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Le pagine del deserto salvate a Timbuctù

di Francesca Caferri - 28/03/2007

     
L’attuale stato africano del Mali, ingloba i territori centrali che videro tra il XIII e il XVI secolo il fiorire di una società prosperosa e di una cultura di altissimo livello prima sotto l’impero del Mali e poi sotto quello del Songhai.
Timbuctù era una delle grandi metropoli al centro dei traffici transahariani e delle vie dell’oro. Centomila abitanti, di cui venticinquemila studenti, centottanta madrase e una grande università fecero di Timbuctù la capitale culturale del Mali.
Il reportage di Francesca Caferri ci racconta sia il mito sia l’attuale realtà della città, descrivendo il lavoro di recupero e conservazione degli antichi manoscritti custoditi nel Centro Ahmed Baba.


La città di tutte le leggende si nasconde fra il deserto e il fiume, lontana da tutto. Per raggiungerla, oggi come nei secoli scorsi, occorre accettare il suo ritmo: non è un posto per chi ha fretta. È solo a chi è pronto a farsi cullare per giorni da una barca lungo il Niger, a sopportare ore di buche e sabbia su una strada sconnessa o a scommettere sulla partenza dei piccoli aerei locali, che la regina del deserto apre le sue porte: «Tombouctou la mystérieuse», «Bienvenue à Tombouctou, cité des 333 saints», recitano i cartelli sulla piazza dove i turisti si fermano a farsi fotografare da quando quello che segnava l’ingresso della città è crollato. In viso hanno il sorriso soddisfatto di chi ha realizzato un sogno. «Timbuctù, Tumbuto, Tombouctou, Tumbyktu, Tumbuktu o Tembuch? Non importa come si scrive. La parola è uno slogan, una formula rituale, sentita una volta non si dimentica», appuntava sul suo taccuino Bruce Chatwin, che la raggiunse guidato da un racconto che aveva letto quando aveva undici anni. Esistono due Timbuctù, concludeva infine lo scrittore al ritorno dal suo viaggio, deluso per non aver trovato nel sonnolento capoluogo di provincia del Mali i segni dell’antica gloria: quella reale e quella mentale.
La prima è la città che accoglie i visitatori che arrivano da tutto il mondo accecati dalla sua leggenda: case di fango mangiate dal tempo e dal vento del Sahara, fogne a cielo aperto, accampamenti di tende beduine nelle piazze, fieri tuareg ridotti a venditori di souvenir. L’altra, quella immaginaria, è la gloriosa capitale di regni costruiti sul commercio, il punto di incontro fra le sabbie del Sahara e le acque del Niger dove fra il Quattordicesimo e il Sedicesimo secolo sale, oro, cammelli e schiavi si incrociavano in un unico, ricchissimo mercato: il luogo inaccessibile sognato dai viaggiatori europei a cui era vietato avvicinarsi, la città di quell’imperatore Kanka Musa che nel 1324 si fece accompagnare nel pellegrinaggio alla Mecca da ottomila cammelli e due tonnellate e mezzo di oro e lungo il cammino ne distribuì tanto da far crollare il prezzo di mercato fino al Cairo.
Sono in tanti a cercare questa città leggendaria, oggi che arrivarci non è più un tabù. Si muovono per le strade coperte di sabbia, girano gli angoli alla ricerca di qualcosa che dia corpo al mito che li ha portati fin qui. Pochi riescono a trovarla davvero. I più ripartono dopo un giro sulle dune del Sahara, portandosi dietro almeno una consolazione: quella di essere arrivati fin qui e di poterlo raccontare.
Per trovare l’unico luogo a Timbuctù dove il mito e la realtà si incontrano occorre lasciare le strade polverose del centro e le grandi moschee color sabbia e arrivare in un piccolo cortile appena fuori città. “Centro di documentazione e di ricerca Ahmed Baba”, sta scritto fuori dal cancello. Pochi edifici sparsi intorno a un giardino, nessun fasto: si fatica a capire che ciò che resta dell’antica gloria della città carovaniera è qui. Solo una volta entrati il tesoro si mostra in tutto il suo splendore. Nel centro Ahmed Baba - che prende il nome da uno dei più famosi intellettuali di Timbuctù - sono conservati venticinquemila manoscritti, per lo più in lingua araba. I più vecchi risalgono al Dodicesimo secolo, la maggior parte al Sedicesimo, quando Timbuctù era il principale centro culturale dell’intera Africa e uno dei più importanti al mondo. Allora dei centomila abitanti della città, venticinquemila erano studenti: nelle centottanta madrase e nelle università si studiava ogni campo del sapere, dalla medicina alla teologia passando per la geometria e la filosofia. La sapienza dei dotti di Timbuctù era leggendaria e da tutto il mondo islamico arrivavano allievi e uomini potenti per apprendere e chiedere consigli. «Ci sono qui grandi quantità di dottori, giudici, religiosi e uomini istruiti che sono magnificamente mantenuti dai re, che pagano per le loro spese e i loro stipendi. E i berberi portano manoscritti e libri che vengono venduti per più denaro di qualunque altra mercanzia», scriveva il commerciante e cartografo Leone l’Africano durante una visita nella prima metà del Sedicesimo secolo.
Il centro Ahmed Baba è lo scrigno che conserva le vestigia di tutto ciò: nelle bacheche aggredite dalla polvere del deserto risplendono biografie di Maometto scritte in caratteri marocchini, Corani del Tredicesimo secolo riccamente decorati, testi illustrati di ottica, copie dei trattati di Avicenna sulla circolazione del sangue, testi e commenti di Averroè alle opere di Aristotele. In altre stanze ci sono le missive sul commercio del sale e dell’oro e quelle diplomatiche fra le cancellerie del tempo. «È un tesoro di inestimabile valore: questi scritti sono unici al mondo. In Europa si pensa sempre che l’Africa abbia solo una storia orale, questi testi dimostrano che c’è anche una cultura scritta, e che spazia dalle scienze islamiche tradizionali alla meccanica, all’astronomia, alla medicina e alla matematica», spiega Abdelaziz Abid, responsabile per l’Unesco del programma di restauro e conservazione dei manoscritti di Timbuctù. [...]
«Timbuctù era il centro di una cultura mobile e nomade», spiega Abid. «La gente viaggiava fin qui per seguire i migliori dottori del tempo. Arrivavano carichi di libri e magari poi li rivendevano al mercato per vivere e pagare gli studi: era il luogo dove le scienze si incontravano e si mischiavano. Speriamo di far rivivere in piccola parte questa magia su Internet, perché non vada del tutto perduta e anche chi non può arrivare fino a Timbuctù possa goderne».
Nel cortile dell’Ahmed Baba l’antica magia di Timbuctù si sente ancora tutta: dopo una piccola pausa, i restauratori salutano chi è venuto a vedere il loro lavoro e tornano ad occuparsi dei libri. Ai viaggiatori non resta che uscire: tornando verso la città sulle strade sabbiose, l’epoca di Kanka Musa e dei suoi cammelli carichi d’oro appare ancora lontana, ma il mito di Timbuctù ha acquistato nuova luce.