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Che cosa ha da dire la modernità all’uomo sempre più solo e disperato?

di Francesco Lamendola - 18/10/2011







Nel suo romanzo «Fuoco fatuo» («Le feu follet»), del 1931, Piere Drieu La Rochelle si è ispirato ad un fatto realmente accaduto due anni prima: il suicidio dell’amico e scrittore surrealista Jacques Rigaut; in esso vengono narrate le ultime ore di vita di un aspirante suicida, Alain, distrutto dalla droga, dall’alcool e dal vuoto esistenziale.
Il regista Louis Malle ha trasposto il romanzo sullo schermo cinematografico con un film dallo stesso titolo, girato nel 1963 e interpretato da un efficace Maurice Ronet, più che mai calato nella parte del dandy senza alcuna speranza, e dalla sempre brava Jeanne Moreau.
Sia il libro che il film si segnalano per la sobria, potente intensità drammatica della vicenda e per i dialogo secchi, disadorni, umanissimi e pur commoventi, proprio perché non concedono nulla ai facili effetti drammatici e non salgono mai sopra le righe; tanto che alcuni critici vi ravvisano una piccola perla dello scrittore francese prematuramente scomparso (lui pure suicida, nel 1945) e del regista che, pure, firmerà altri film notevoli e più famosi.
La disperazione, dunque, è al centro del dramma di «Fuoco fatuo»: una disperazione che deriva dal senso di estraneità, di inutilità, di radicale scollamento fra il protagonista, Alain, e la sua stessa vita e dalla palese impossibilità di rimetterne insieme i cocci, di rientrare nella sua pelle: unica possibilità, peraltro impraticabile, che il mondo sembra offrirgli in alternativa alla decisione di por fine volontariamente ai suoi giorni.
Quella di Alain, sonnambulo lucido per le strade di Parigi, alla ricerca di una introvabile ragione per continuare a vivere, è  una storia esemplare della condizione dell’uomo moderno; una storia, a suo modo, terribilmente, ferocemente semplice.
La malattia sottile e poco visibile, ma micidiale, della disperazione s’insinua come una serpe sotto la corazza, apparentemente così forte ed efficiente, dell’uomo moderno e lo morde al cuore, senza lasciargli alcuna possibilità di scampo.
Sempre più solo e disperato: tale è la condizione dell’uomo moderno; un uomo impreparato davanti ai distacchi, alle malattie, alla morte; un uomo che non riesce più a trovare la forza per difendersi dai ritmi spietati e dalle logiche impersonali della società consumista.
L’altro giorno un operaio di cinquantatre anni rimasto senza lavoro, in un paese a poche decine di chilometri da qui, ha sparato alla madre ottantacinquenne e poi si è tolto la vita, con lo stesso fucile col quale aveva compiuto il delitto: dopo due tentativi sventati da un cugino, al terzo ci è riuscito, appoggiandosi la canna dell’arma sotto il mento.
Un fatto di cronaca nera come ne accadono sempre più spesso, agghiacciante nella sua spoglia evidenza, disumano nella sua lucida follia; un fatto che ci interroga a fondo, che ci costringe a riflettere, a chiederci dove stiamo andando, che razza di società abbiamo costruito: se a misura nostra o a misura di un’economia disumana, che, alla fine, avvantaggia pochissimi e spinge nel baratro della disperazione i più.
La disperazione, peraltro, non ha solo radici economiche: le nuove povertà che avanzano, lo spettro della disoccupazione e dell’impossibilità di sbarcare il lunario, sono solo uno dei modi in cui si manifesta l’estrema fragilità dell’uomo moderno: fragilità complessiva, psicologica e spirituale, che invano i medici e gli psichiatri combattono a colpi di ansiolitici e di terapie antidepressive, perché quando uno si ammala è già tardi, troppo tardi e il suo equilibrio interiore era già andato in pezzi da chissà quanto tempo.
La società in cui viviamo è, nel suo complesso e nella sua essenza, depressiva: è una società in cui non ci sentiamo più a casa nostra, in cui non troviamo più punti di riferimento, certezze alle quali appoggiarci, né elementi di consolazione o di speranza: un grande buco nero che ingoia tutto e ci lascia svuotati, esauriti, angosciati.
Persone particolarmente fragili ne sono sempre esistite; ma oggi la fragilità sta dilagando a macchia d’olio, sta diventando una caratteristica comune dell’uomo in quanto tale: un ragazzo si toglie la vita per un rimprovero o per una bocciatura; una persona adulta, magari ancora giovane, cade improvvisamente nella depressione e non sa perché, si trova come in fondo a un pozzo nero e non vede il modo di risalire, né comprende come vi sia caduta.
Tutto ci spaventa, tutto ci appare incerto, problematico, difficile; perfino ciò che dovrebbe essere motivo di gioia si trasforma in ansia, in stress, in nevrosi: le vacanze diventano un incubo; il sabato serra diventa l’arena delle nostre infinte frustrazioni, dove ci si abbrutisce con l’alcool e la droga; perfino l’amore ci spaventa, i legami ci terrorizzano.
E nessuno ha una parola buona per noi, per la nostra solitudine, per la nostra disperazione: dovunque volgiamo lo sguardo nel panorama letterario e filosofico della modernità, non vediamo che sorrisi beffardi, profeti del nulla, maestri del paradosso: tutti d’accordo nel negare il libero arbitrio, anzi perfino l’unità dell’io; tutti ugualmente impegnati a distruggere, a irridere, a insinuare il morso del sospetto e tutti ugualmente privi di pietà e di compassione.
Freud con il suo inconscio, in base al quale la nostra vita viene determinata da esperienze infantili delle quali non conserviamo neppure il ricordo; Proust con le sue intermittenze del cuore, secondo le quali Marcel oggi ama Albertine, domani non l’ama più, dopodomani l’amerà ancora, ogni volta come se lui fosse un soggetto diverso; Pirandello con il suo uno, nessuno e centomila, con i suoi personaggi che si abbandonano a mille stranezze e incomprensibili beffe, fino a punto di uccidere e tradire «non si sa come», così, perché in un certo istante sono afferrati da una forza più grande di loro, senza una ragione precisa: sono tutti concordi nel rappresentare una condizione umana alienata, deresponsabilizzata, surreale.
Ma a partire da quando siamo diventati così?
I nostri padri, i nostri nonni, non erano così: e questo non è passatismo, è pura e semplice constatazione d’un fatto.
I nostri padri e le nostre madri non si ammalavano di depressione: conoscevano momenti di stanchezza, questo sì, magari anche di profonda pena e scoraggiamento; ma non andavano dal medico e tanto meno dallo psichiatra: chiedevano aiuto a Dio ed agli amici e pian piano, con fatica ma vittoriosamente, si rimettevano in piedi.
Che sia proprio questo il segreto: il tramonto di Dio e la scomparsa degli amici, dell’autentica dimensione dell’amicizia?
È per questo che un uomo o una donna, oggi, quando cadono in preda all’angoscia, è come scoprissero di essere rimasti soli e indifesi in una landa popolata soltanto da lupi e altre bestie feroci, senza un’anima alla quale rivolgersi per ricevere soccorso, senza un consiglio da chiedere e una parola buona da ricevere, se non medicinali fabbricati in serie e dubbie terapie psichiatriche a pagamento?
Al danno, anzi, si aggiunge la beffa: perché gli unici a farsi avanti prontamente, quando le onde nere della disperazione vengono a lambire la nostra coscienza, sono una folla di avvoltoi e di sciacalli, ben decisi a banchettare a nostre spese: falsi guru e santoni, agenti di sette oscure che garantiscono mirabolanti risultati e intanto chiedono il libretto degli assegni, pazzoidi seguaci di strani culti e, talvolta, autentici soggetti da manicomio, dai quali nessuna guarigione sarà mai possibile ma, semmai, un ulteriore aggravamento del male.
Il conforto dell’altro sesso, poi: è da tempo che sembra svanito, l’uomo e la donna riescono solo a ferirsi, a farsi del male, a darsi l’un l’altra il peggio di cui sono capaci; ciò che li fa sentire ancora più soli, ancora più miseri, ancora più disperati.
Così le donne di Alain: sono parecchie, ma nessuna che significhi qualcosa per lui; in tutte egli non cerca altro che la sicurezza economica, per seguitare in una vita oziosa e dissoluta.
Sia come sia: da quando l’uomo moderno, gonfio d’orgoglio per i risultati della scienza e della tecnica, ha volta le spalle a Dio e ha smesso di trovare tempo per l’amicizia, il suo equilibrio psicologico e spirituale si è incrinato ed è andato in frantumi: effimero padrone del pianeta, che sta distruggendo con uno zelo ed una tenacia degni d’una migliore causa, egli si aggira come un cieco, brancolando, nel giardino devastato del suo perduto equilibrio, della sua perduta serenità, del suo perduto senso della vita, inciampando continuamente nelle sterpaglie che ha coltivato insensatamente e nei sassi che lui stesso ha lasciato cadere, ad uno ad uno.
È penoso vederlo vagare così, ex re decaduto e ridotto alle proporzioni di uno squallido barbone, dalla barba lunga, dal volto sfatto e dal fiato che sa di alcool; lui che fino a ieri se ne andava in giro pieno di superbia, guardando dall’alto in basso ogni altra creatura, come se il mondo intero gli fosse stato dato per il suo esclusivo capriccio.
Non vi è dubbio che di disperazione si può anche morire, anzi, si muore certamente, prima o poi, come ammoniva Kierkegaard, grande profeta inascoltato di quasi tutte le follie che la tarda modernità avrebbe introdotto nella vita degli uomini, con la scusa del progresso.
Quello di Alain è un suicidio annunciato: un suicidio che gli amici, posto che fossero tali, non hanno saputo capire e che le donne da lui amate, ammesso che abbia mai amato qualcuno, non hanno saputo fermare; così come è capitato anche al povero Cesare Pavese, che, telefonando di qua e di là, in quella afosa camera d’albergo, per cercare un filo cui aggrapparsi nella sua disperazione, non è riuscito a trovare una sola voce amica nella città resa deserta dalle ferie d’agosto, una sola voce che lo tenesse ancora attaccato alla vita.
Dobbiamo dunque arrenderci al nostro destino e aspettare la morte, la morte che la disperazione ci porterà in dono: se non materialmente, certo spiritualmente?
Quanti di noi sono ancora vivi, quanti sono già morti; quanti hanno ancora un cuore di carne e quanti hanno già un cuore di pietra, terribilmente duro e insensibile?
E, se non vogliamo arrenderci, a che cosa possiamo ancora rivolgerci, a che cosa possiamo afferrarci, prima che la prossima ondata ci raggiunga e ci trascini via dal ponte della nave, scaraventandoci nel buio mare del nulla, da cui nessuno è più riemerso vivo?
Forse dovremmo incominciare la strada della nostra redenzione facendo un bel bagno di umiltà; riconoscendoci non solo piccoli e fallibili, ma anche tremendamente presuntuosi, tremendamente arroganti e, quindi, responsabili, in gran parte, della disperazione in cui ora la barchetta della nostra vita sembra sul punto di fare naufragio.
Abbiamo creduto in tante cose; in tutte: nella ragione, nella scienza, nel progresso; poi, via via, nel successo, nel denaro, nel potere; abbiamo creduto in troppe cose, in tutte; e alla fine, non abbiamo creduto più a niente.
Sazi di tutto, ubriachi di nulla, siamo scivolati nel cinismo e nel compiacimento della nostra stessa decadenza, della nostra abiezione: le abbiamo contemplate come dei prodotti estetici, con l’occhio esperto del corrotto intenditore; e le abbiamo giudicate di nostro gradimento.
Ci abbiamo speculato sopra, ci abbiamo ricamato romanzi, sagggi e opere d’arte: poveri dandy straccioni, incapaci di comprendere che stavamo assistendo allo spettacolo della nostra stessa rovina, della nostra stessa fine.
Umiltà, dunque, prima di tutto; e riconoscimento della nostra follia.
Poi, per seconda cosa: capacità di domandare aiuto, ma di domandarlo a chi veramente ce lo può dare, di cercarlo là dove effettivamente lo possiamo trovare: cioè al disopra di noi, al di sopra del cielo della nostra presunzione e della nostra disperazione così umane, troppo umane.
Infine, per terza cosa: volontà, energia, determinazione; fermo proponimento di rimboccarsi le maniche e ripartire daccapo, di riprendere la strada giusta là dove l’avevamo abbandonata.
La strada giusta esiste ancora, nessun mago dispettoso l’ha fatta scomparire: eravamo stati noi a volgerle le spalle, inseguendo false immagini di bene.
Le nostre impronte sono ancora lì, sul terreno, a segnare il punto dal quale abbiamo tralignato: testimonianza eloquente del nostro vaneggiamento.
Ma ora basta; abbiamo ascoltato fin troppo le lugubri sirene della disperazione: ora si ricomincia.