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Il declino linguistico come sintomo dell’assoggettamento culturale

di Elia Ansaloni - 03/02/2015

Fonte: L'interferenza


Non è necessario essere esperti di linguistica per comprendere che tra la lingua e la società intercorrono parecchi legami. Si può dire che una lingua si sviluppi in relazione allo sviluppo del popolo che ne è depositaria, quindi anche dei mutamenti che la società relativa a quel particolare popolo subisce nel corso della storia.

La stretta interconnessione tra il linguaggio e le attività umane si riflette nella costante evoluzione della lingua, paragonabile all’evoluzione delle specie viventi. In tal senso, il lavoro dell’etimologia si può considerare analogo a quello della biologia evolutiva e, nel caso delle lingue morte, della paleontologia. Ciò su cui intendo soffermarmi in particolare è l’evoluzione – o, per meglio dire, la degenerazione – a cui la lingua italiana sta andando incontro in questi anni.

Non è mia intenzione, specifico subito, criticare il ruolo primario che la lingua inglese ha incontestabilmente assunto a livello mondiale. Simili discussioni trascendono di gran lunga l’obiettivo di questo articolo e richiederebbero ampi quanto accurati studi di linguistica, storia ed economia. Mi preme invece evidenziare come le trasformazioni subite dalla lingua italiana siano un indice di quelle assunte dalla nostra società a causa dell’influenza straniera, in primis quella degli USA.

Che il nostro linguaggio abbia importato una miriade di termini inglesi, soprattutto negli ultimi decenni, è cosa risaputa e non sorprende nessuno. Sorprende invece come questi termini siano penetrati sempre più in quegli ambienti all’interno dei quali la lingua italiana dovrebbe essere tutelata, promossa e rafforzata. Anche le alte sfere della politica, dell’economia e dell’informazione parlano ormai un itanglese[1] che conferisce ai suoi locutori la stessa serietà e affidabilità della macchietta del cumenda milanese resa celebre da Guido Nicheli. Se fosse solo un problema di serietà, ci si potrebbe mettere anche il cuore in pace: sarebbe solo l’ennesima conferma di quanto l’attuale classe dirigente del Paese sia ridicola. In realtà, il problema è ben più grave e non riguarda solo l’estetica del linguaggio.

In un mondo sempre più interconnesso, è inevitabile che dei termini siano presi in prestito da altre lingue per esprimere determinati concetti in modo economico. Anche l’italiano, quando la sua rilevanza culturale era di gran lunga superiore a quella attuale, ha diffuso il proprio lessico in tutto il mondo, dalla pizza alle agogiche. D’altro canto, risulta molto più pratico per noi parlare di computer che non di calcolatori elettronici, o di Schadenfreude per esprimere appieno quella perfida felicità che scaturisce dalle sfortune altrui. Finché si tratta di concetti impossibili (o comunque molto difficili) da esprimere nel proprio linguaggio natio, non vi è nulla di inconsueto.

Il problema nasce quando dei concetti che potrebbero essere espressi in italiano senza alcun problema di comprensione, sono invece forzatamente tradotti in inglese come se la nostra lingua non fosse in grado di esprimere il concetto. Cos’ha in più un brand rispetto a una marca, la fashion rispetto alla moda o, peggio ancora, la spending review nei confronti di un taglio alle spese? La questione, a mio parere, si articola su due nodi fondamentali.

Il primo, il più semplice da individuare, è la confusione che un simile linguaggio genera. La chiarezza d’espressione è da sempre un’acerrima nemica di chi mira a nascondere e fuorviare. Un politico (diciamo pure un Presidente del Consiglio) che inserisce gratuitamente termini inglesi in un discorso che dovrebbe essere il meno ambiguo possibile fa pensare, più che al rappresentante di milioni di cittadini, ad un imbonitore dalla parlantina sciolta pronto ad appioppare qualche prodotto scadente, quando non pericoloso, al malcapitato che lo sta ad ascoltare.

Il secondo punto focale è come questo linguaggio rifletta il servilismo della nostra attuale classe dirigente nei confronti degli Stati Uniti; un chiaro esempio di imperialismo culturale che, pur non essendo violento quanto quello militare, è pericolosamente pervasivo. La nostra cultura nazionale è sempre più ridotta ad un ruolo di nicchia mentre la maggior parte di noi guarda solo film americani, ascolta musica americana, parla come gli americani, pensa come gli americani. Si toglie costantemente spazio alla cultura italiana come se, nonostante i suoi secoli di storia, non riuscisse a comprendere o ad esprimere dei concetti in realtà molto semplici. Il colmo è stato raggiunto di recente con l’adozione da parte della Marina Militare di un patetico slogan inglese, come a voler rimarcare il ruolo mercenario delle nostre forze armate svolto a favore degli USA nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq.

Invece di tutelare un linguaggio che, data la sua storia e il suo ruolo culturale, dovrebbe essere un motivo di vanto per tutti gli italiani, lo si infarcisce di termini anglosassoni per rendere ancor più facile la nostra dominazione da parte dell’altra sponda dell’Atlantico. L’equivalente, per intenderci, del buttare via un piatto di pastasciutta fatto con tutti i crismi per trangugiare dei vermicelli scotti conditi col ketchup, il tutto spacciato come “innovativo” e “giovanile”.

Le condizioni della lingua italiana sono quindi un sintomo della salute, di certo non buona, della società italiana. Non vorremmo dover arrivare alla morte dell’italiano per capire che anche la nostra società l’ha seguita nella tomba. Se qualcuno, tuttavia, pensasse che questo articolo sia troppo catastrofista, forse due semplici parole come “Very Bello” potrebbero fargli cogliere appieno la gravità della situazione.



[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Itanglese