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Abbandono

di Livio Cadè - 01/05/2022

Abbandono

Fonte: Ereticamente

La nostra società ha fatto del lavoro un idolo. È in fondo un culto paradossale. Se da un lato il lavoro pare offrire all’uomo emancipazione e libertà, dall’altro ne fa uno schiavo. Solo l’infanzia sembra protetta dalla necessità di svolgere un qualche mestiere. Il bambino gioca, non lavora, non si pone uno scopo né si chiede il senso di quello che fa. In questa leggerezza di intenti v’è una perfezione cui l’uomo maturo inutilmente tende. Se “l’eternità è un fanciullo che gioca”, il lavoro è la pesantezza del tempo che la mente ‘adulta’ trascina con sé.
Si dirà che un bambino può fare a meno di lavorare perché c’è chi provvede alle sue necessità, ossia chi lavora per lui. Ma questo vale, in altro modo, per tutti noi. Che sia il nostro lavoro a sostenerci e a garantirci l’esistenza è una mera illusione. In realtà nessuno sa su cosa effettivamente ci reggiamo. Quella combinazione di intelligenza, di volontà, di applicazione delle proprie facoltà, di caso, con cui ci arrabattiamo e ci guadagniamo da vivere, è un destino che non possiamo spiegare.
Questo appare ancor più chiaramente se osserviamo l’evoluzione della nostra coscienza, quel travaglio sotterraneo, segreto, che è in fondo l’opera più essenziale cui siamo chiamati. Fatica che non viene pagata ma che trova la sua retribuzione in sé stessa, secondo accordi segreti e a noi inaccessibili. Succede così che sia l’inconscio a svolgere il lavoro, mentre la coscienza l’assiste come un tale che passi pinze, bisturi, tamponi ecc. al chirurgo che glielo chiede, pur non sapendo quasi nulla dell’operazione in corso. Senza capire che è lei stessa a subire quel cruciale intervento.
Occorre dunque ridimensionare l’importanza della nostra volontà e dell’intelligenza, il cui unico vanto può essere di eseguire diligentemente gli ordini dell’inconscio. Credo che ognuno abbia avuto l’occasione d’avvertire la dipendenza del suo essere da questa Trascendenza che le dà indicazioni e compiti da svolgere. Forse la sente come una parte ignota di sé, o come una divinità. Alcuni la assecondano e, nei momenti del bisogno, le si rivolgono pregando. Altri le resistono, non si fidano o trovano umiliante chiederle aiuto.
Ho parlato recentemente di questo con tre amici. Il primo, scrutatore d’anime, mi obietta che l’idea di un Dio cui postulare favori e benefici è una tipica proiezione infantile. Un altro, nutrito di conoscenze teurgiche e iniziatiche, mi confessa d’aver più volte chiesto a Dio un segno tangibile della Sua esistenza, senza averne mai risposta. Un terzo mi dice d’inclinare ormai all’ateismo perché Dio ha deluso le sue speranze: il male trionfa, i giusti vengono perseguitati,  vi sono fame, malattie, guerre, i bambini muoiono ecc., ovvero viviamo in un mondo che appare assai più diabolico che divino.
In queste obiezioni risuona, anche negativamente, l’antico interesse dell’uomo per l’anima e per Dio. Questi sarebbero, secondo Agostino, gli unici due argomenti che val la pena conoscere. Di fatto, anche chi nega l’esistenza dell’uno e dell’altra, non può farlo senza entrare in conflitto con una parte di sé, contro qualcosa che intimamente lo governa. È il desiderio dell’Io e della razionalità di occupare il regno dell’Inconscio e illuminare i suoi lati oscuri.
Il numinoso è un retaggio che l’uomo nascendo riceve dai suoi antenati, attraverso una catena di pensieri che lo lega a profondità remote e tenebrose. È ingenuo pensare che ciò dipenda da strutture politiche o ecclesiastiche che sfruttano la credulità umana a loro vantaggio. Tali strumentalizzazioni esistono, ne è piena la storia, ma restano in fondo marginali rispetto al mistero religioso che abita il cuore umano.
Non si tratta di quell’apparato di credenze, superstizioni, timori e speranze fantastiche, su cui può facilmente far leva il Potere per dominare un popolo, ma di una fede a priori, intuizione di realtà non razionalizzabili. È in questo sentimento di trascendenza dal mondano che si trovano le ragioni della nostra libertà. Per questo la società moderna sta cercando di cancellare dal mondo ogni tensione mistica. L’uomo potrà così diventare un efficiente schiavo bio-tecnologico cui attengono solo funzioni di calcolo e di lavoro.
Se la religione sopravvivrà sarà solo per la sua utilità sociale, per la sua capacità di addomesticare e addormentare le coscienze. Le persone colte parleranno dell’anima e di Dio come di problemi astratti, ne faranno dissezioni come di cadaveri culturali, testimonianze di una mentalità arcaica, ancora legata a fantasie prescientifiche. Come noi, esseri razionalmente evoluti, sorridiamo oggi di quelle popolazioni più sagge di noi che vedevano ovunque, nelle pietre, nell’acqua, nel tuono, nelle stelle, la presenza di spiriti e divinità.
Ma l’uomo veramente religioso sa che l’idea dell’anima, di Dio, premono alla porta del cuore per entrarvi come in una casa in cui abitare e vivere e far figli, non per uscirne e dissiparsi in chiacchiericcio accademico, in quei discorsi che privilegiano l’approccio mnemonico e la citazione. Non di rado mi imbatto in libri ‘spirituali’ di fronte ai quali mi chiedo: dov’è qui la vita di chi scrive, dove si è nascosta?
Il bambino impara a pregare con naturalezza, a parlare con Dio e a esporgli fiduciosamente i suoi problemi. Non sospetta ancora che le inesorabili leggi della vita gli riserveranno tante frustrazioni e disinganni. Per la mente cresciuta, messa alla prova e fattasi razionale, pregare diventa invece come chiedere che due più due non faccia quattro. L’ipertrofia della ragione, come quella della moralità o della cultura, impedisce all’uomo il contatto con l’anima. Oppure lo porta a credere in Dio per convenienza, “come il nibbio segue la donna che porta trippa e salsicce”.
La preghiera può sembrare così ad alcuni la velleità di sovvertire un ordine cosmico, ad altri un tentativo di condizionare la volontà di Dio. Forse per questo Lemesle dice che “la preghiera è un’empietà”. Diventa un atto da cui astenersi per scetticismo o, paradossalmente, per scrupolo religioso. Lessi di un anacoreta che aveva ristretto le sue orazioni quotidiane al Pater noster. Poi, trovando superflue tutte quelle parole, si limitò a dire “fiat voluntas tua”. Infine, anche quello gli parve un di più, e preferì il silenzio.
Una certa tradizione metafisica può spingersi anche oltre, affermando che l’unica realtà è Dio. Quindi, pregare per qualcosa che non è Dio è volere il nulla e, se la preghiera viene esaudita, si ottiene il nulla. Ma che relazione può avere una simile idea con quello che concretamente viviamo, desideriamo e sentiamo? Sono per noi belle astrazioni, concetti che galleggiano sulla superficie della mente, da discutere piacevolmente in un salotto, ma estranei alla profondità del Fatto.
Il Fatto è che io sono. Non ho alternativa. Non posso scegliere tra il buttarmi nella voragine dell’essere o il restar sospeso sul ciglio del precipizio. Sono ‘gettato’, direbbe qualcuno, spinto forse dal mio stesso desiderio di cadere nel mondo e farne esperienza. E se cerco di aggrapparmi a qualcosa – l’amore, il lavoro, lo studio – tutto quello cui mi attacco precipita con me. Non posso né capire né salvarmi. Se domando, l’abisso ripete le mie domande; se prego, mi rimanda l’eco della mia preghiera.
È facile vedere come questo pregare sia legato alla mia mente calcolante e non riesca a staccarsene. Non conosce il disinteresse della contemplazione o dell’adorazione. Resta isolato in sé stesso, senza mai trovare quel punto di intersezione, nascosto in qualche anfratto poco conosciuto del cuore umano, in cui l’io e Dio si toccano. È il luogo dell’abbandonarsi, dell’arrendersi. Ma occorre di solito una circostanza eccezionale per accorgersi della sua presenza.
Si può rivelare nel momento in cui il male mi opprime e ogni rimedio, ogni ragione umana è impotente. Che mi importa allora di quel che la ragione mi dice sulla vanità del pregare? Quando il mio essere naufraga nel dolore, nell’assurdità, la preghiera smette d’esser calcolo. V’è in questa preghiera un’assenza di volontà, un ‘lasciarsi’ nel quale Dio stesso resta preso come in un vortice.
Di conseguenza, nessuna di queste preghiere, nate dall’abbandono, resta inevasa. Dio è, per così dire, costretto a rispondere. Quel che ci accade, quel che sentiamo, mostra allora un inconfondibile segno divino, e noi lo accettiamo, anche se frustra i nostri desideri. Ma finché resta un’ombra di intenzione, questo è impossibile.
Il caso limite è la morte. Non possiamo chiedere a Dio di non morire. La morte è il cuore stesso dell’abbandono. Questo è evidente quando perdiamo le persone che più amiamo. Ci troviamo imprigionati nella contraddizione di un amore che tende all’eterno ma al quale la morte pone un limite. L’ampiezza del nostro dolore non dipende allora dalla percezione di una fine, ma da quella di due abissi che si contrappongono: il presentimento d’eterno che è in noi e la caducità di ogni cosa. La nostra anima è stritolata dalla loro frizione, come il chicco di grano sotto la ruota della macina. Solo se guardiamo più a fondo, vedremo che la caducità è, per così dire, infettata dall’eternità, è la forma con cui questa si esprime.
Questo è evidente nella memoria, miracolo così comune da passare inosservato. Tutto ciò che accade lascia una traccia, una presenza. Non semplicemente la reminiscenza consapevole che ne abbiamo, ma la sua persistenza viva dentro di noi e nell’universo, anche quando l’abbiamo da tempo dimenticato. Nell’idea del karma si esprime emblematicamente questo rapporto tra le azioni effimere del corpo e dell’anima e il loro perdurare nel tempo, vita dopo vita, come ‘forze-idee’ che, essendo radicate in uno spirito indistruttibile, continuamente fruttificano. È la memoria a rivelarci come il senso dell’esistere stia in un ininterrotto processo di apprendimento.
Perciò, in punto di morte, tutta la nostra vita può scorrerci davanti agli occhi come un riepilogo di ciò che abbiamo imparato, e mostrarci che nulla va perduto. Quando si apre l’occhio interiore siamo testimoni di una Presenza che trascende il tempo. È un istante eterno, in cui passato e futuro, unione e distacco, come due specchi contrapposti, proiettano la loro immagine all’infinito, oltre ogni nascita e ogni morte.
Il mio amico, conoscitore di anime tormentate, classificherebbe queste idee come fantasie consolatorie, meccanismi di difesa dall’angoscia, colpevoli di quello stesso peccato d’astrazione che volevo evitare. È un problema di sincerità con sé stessi. Il rapporto con l’Oltre è intimo ed essenzialmente non comunicabile. Personalmente, non mi spaventa la morte, né l’idea di avere, come individuo, una fine. Accetterei, morendo, di “venir riassorbito e perdermi nella memoria di Dio, del Cosmo”, come dice il mio amico.
Solo, non vedo come sia possibile una frattura tra ‘la memoria di Dio, del Cosmo’ e la mia. Infatti non possiedo alcuna coscienza. Tutto ciò che penso, vedo, ricordo, non potrei pensarlo ecc. se non in Dio, nella trascendenza in cui ha radice il mio essere. Io e Dio sono solo nomi che si sostengono a vicenda per indicare qualcosa di innominabile. Se cerco di legarmi alle cose è perché mi isolo nella contraddizione del mio nome, cioè di un io separato da Dio. Per questo non vedo che libertà e necessità, sforzo e grazia, istante ed eternità coincidono, e ne faccio realtà separate.
Nell’abbandono si supera la divisione. Questo non deve far pensare a quegli stati di dipendenza simbiotica che tanto preoccupano i teorici dell’io e del suo maturo autodeterminarsi.  Né evocare i fantasmi di una Grande Madre che ci riassorba nel suo utero caldo e smisurato. L’abbandono non è una fuga. Comporta rischi e sacrifici. Il ‘lasciarsi andare’ coincide con un ‘mollare la presa’ dell’io sul mondo, è una coraggiosa fiducia nell’essere.
Tuttavia, è vero, v’è in questo abbandono qualcosa del neonato, del bimbo attaccato al seno materno, che si nutre e non fa domande. Non bisogna quindi chiedere: come abbandonarsi? Questo ci riporterebbe alla mente separativa e calcolante. Volere l’abbandono, il distacco, è pura arroganza. Neppure dobbiamo farne una dottrina, un sistema. L’abbandono è l’antitesi del controllo. Ricorda l’addormentarsi. «Mentre il sonno mi prende, il libro mi scivola di mano», scrive un poeta cinese.
L’abbandono ci prende così, per un grande dolore, o un improvviso stupore. Il libro dell’io ci scivola di mano e per un po’ non possiamo più dire chi siamo. Ma è un sonno paradossale, in cui si resta vigili e attivi. È uno stato che emerge spontaneamente, senza intenzione, quando il pensiero cede le sue armi al destino, invece di usarle contro di lui. Capiamo che c’è Qualcosa di immenso che lavora per noi e riscopriamo la nostra fedeltà e devozione a questo Lavoro, il cui scopo è renderci liberi.
Solo allora possiamo veramente inchinarci, ‘piegare l’albero dell’io’ e pregare. Sapendo che se la nostra preghiera non viene accolta non è per cinismo, per sordità, o perché non v’è nessuno a riceverla, ma perché esaudire quel nostro desiderio avrebbe l’effetto di intralciare il Lavoro, di compromettere l’operazione chirurgica, i tagli, le suture ecc. che lo Spirito sta praticando alla nostra coscienza.
In una società idolatra, votata all’affermazione di sé, è raro sentire la voce dell’abbandono. Difficile la resa, cedere senza ribellarsi a questa gravità metafisica che ci attrae verso un fondo ignoto, forse al centro di noi stessi, verso il nostro Puer aeternus. Privati dei nostri familiari strumenti di lavoro, dei vari attrezzi del pensiero, sentiamo disfarsi questo io che fa, che cerca, che tesse ragnatele di parole, che si lamenta perché Dio non gli risponde o non gli fa un cenno, senza capire che il silenzio è la risposta, l’unico segno sicuro.