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Agricoltura sinergica e biodinamica

di Enrico Caprara - 18/03/2018

Agricoltura sinergica e biodinamica

Fonte: Il giornale del Ribelle

Il XIX secolo è un periodo cruciale nella storia dell'Occidente. L'orientamento scientifico-tecnico, dopo essersi messo a punto nei due o tre secoli precedenti, si va ormai nettamente attestando, e comincia a realizzare cambiamenti grandissimi nel modo di produrre e di vivere. Uno di questi profondi cambiamenti si ha nell'agricoltura. Viene introdotto, come in tutti gli altri settori economici, l'uso di macchinari: trattore, mietitrice, trebbiatrice... In particolare, riguardo l'agricoltura, si cominciano ad usare sostanze prodotte chimicamente come fertilizzanti del terreno. Nel 1842 venne aperta una fabbrica di superfosfati nel Kent, e in seguito i superfosfati si diffusero in buona parte dell'Europa. Negli anni 1860 si cominciarono a estrarre sali di potassio dalle miniere di Stassfurt in Germania. Negli anni 1880 le fabbriche Thomas-Gilchrist usavano a tale scopo gli scarti della produzione di acciaio. Verso la fine del secolo il fosfato di ammonio, un sottoprodotto della fabbricazione di gas, veniva usato in molti paesi come fertilizzante.

 

Si manifestò tuttavia in breve tempo una tendenza di reazione. Durante gli anni '20 del secolo XX viene elaborata, nell'àmbito del Movimento Antroposofico fondato da Rudolf Steiner, una modalità di coltivazione detta biodinamica. Steiner era stato in gioventù uno studioso di Goethe, e ne aveva ripreso la considerazione della Natura non materialistica e meccanicistica. Le teorie biodinamiche contestano perciò l'idea che per avere un terreno fertile sia sufficiente determinare isolatamente quali sostanze le piante utilizzano, e fornirle al terreno come prodotti sintetici, ma sia necessario invece un equilibrio vitale complessivo. L'agricoltura biodinamica prevede perciò tempi di riposo del terreno, compatibilità delle operazioni agricole con le fasi lunari, eccetera. Negli anni '30 il giapponese Masanobu Fukuoka, una particolare figura di agricoltore-filosofo, comincia a mettere a punto un tipo di agricoltura che pratichi il minor intervento possibile, in linea con la sensibilità del Taoismo e del buddhismo Zen. In particolare Fukuoka - che considera le proprie idee un ritorno all'agricoltura degli antichi villaggi giapponesi - giudica del tutto sbagliato lavorare il terreno rivoltandolo: così facendo si distruggono quegli insetti e batteri che lo rendono fertile, al che bisognerà ovviare con dosi sempre più massicce di fertilizzanti, inevitabilmente chimici; ad un certo punto si arriverà alla morte del terreno. Con decenni di lavoro Fukuoka raggiunge ottimi risultati: rendimenti superiori a quelli dell'agricoltura convenzionale moderna. Alla fine degli anni '70 le idee di Fukuoka si diffondono in Europa, che ha però condizioni climatiche e geologiche diverse dal Giappone. Nel corso degli anni '80 un'agricoltrice spagnola, Emilia Hazelip, cerca di applicare i principi fondamentali di Fukuoka alla situazione europea; nasce così l'agricoltura sinergica, secondo la quale, tenendo opportune modalità di coltivazione (non monocolture ma "consociazione" di diverse specie, terreno sempre coperto con pacciamatura di paglia, foglie o altri materiali naturali) le piante complessivamente restituiscono al terreno quel che prendono, per cui al limite non servirebbe nessuna fertilizzazione.

 

Lo svolgersi degli ultimi decenni, peraltro, ha mostrato quale sia la profondità di portata della "questione agricola". Con il nuovo secolo abbiamo constatato come la classe dominante globalizzata possa cercare di mettere alle strette, senza neanche più infingimenti e parvenze, la classe dominata. Il fatto che la produzione agricola sia sostanzialmente nelle mani di una élite industriale-finanziaria non genera solo problemi ambientali, di qualità e sanità del cibo. C'è in realtà ben altro. C'è di mezzo la libertà e la schiavitù. Quando le popolazioni perdono ogni contatto e conoscenza con la produzione del cibo che mangiano, e sanno solo andarlo a comperare, sono di fatto delle popolazioni di schiavi. La speculazione finanziaria può far aumentare quando vuole e quanto vuole i prezzi delle derrate alimentari. Qualche prova in questo senso è già stata fatta. La necessità di una ripresa del controllo sulla nostra personale economia è una questione generale, che ha nell'agricoltura un aspetto fondamentale. La possibilità di un'agricoltura condotta da piccole comunità locali in maniera indipendente, la possibilità di una agricoltura autarchica, poggia su tre circostanze particolarmente: la fertilità del terreno, gli attrezzi, i semi. Per quanto riguarda il terreno, si tratta di averlo fertile senza ricorrere a sostanze chimiche, le quali, oltre le diverse negatività, dovrebbero inevitabilmente essere comperate presso il Sistema di produzione industriale. Questo obiettivo si può realizzare ponendosi, innanzitutto, in una prospettiva etica e non semplicemente tecnica. Perciò praticando la minima alterazione come suggerisce Fukuoka, e restituendo al terreno tutto ciò che si è preso, ovvero "compostando" (cioè facendo decomporre, per utilizzare poi come concime) le piante estranee asportate e i residui delle coltivazioni, gli scarti e avanzi della cucina, le proprie deiezioni. Quest'ultima forma di recupero magari potrà lasciare perplessi e un po' schifati: è invece estremamente importante, oltre che appunto per restituire tutto quel che si è preso, anche per un aspetto fondamentale di capacità d'indipendenza. L'essere umano tecnicizzato e urbanizzato di questa civiltà non saprebbe neanche "fare la cacca" se non ci fosse il Sistema che gliela fa fare, approntandogli dispositivi per cui, con uno scroscio d'acqua girando una manopola, gli escrementi vengono fatti sparire non si sa bene come e dove. Ma le dipendenze si pagano care. Certo un "gabinetto a compostaggio" in un appartamento urbano sarebbe fuori luogo, ma per un insediamento rurale è una soluzione anche molto pratica, ed è sostanzialmente ciò che si è sempre fatto. Un'altra questione fondamentale è quella delle attrezzature. Essere indipendenti significa essere in grado di produrre da sé i propri attrezzi. Cosa non poi di difficoltà insolubile: gli attrezzi fondamentali per la coltivazione consistono di ferro fucinato e legno. Mettiamoci pure qualche piccola fusione in bronzo o in ottone. La scelta di utilizzare solo fondamentali attrezzi manuali potrebbe apparire una scelta "pesante", portatrice di fatica inutile. Bisogna però tener presente che ci si può limitare, così, alla coltivazione del piccolo appezzamento per il proprio fabbisogno. Le macchine invece bisogna comprarle e mantenerle. Per avere il denaro necessario, bisognerà coltivare di più e vendere. Si finirà, probabilmente, a coltivare un piccolo spazio per i propri bisogni, e uno spazio molto grande per avere il denaro con cui pagare le macchine, che servono più che altro a condurre delle coltivazioni per pagare le macchine stesse... Infine, l'importantissima questione dei semi. Se si vuole impedire che ci si coltivi da sé i propri alimenti, e costringere a comperarli, una via è quella di impedire la comune disponibilità di semi - perlomeno di semi capaci effettivamente di germinare. Un'idea che probabilmente da qualche parte si sta cullando. Vediamo, per esempio, cosa succede con un particolare tipo di grano denominato "triticale". Alla fine del XIX secolo si cominciò a sperimentare un'ibridazione tra frumento e segale (generi Triticum e Secale, da cui il nome triticale). Negli anni '30 del novecento si scoprì che i chicchi, ovvero i semi, del triticale - ibrido per cui sterile - se trattati chimicamente con della colchicina, un alcaloide derivato da una pianta, realizzavano un mutamento genetico per cui diventavano fertili e si potevano quindi riseminare. La coltivazione del triticale cominciò a diffondersi, e si sta diffondendo attualmente anche in Italia. Con questo cereale - che si vorrà far diventare, magari, il cereale per eccellenza - succede perciò che i semi, inevitabilmente alla portata di tutti, non sono però utilizzabili per seminare e coltivare, se non trattati con una tecnologia complessa disponibile solo all'àmbito del Potere.

 

Una volta che si fosse, ad ogni modo, ben predisposta una propria organizzazione di agricoltura autarchica, si avrebbe comunque da fare i conti per certi aspetti con la situazione generale e con il Sistema. Sia da un punto di vista giuridico-istituzionale, perché quel territorio e quegli abitanti sarebbero comunque sottoposti al Diritto e alle normative specifiche; sia da un punto di vista meramente di fatto, perché le piogge acide, provocate dalla civiltà industriale, cadono poi ugualmente sull'insediamento agricolo industriale come su quello autarchico. È una questione certamente assai delicata, poiché il Potere (che ha il Sistema come strumento) si realizza proprio nella inevitabile dipendenza da esso. Qualsiasi tentativo di sottrazione alla dipendenza costituirebbe perciò un attentato al Potere. Non stupirebbe che gli insediamenti rurali (se non imprese industriali agricole o turistiche) venissero quanto più possibile ostacolati ed impediti, magari addirittura con la motivazione di una "salvaguardia del territorio naturale". Si tenderebbe così a costituire una popolazione pressoché interamente urbanizzata, cioè in una condizione di vita totalmente dipendente dalla fornitura di merci industriali. Al Potere non importa in realtà "salvaguardare" nulla, se non il proprio potere. Tutti i problemi ambientali, climatici, sono in realtà graditissimi al Potere. Essi impongono sempre più sofisticati dispositivi acquistabili come merci, rafforzano quindi la sottomissione alla Tecnica e al Denaro, cioè al Potere.

 

L'inevitabile rapporto che un insediamento autarchico debba sostenere col Sistema può, io ipotizzo, venire condotto secondo tre opzioni a diversi livelli di confronto. La prima opzione è per una fase in cui il Sistema mostri "la faccia buona": a volte gli conviene apparire tollerante, magnanimo. In questo caso si potrebbe portare avanti la prospettiva autarchica in una condizione di reciproco formale riconoscimento privo di conflitto. Nella consapevolezza, naturalmente, che si tratta di apparenze e contingenze, da utilizzarsi con giusta opportunità. La seconda opzione procede da necessità di difesa che vengono a imporsi. Necessità di garantire il proprio àmbito territoriale, le proprie modalità di esistenza, ma anche delle condizioni più generali - ambientali, climatiche... - almeno accettabili. Questa difesa e questa conflittualità possono condursi opportunamente con adeguati coordinamenti e alleanze, anche a livello internazionale. La situazione, infine, potrebbe essere tale da richiedere la terza opzione. Il Potere utilizza una raggiunta abnorme capacità tecnica per ricercare la sottomissione forzata e onnipervasiva, il controllo e l'alterazione totale, la fine dell'esistenza propriamente umana e dell'autenticità delle cose. Ma quando arrivino ad esserci le possibilità tecniche per distruggere diecimila volte il pianeta, non dovrebbe essere impossibile anche a degli estranei al Potere disporre della possibilità tecnica per distruggere una volta il pianeta. Una volta è comunque sufficiente. La cosiddetta Fine del Mondo può spaventare solo i materialisti. La sussistenza del Mondo e dell'Essere umano è un fatto non semplicemente umano. Ciò che deve salvarsi si salverebbe comunque. Se la "fine del mondo" deve esserci, è meglio sia prodotta dalle forze del Bene piuttosto che da quelle del Male.