono loro i quattro commensali di Bety, ma le immagini sono state prese al momento del caffè, quando il quartetto si è traferito sulla terrazza della Rotonde ed è stato raggiunto da Modigliani, Salmon, Kisling, Ortis de Zàrate. In quelle istantanee c’è, nero su bianco, lo spirito di un’epoca e di un luogo.
Quando la guerra finisce e gli anni Venti hanno inizio il quartiere odiato da Max Jacob non si chiama più così, ma The Quarter: ci vivono almeno 250 americani, poeti, romanzieri, direttori di riviste, editori. Al cambio un dollaro vale cinquanta franchi, e questo è già un buon motivo per spiegare il perché di una scelta. E poi c’è l’America puritana, l’America austera, l’America del proibizionismo che invoglia alla fuga: a Parigi si beve, si fuma, non ci si scandalizza, si va alle mostre, c’è Proust, c’è Joyce... Cosa si può chiedere di più? Les exilés de Montparnasse (Gallimard, pagg. 291, euro 21) li definisce Jean-Paul Caracalla nel saggio appena uscito che li immortala, e il connubio arte-vita è per gran parte di essi la vera molla a un «esilio» volontario e per nulla sofferto.
Prendiamo l’americana Sylvia Beach. Ha 29 anni quando incontra la francese Adrienne Monnier, che ne ha 24 e gestisce una libreria in rue de l’Odeon. Nel giro di poco, Sylvia apre la sua, prima in rue Dupuytren, poi di fronte a quella dell’amica, con cui ormai convive: si chiamerà Shakespeare and Company, avrà la benedizione di Gertrude Stein, la decana degli americani a Parigi, diverrà il luogo di ritrovo di tutti gli scrittori anglosassoni che contano. Sarà Sylvia a editare l’Ulisse di Joyce, proibito oltre Manica e oltre oceano.
Prendiamo Robert McAlmon. Ha 26 anni, sogna di essere poeta, ha fama di seduttore, ha contratto un matrimonio «bianco» con Winifried Ellerman, nome d’arte Bryher, inglese, figlia di finanzieri, lesbica. In cambio del patrimonio, che gli vale il sopranonme di McAlimony, cioè «assegno alimentare», Bob le dà la rispettabilità di un’unione borghese e le permette di dividere il letto matrimoniale non con lui ma con lei, Hilde Doolittle, il grande amore di Bryher. Tutto ciò a Parigi, naturalmente, dove McAlmon sarà di volta in volta bevitore, editore, scrittore, gran pettegolo. È di casa a La Coupole, al Select, al Dingo di rue Delambre, che ha per barman un ex pugile, per proprietario un altro americano, per cliente più fedele Ernest Hemingway. I due sono fatti per piacersi e poi detestarsi: Bob sarà uno dei suoi primi editori e poi lo ridicolizzerà in un libro di memorie, Being Geniuses Together (in Italia l’ha tradotto Adelphi, Vita da geni). Ernest si limiterà a ritenerlo un fallito.
Al Dingo è di casa anche Francis Scott Fitzgerald ed è qui che Hemingway lo incontra per la prima volta, nel 1925. L’uno è scrittore affermato, l’altro una semplice promessa che ha però dalla sua il talento e la voglia di arrivare, la capacità di farsi amare e l’egoismo di chi non accetta di sentirsi in debito con qualcuno. Sarà così con Gertrude Stein, sarà così con Scott, ma in quel 1925 tutto è ancora sereno e senza scosse. A Fitzgerald Montparnasse non piace: lo frequenta, sì, ma lui è da Rive Droite, più che da Rive Gauche. I suoi amici più cari sono i Murphy, Sara e Gerald, che abitano in rue Greny, vicino al bois de Boulogne, e che per festeggiare i balletti russi Noces, musiche di Stravinski, coreografia di Balanchine, hanno affittato un ristorante-peniche al pont de la Concorde: ai tavoli siedono Picasso, Tzara, la pianista Marcelle Meyer e la pittrice Natalia Goncharova. Vestito da ufficiale di marina Jean Cocteau spalanca ogni tanto gli oblò e annuncia con aria funebre: «Affondiamo».
Il melange Rive Droite-Montparnasse più incredibile è forse quello simboleggiato da Helena Rubinstein e Edward Titus. Lei vive all’île Saint-Louis, in un Hôtel particulier del Seicento, lui in un bilocale in rue Delambre, sopra il Ringo, in pratica, e a due passi dal Dôme. Lei ha passato la cinquantina, lui ha 13 anni di meno, sono stati sposati, hanno messo al mondo due figli, ma Edward ha una passione per le babysitter dei loro bambini, è scappato con una di esse, c’è stata una separazione... E tuttavia Helena non si decide a rompere, liti e riconciliazioni si susseguono, vivono ciascuno per conto proprio, ma continuano a vedersi. Titus è negato per gli affari, ma capisce di arte e di letteratura, la Rubinstein confonde Picasso con Botticelli, non ha mai letto un libro, ma ha messo su la più importante realtà cosmetica del suo tempo. Così, lei lo foraggia e in cambio si fa consigliare sugli investimenti redditizi in campo artistico. Risultato: Titus edita The Quarter, rivista cult dell’epoca, pubblica D.H. Lawrence, Ralph Dunning, Schnitzler, le memorie di Kiki di Montparnasse con prefazione di Hemingway, apre una libreria, At The Sign of the Black Manikin, specializzata in antiquariato: le prime edizioni di Verlaine, Le Corbeau di Edgar Allan Poe tradotto da Mallarmé e illustrato da Manet, innumerevoli corrispondenze private. «Parlare con lui è fare un viaggio nel regno della spiritualità» dice chi lo frequenta. Helena ne è soggiogata, ma non rinuncia a dire la sua: Joyce puzza e mangia allungando il collo come un uccello, Hemingway fisicamente non le piace, Lawrence è un timidone e insomma «per me erano tutti dei pazzi a cui bisognava pagare sempre il pranzo. Come potevo pensare che valessero qualcosa?».
Se la Rubinstein non capisce niente di arte, tutto di affari e ha in fondo amato un unico uomo nella sua vita, Nancy Cunard è molto bella, si ritiene una poetessa e sogna di essere la ninfa egeria della Parigi intellettuale. L’unica cosa che le due donne hanno in comune sono i soldi, ma quelli di Helena derivano dal suo talento, quelli di Nancy dal fatto di essere l’erede di un grande armatore. Bambina poco amata, ha vissuto l’infanzia in una casa dove c’erano «quaranta domestici, ma non un genitore». Adesso che ha vent’anni vuole rifarsi: sarà l’amante di Aldous Huxley e di Louis Aragon, l’ispiratrice di Brancusi e di Kokoschka, la modella di Man Ray e Cecil Beaton, la regina del Boeuf sur le toit di rue Boissy d’Anglas e della Cigale di boulevard Rochechouart... Ma è anche la fondatrice delle edizioni Hours che tengono a battesimo Samuel Beckett, pubblicano Lewis Carroll e Ezra Pound, Aragon e Norman Douglas. Ha imparato l’arte tipografica, comprato una macchina a stampa, convive con un musicista di colore...
Ricchi, poveri, geni, mediocri, gli «esiliati» di Montparnasse dettano legge per un ventennio e passa. Henry Miller arriva a Parigi nel 1928 insieme con June, sua moglie. Ci ritorna nel 1930 da solo, batte la città palmo a palmo, fa la fame, spesso dorme per strada, si innamora, scrive. Il risultato è Tropico del Cancro ed è il 1934. Perché Miller possa vedere il suo romanzo pubblicato negli Stati Uniti dovrà aspettare trent’anni e averne lui settanta. «Esiliarsi» a volte vuol dire salvarsi.