Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ezra Pound: un economista

Ezra Pound: un economista

di Miro Renzaglia - 24/11/2005

Fonte: Miro Renzaglia

 

 

Ezra Pound si occupava accidentalmente di economia o era, più tosto, l’economia a pre-occuparlo in essere? Visto che mi faccio da solo la domanda, da solo mi offrirò la risposta: non si possono scindere dalla lettura dei Cantos le tesi economiche che ne costituiscono la struttura argomentativa. Se tali contenuti fossero trascurati come farneticazioni, potremmo pure continuare a goderci il bello scrivere del “Miglior fabbro”, ma ci sfuggirebbe il senso profondo del capitolo più alto della poesia del ‘900... In definitiva, la teologia sta a Dante e alla Commedia, come l’economia sta a Pound e ai Cantos: eretico teologico il primo, eretico economico l’altro.

 

È, se mai, lecito chiedersi se l’economia è materia che si presta ad essere poetata. Ma qui, lasciando rispondere lo stesso Pound, arriveremmo alla conclusione che: “La poesia si fa con qualsiasi cosa...”. D’altronde, la teologia ai tempi di Dante  era materia riservata agli eruditi e agli uomini di chiesa, non ingrediente comune alla pratica mondana della poesia. Pound scelse l’economia come pre-testo poetico perché era persuaso che essa (l’economia...) fosse fattrice centrata nei e dei rapporti dinamici della storia. Come a Dante (di nuovo...) premeva affrontare i nodi problematici fra potere temporale e autorità spirituale che movevano le dispute civili, sociali e belliche del suo periodo, per Pound il nodo da sciogliere era quello fra interessi finanziari ed etica dello Stato. Il suo avvertimento era rivolto agli uomini del nostro tempo: le lotte, le grandi lotte che viviamo in maniera sempre più drammatica (dall’epilogo della Seconda guerra mondiale, alle guerre umanitarie, alle missioni di pace, alla lotta guerrafondaia al terrorismo...) sono, in realtà la proiezione della lotta mortale fra l’usura, apolide e piuratesca, e gli interessi di uno stato ideale, confuciano che, rifiutandosi di asservirsi alle logiche finanziarie finalizzate al puro profitto, e ad indebitarsi, dovrebbe difendere le ragioni vitali dei popoli... Che Pound, poi, abbia visto nel nazional socialismo e nel bolscevismo leniniano, in parte, e nel fascismo italiano, sopra tutto, tale prefigurazione di Stato è colpa che gli valse dodici anni di manicomio criminale. Il che potrebbe essere sufficiente pena per consentirci un’analisi serena delle sue tesi economiche, senza indurci a fargli pagare ancora, in maniera pregiudiziale, il reato (se reato fu...) delle sue scelte di campo...

 

L’usura, vale a dire il potere di creare denaro dal nulla, era l’assillo di Pound. Materia difficile, certo. Ancora oggi si stenta a comprendere come il prestito a interesse (leggi: usura...) corroda dall’interno i rapporti sociali dei popoli e delle nazioni e come la grande concentrazione di valuta,( o contenuta virtualmente...) nella capaci (e rapaci...) casse delle banche, incida sulla qualità della vita e sulle scelte anche minime dell’individuo. Pound si chiese come mai in età moderna, dove l’industrializzazione e la meccanizzazione del lavoro agrario sono in grado di produrre merci e beni tali da soddisfare  le esigenze primarie di tutti, esistano ancora sacche planetarie di estrema, miseria. In primis, si rispose che la quantità lavoro era mal distribuita: un uomo non avrebbe dovuto lavorare più di cinque ore al giorno (all’epoca se ne lavoravano otto, oggi se ne lavorano sei e quaranta ed è assi contrastata – a dire poco – la riduzione a trentacinque ore settimanali...), liberando così per altri uomini le ore di lavoro eccedenti gli attuali “limiti occupazionali”. In secondo luogo – sempre il Pound di cui si tratta – affermava che il lavoro doveva essere “necessario”, cioè: attività produttiva di beni che “qualcuno voleva”. Beni, ancora e cioè, che dovrebbero soddisfare bisogni naturali e non indotti – mettiamo – dalla pubblicità più o meno subliminale. In fine: che il salario doveva certificare esattamente il lavoro compiuto.

 

Poste le premesse, però, il problema è tutt’altro che risolto. In tanto: il salario globale distribuito alla forza lavoro non può corrispondere mai con esattezza al prezzo totale delle merci prodotte essendo (tale prezzo...) gravato dai costi (ulteriori a quello della mano d’opera....) per le materie prime, l’energia, la conservazione delle merci, per la distribuzione etc. che la produzione stessa comporta. Pound, sposando con entusiasmo il teorema “A + B” di un altro eretico dell’economia, il Maggiore Clifford Douglas, citatissimo nei Cantos, ritenne allora che la differenza fra salario effettivamente elargito e potere d’acquisto dovesse essere colmato direttamente dallo Stato con l’emissione corrispondente in carta moneta di un “Credito Sociale”. Soluzione che può sembrare semplicistica ma valida, comunque, nel sottolineare un problema sottovalutato, in buona o cattiva fede, dagli economisti ortodossi. In oltre, oltre alla differenza fra salario e potere d’acquisto, il sistema poundiano, che sottometteva, di fatto, l’emissione della moneta al lavoro anziché alla “miserabile base aurea”, non impediva l’accaparramento della moneta per fini improduttivi di niente altro che di altra moneta (cioè: per convertirla in prestiti a interesse = usura...). Chiuderla nei forzieri (al di là di un sano risparmio personale...), anziché spenderla o investirla in attività produttive, sottrae ulteriore potere d’acquisto e, quindi, benessere sociale. La moneta, infatti,  si conserva meglio e a costi più bassi delle merci. Bisognava trovare, allora, un antidoto alla sua (della moneta...) eternizzazione e alla sua (sempre della moneta...) conservazione nella casseforti bancarie. Certo è che, se invece di essere immortale, la moneta seguisse il destino delle merci, di cui è (meglio: dovrebbe essere...) simbolo; meglio ancora: se fosse soggetta allo stesso processo di deperimento delle merci, la convenienza a tenerla ferma nelle banche anzi che favorirne la distribuzione e la circolazione verrebbe meno... Tesi che Pound mutuò da Silvio Gesell e dalla teoria della “moneta prescrivibile”. La moneta emessa dallo Stato (e non dalle banche centrali: attenzione...), dovrebbe essere affrancata ogni mese con una marca da bollo pari all’1% del suo valore nominale, pena la sua invalidità. In cento mesi, la moneta si prescrive (cioè: esaurisce il suo corso...) ed è sostituita. E’ chiaro che se uno Zio Paperone qualsiasi vede il livello del suo forziere abbassarsi di un centesimo al mese, o la smette con i tuffi salutari (per lui...) nella piscina monetaria, o nel giro di otto anni si rompe l’osso del collo. Inoltre, quella marca da bollo diverrebe l’unica tassa imposta dallo Stato. Il quale (Stato...), da una parte avrebbe la possibilità di sapere con assoluta precisione che le sue entrate sarebbero pari al 12% dell’emissione monetaria (corrispondente, a sua volta - come si è detto - per la produzione di beni necessari + il credito sociale di cui sopra...) e, dall’altra, finirebbe per gravare solo su chi, al termine di ogni mese, avesse in tasca un valore pari al meno cento volte l’unitax.

 

Tale sistema monetario fu oggetto di alcuni esperimenti (o di alcuni tentativi di esperimento...). Lo stava per rendere operativo lo stesso Gesell, Ministro delle Finanze della breve ed effimera Baviera sovietica (1919), ma il colpo di stato dei seguaci socialdemocratici di Rosa Luxenburg ne impedì l’attuazione: l’anarchista Gustav Landauer, capo di quella proclamata Repubblica dei Consigli, fu fucilato e Gesell stesso processato e condannato per alto tradimento.. Tra il 1932 e il ’33, riuscì ad emetterla il borgomastro di Wörgl, nel Tirolo, risanando le disastrate finanze del piccolo paese in meno di due anni. Finché, uno di quei biglietti, arrivato nelle mani dei banchieri di Innsbruck, allertò le cosche finanziarie austriache che fecero decretare la fine del suo corso e della carriera politica del borgomastro. Il 10 settembre 1943, dopo l’armistizio, Ezra Pound partì da Roma percorrendo 600 chilometri a piedi stretti dentro stivali di almeno un numero più piccoli, per proporre la moneta prescrivibile all’ultimo fascismo: quello della Repubblica sociale. Ma le orecchie foderate di chi doveva ascoltarlo e, soprattutto, l’esito del conflitto resero vano il suo ingresso nella “repubblica dell’utopia”.

 

La teoria monetaria, a partire da questi due istituti: credito sociale del maggiore Douglas e moneta prescrivibile di Gesell, furono per Ezra Pound materia di infiniti interventi e messe a punto. Nonché - come si è detto - contenuto incandescente della sua poesia. In definitiva, Pound utopizzava di sottrarre la moneta al dominio e al controllo delle banche e degli ingegneri dell’Haute Finance, per restituirla a quelli diretti dello stato. Oggi, in Italia, lo si accuserebbe di statalismo, inviso tanto alle forze governative che a quelle dell’opposizione, unite ne contendersi (l’ossimoro è apparente...) il primato del Pensiero Unico Dominante: quello liberista. Ma, secondo Pound: “I liberali che non sono tutti usurai, dovrebbero spiegarci perché gli usurai sono tutti liberali...”. Certo – avvertiva ancora Pound – nessun sistema si dimostra veramente buono se chi lo deve realizzare non è sorretto da un fortissimo senso etico. Ma lo stato è, quasi sempre, l’espressione mediata o diretta della volontà di un popolo, mentre nessuna banca è stata mai eletta o acclamata da alcun chi. (Inoltre, del sistema monetario prescrivibile, esiste una versione libertaria, teorizzata da Rudolf Steiner che, anziché allo Stato, conferisce a “istituti spirituali”: ospedali, scuole, istituti di ricerca, musei ecc... facoltativamente scelti dal possessore della moneta, l’emissione della marca da bollo affrancatrice con diritto all’incasso del relativo importo...).

 

Purtroppo la perdita di sovranità dello Stato di qualsiasi nazione indebitata, a favore di quella illimitata del potere finanziario creditore, che all’epoca in cui Pound scriveva poteva sembrare un’oscura e catastrofica previsione è, oggi una realtà incontestabile. Quasi tutti i paesi del mondo, con esclusione, forse, di alcuni a regime islamico (imputati delle più orrende nefandezze dal tiro martellante della propaganda occidentalista...) sono o si avviano a diventare debitori di potenze finanziarie globali, super e trans nazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, in primo luogo...). Come sa chiunque abbia acceso un mutuo, si resta padrone dell’investimento e del modo di gestirlo fino a quando il debitore (il cliente, direbbero gentilmente al vostro sportello bancario...) è in grado di restituire, oltre al cabitale debitorio, anche il cospicuo interesse (usura... usura...) che ne deriva. Ma quando, per esempio, un rialzo dei tassi (stabilito unilateralmente dalle banche centrali...) rende difficile, se non impossibile, la soddisfazione del debito, è il creditore che comincia a dettare le sue regole, pena l’esproprio. La stessa cosa succede agli stati indebitati. Quando il debito pubblico sale ai livelli italiani (o peggio...), dagli altissimi consessi finanziari sopra citati (fmi e bm...) arrivano i consigli giusti per raddrizzare l’economia. E ai governi nazionali non resta che ratificare: una privatizzazione là (che significa esattamente, una cessione di proprietà dello Stato alle banche o a società dal comodo prestanome...); un taglietto alle pensioni qui (o un innalzamento dell’età pensionabile fino ai limiti dell’umana sopportabilità...); una sforbiciatina al sistema sanitario; una riduzione delle spese per l’istruzione (magari privatizzando perfino le Università…) e poi, via, insomma, è ora di finirla con questo residuo assistenzialista dello Stato sociale inventato, per di più, da quel fossile reazionario e antiliberale, per icona assoluta, di Bismarck… E realizzato in Italia da quel diabolico nemico del popolo che fu, e resta, Benito Mussolini...