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Solo la guerra persa è un crimine internazionale

di Intervista di Castalda Musacchio a Danilo Zolo - 21/11/2005

Fonte: Jura Gentium

 

La strage di Fallujah sta portando al pettine dei nodi giuridici irrisolti. C'è chi sostiene che a livello internazionale ci sia di fatto una deregolamentazione diffusa. Il suo parere?

Sono d'accordo nel sostenere che il diritto di guerra è un apparato normativo molto fragile. Hersch Lauterpacht, uno dei più autorevoli internazionalisti del Novecento, diceva che se il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale.

Quale può essere la ragione?

La ragione principale sta nel fatto che sono le grandi potenze che fanno in modo che il diritto internazionale sia scarsamente efficace. Le cito l'esempio della nozione di guerra di aggressione, che nella sentenza del Tribunale di Norimberga venne definita "crimine internazionale supremo". Dal 1946 ad oggi non c'è stato un solo processo contro attori internazionali -- Stati o singole persone -- responsabili di questo crimine. Eppure sono stati numerosissimi i casi di aggressioni di Stati da parte di altri Stati, come lo stesso Consiglio di Sicurezza ha più volte riconosciuto. Per un verso le grandi potenze si rifiutano di dare una definizione precisa di 'aggressione', per un altro impediscono che i Tribunali penali internazionali si occupino di questo crimine. Il caso dell'aggressione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna contro l'Iraq è paradigmatico. Oggi accade addirittura che gli aggressori vittoriosi, responsabili dell'uccisione di decine di migliaia di persone innocenti, abbiano organizzato un Tribunale speciale per condannare a morte il leader del paese aggredito e militarmente sconfitto. Il giudice indiano, Radhabinod Pal, membro del Tribunale di Tokyo, in dissenso con la maggioranza della corte, ebbe a dire con sarcasmo che "solo la guerra persa è un crimine internazionale".

Ma nel caso della strage di Fallujah ci sarebbero strumenti per un intervento penale internazionale contro i leader politici e militari che la hanno decisa.

In teoria gli strumenti ci sarebbero, forniti sia dalla Convenzione di Parigi del 1993 che bandisce l'uso di armi chimiche, sia dallo Statuto della Corte penale internazionale dell'Aja. Ma gli Stati Uniti non riconoscono la giurisdizione di questa Corte e d'altra parte neppure l'Iraq ne aveva ratificato lo Statuto. Ma lo stesso consiglio di Sicurezza potrebbe in teoria prendere posizione sia contro l'aggressione all'Iraq, sia contro l'infame violazione delle Convenzioni di Ginevra attuate dalle milizie statunitensi a Fallujah. Ma questo non capiterà.

Lei pensa che non possa assolutamente accadere?

Ci troviamo di fronte a una situazione in cui il mondo è polarizzato fra un direttorio di grandi potenze guidate dagli Stati Uniti, da un lato, e dall'altro la grande maggioranza dei paesi deboli e poveri. E questo determina uno squilibrio nei rapporti di forza internazionali che forse non ha precedenti nella storia umana. In presenza di questo squilibrio è ovvio che il diritto internazionale non possa funzionare. Perché un ordinamento normativo possa essere minimamente efficace è indispensabile un certo equilibrio tra i soggetti di diritto. Oggi ci troviamo in una fase storica in cui gli Stati Uniti sono una superpotenza che si considera - ed è considerata dalla cosiddetta comunità internazionale - legibus soluta, al di sopra della legge.

Tornando a Fallujah, ormai non ci sono dubbi che ci si trovi di fronte a una vera strage attuata con armi di distruzione di massa come il "fosforo bianco" che non può certo essere considerata un'arma convenzionale. A suo parere la distinzione fra armi convenzionali e armi non convenzionali ha ancora senso?

Condivido il suo dubbio. Anche qui, in teoria, una distinzione giuridica c'é, visto che c'è un trattato contro la proliferazione delle armi nucleari. In ogni caso credo che la distinzione fra armi convenzionali e armi di distruzione di massa, nucleari o quasi-nucleari, sia sempre meno praticabile e praticata. Nel corso delle guerre successive alla fine della guerra fredda, incluse quelle cosiddette 'umanitarie', gli Stati Uniti hanno usato armi sempre più sofisticate e micidiali, Dai proiettili all'uranio impoverito (D.U.), alle devastanti cluster bombs e daisy-cutter (taglia-margherite), agli air-fuel explosivesche, di fatto, non sono altro che piccole, raffinate bombe nucleari che hanno lo stesso effetto delle grandi testate nucleari, soltanto in un ambito più circoscritto. Del resto, recentemente il Congresso statunitense, superando una legislazione consolidata, ha autorizzato la produzione - e ovviamente l'uso - di armi nucleari tattiche. Da usare ovviamente anch'esse per la diffusione della democrazia nel mondo e la tutela dei diritti umani...

Di fatto dunque le grandi potenze operano nella totale impunità. Eppure per lo meno i trattati vietano quelle che provocano distruzioni di massa...

Per quanto riguardo il cosiddetto ius in bello, e cioè la disciplina delle armi che si possono usare o non usare in un conflitto, la normativa internazionale è una sorta di colabrodo. I trattati che hanno deciso l'esclusione di certe armi hanno normalmente messo in soffitta armi ormai superate. Faccio qualche esempio. E illegale l'uso delle pallottole a frammentazione 'dum-dum': gli inglesi le usavano in India sostenendo che gli indiani erano selvaggi ed erano perciò in grado di sopportare le terribili sofferenze che procuravano. Non c'è invece alcuna norma che vieti l'uso di missili o di bombe ad alto potenziale come quelle che ho citato sopra. A rigore neppure l'uso di testate nucleari è legalmente bandito. Il trattato di non proliferazione delle armi nucleari non si pronuncia sul loro uso.

Anche la riforma delle Nazioni Unite è fallita per volere degli Stati Uniti. Come si può arginare l'impunità delle grandi potenze e ristabilire un minimo ordine giuridico internazionale?

Il punto di partenza per una discussione su questo tema non può essere a mio parere la riforma delle Nazioni Unite. Questa riforma esigerebbe ovviamente il consenso delle grandi potenze, in primis degli Stati Uniti che godono in seno al Consiglio di Sicurezza di un rilevantissimo plus-valore giuridico: la qualità di membri permanenti e il potere di veto. Solo pensare che una grande potenza possa rinunciare spontaneamente a privilegi di questo tipo sarebbe un'imperdonabile ingenuità. Il potere - tanto più quello internazionale - può essere limitato solo da un contropotere, non dalle buone intenzioni o dalle prediche morali. Il grande tema da affrontare, secondo me, non è la riforma delle istituzioni, ma il cambiamento dei rapporti di forza all'interno dell'arena internazionale. Occorre fare in modo che lo strapotere delle grandi potenze occidentali venga riportato entro una logica di equilibrio. Il dramma è che si dovrebbe farlo attraverso forme non violente e, inevitabilmente, graduali. Dietro l'angolo si profila, altrimenti, la terza guerra mondiale. Qui si apre il tema del carattere imperfetto dell'attuale assetto unipolare del mondo e della possibilità di un cambiamento nel senso del pluralismo e dell'equilibrio. All'orizzonte si profilano la Cina, l'India, l'America latina e - questione delicatissima e cruciale - l'Europa.

Dunque secondo lei il diritto internazionale non può offrire che un contributo molto limitato. Non è sconfortante per un giurista come lei che, sia pure da un punto di vista filosofico, si occupa di diritto internazionale?

Antonio Cassese, uno dei più autorevoli internazionalisti europei, ha scritto in un suo libro: "Il giurista che si occupa di diritto internazionale si sente spesso come quegli intellettuali di cui Brecht diceva che dipingono nature morte sulle pareti di una nave che affonda".


*. Da Liberazione, 13 novembre 2005.