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Chi è Mario Draghi? È un oligarca occidentale, come molti altri capi dell’Europa

di Marcello Veneziani - 02/07/2022

Chi è Mario Draghi? È un oligarca occidentale, come molti altri capi dell’Europa

Fonte: Marcello Veneziani

Chi è Mario Draghi? È un oligarca occidentale, come molti altri capi dell’Europa. La macchina propagandistica nostrana, non diversa da quella russa, definisce oligarchi i potenti russi mentre definisce gli oligarchi italiani i “migliori” (in latino “optimates”). Loro sono dominati dai “pessimi”, noi dagli “ottimi”, il governo dei migliori: classificazione ideologica, è evidente. In realtà domina nel mondo da Occidente a Oriente “la ferrea legge dell’oligarchia”: ogni regime, incluse le democrazie, è in realtà dominato da un ristretto gruppo di potere che non viene eletto ma cooptato (o al più si fa eleggere stando già al potere) e decide le sorti di un paese o di un’Unione.

Lo scopritore moderno di questa legge è un tedesco che volle farsi italiano. Si chiamava Robert Michels ed è conosciuto come uno degli esponenti neo-machiavellici della teoria delle élites, insieme a Giovanni Mosca e Vilfredo Pareto. Michels era socialista, poi tramite il sindacalismo rivoluzionario e l’esperienza della realtà, sposò il nazionalismo e infine diventò fascista. Ma fu fascista degli albori, prima che Mussolini andasse al potere. Era arrivato in Italia già nel 1907, anche con l’aiuto del suo amico Luigi Einaudi e poi vi tornò a insegnare nella famosa scuola di Perugia, gran cenacolo di studi politici e sociologici.

La sua opera capitale, del 1911, ora ristampata da Oaks, è la Sociologia del partito politico. Nella sua incisiva introduzione, Gennaro Sangiuliano sottolinea il realismo di Michels, che lo accomuna agli altri elitisti ed evidenzia il paradosso dei movimenti politici egualitari e democratici che sono dominati da un’oligarchia “numericamente piccola e chiusa all’esterno” che mette davanti al fatto compiuto gli associati “in un contesto di segretezza, senza alcuna trasparenza”. Il suo ricambio avviene per cooptazione, in modo da favorire “gli elementi più fedeli, e a volte servili, a discapito di chi pensa con la propria testa”. Ma l’effetto più deleterio, nota Sangiuliano, non è interno ai partiti ma sulla società intera, come possiamo notare oggi: “Le oligarchie proliferano, stroncano ogni forma di dissenso e liquidano come una forma di pazzia chiunque la pensi diversamente da loro”. Gli ultimi anni sono stati segnati da una regressione e da una degenerazione, con l’instaurarsi di “una sorta di rinnovata Inquisizione che afferma di essere depositaria della verità”. Le oligarchie sono funzionali a quel che definiamo La Cappa. 

Cosa opporre alle oligarchie? Non le democrazie che sono oligarchie mascherate, ma altre forme di rappresentanza politica che valorizzino la partecipazione popolare di base e la decisione di vertice. Michels che fu allievo di Max Weber, si appella al capo carismatico (che poi identificherà in Mussolini) ma a differenza del suo maestro ritiene che non debba venir fuori dal Parlamento bensì da un rapporto diretto col popolo. Col senno di poi, con l’esperienza del Novecento, dovremmo piuttosto cercare nuovi modelli. Quali? La circolazione delle elites, per esempio, per restare tra Pareto e Mosca. Qualcuno ritiene che élite e oligarchia siano la stessa cosa, ma le élites sono l’aristocrazia di una società legittimata dal confronto libero e civile, dall’organicità ai popoli e alle loro culture, civiltà e tradizioni e dalla selezione aperta sul campo, mentre le oligarchie sono poteri chiusi, autoreferenziali e autolegittimati che rispondono a interessi non generali. La differenza, per dirla in breve, è che le oligarchie sono governi di pochi nell’interesse di pochi, le aristocrazie sono governi di pochi nell’interesse di molti. La democrazia, intesa come governo del popolo nell’interesse generale, non esiste. Il buon governo prevede che sia attivo l’ascensore sociale e politico per reclutare le élites, non attraverso la pura cooptazione ma il ricambio sul campo. Particolarmente interessante per il nostro oggi è l’attenzione che Michels dedica all’opposizione che quando vince tende ad “amalgamarsi” col potere preesistente, se non ad essere assorbita, asservita e svuotata, abbandonando “le masse” da cui ha tratto forza e legittimazione. Un monito… Le rivoluzioni a suo dire diventano tutte conservatrici quando vanno al potere e gli stessi progressisti al potere si fanno conservatori. Non aveva invece previsto Michels l’ipotesi inversa, oggi molto più attuale: cosa succede invece ai conservatori quando vanno al governo in un contesto di potere progressista? 

Pur avendo aderito al fascismo, Michels rappresentò anche in sede internazionale, l’idea di un movimento proteso alla pace e nemico di ogni razzismo. Michels morì nel 1936 e non fece in tempo a vedere il tragico seguito su ambedue i temi. 

Tra le sue opere è significativa pure un’indagine sulla felicità in relazione all’economia e segnatamente al movimento operaio (riproposta da Oaks, L’economia della felicità). Michels smentiva che l’economia fosse una “scienza triste” come diceva Thomas Carlyle, propedeutica a una filosofia da maiali, “pig philosophy”. Ripartendo da Lodovico Antonio Muratori che a metà settecento scrisse un trattato Della pubblica felicità, Michels rovesciava il produttivismo capitalista ma superava anche il marxismo, ritenendo che lo scopo finale dell’economia fosse “accrescere per gli uomini la possibilità di vivere contenti”, concludendo “l’uomo è assetato di felicità, anche quando è pessimista”. Fu un precursore degli indicatori di qualità della vita non legati solo al prodotto interno lordo, ma alla felicità.

Michels fu travolto dal secolo infelice in cui visse e dalla fama imperdonabile di fascista: stroncato da liberali e marxisti, a partire da Gramsci, fu rimosso e dimenticato. Ma oggi non capiremmo la degenerazione della nostra democrazia, e il governo dei migliori, senza la sua “legge ferrea dell’oligarchia”.