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Chi non ha cultura del vero lavoro non può pretendere di governarci

di Claudio Risé - 05/05/2020

Chi non ha cultura del vero lavoro non può pretendere di governarci

Fonte: Claudio Risé

Può darsi che l'Italia di oggi e il governo Conte vengano studiati negli anni a venire; non però per le ragioni che dice Giuseppi: prontezza di intervento e innovazione nei metodi. Piuttosto per un altro motivo, molto semplice. Da due mesi l'avvocato ci inonda di Decreti che ci comunicano che cosa ci è graziosamente concesso di fare, cosa poi dobbiamo fare assolutamente, e cosa invece è del tutto proibito. Non è però chiaro invece cosa faccia per noi italiani lui e il suo governo, a parte i proclami. Che risorse ci ha fornito per affrontare la situazione, al di fuori delle confuse e parziali norme, poi corrette in continuazione nei giorni e settimane successive? Non si tratta solo della situazione sanitaria (già non semplicissima) ma di quella esistenziale: lavoro, affetti, risorse, (a parte gli "affetti stabili", richiesti per decreto). Perfino un democratico come il professor Gustavo Zagrebelsky ha segnalato, (nella nuova Repubblica a direzione Molinari), gli aspetti patologici e "stupefacenti" dei decreti. Questo Presidente, come ci aiuta poi a vivere nel paese che ha messo sottochiave? Cosa conosce del governo, al di là della passione poliziesca per la proibizione?
Altri governi democratici europei appena sospeso il lavoro hanno stabilito le indennità per quelli che perdevano lo stipendio, e alla fine del mese le hanno distribuite; prima di dire ai vecchi di stare a casa hanno predisposto il servizio di chi dal giorno seguente avrebbe portato loro il cibo, e così via. Che è poi il normale lavoro dei capi (come vorrebbero essere i giuseppi): ti dico cosa devi fare, e poi faccio in modo di farti sopravvivere, non passo a fare un altro editto con relativi obblighi per altri "sudditi". Questo però lo sanno i capi che hanno esperienze di lavoro. Dal confinamento italiano, con successivo smarrimento del come fare a uscirne vivi, una cosa invece appare chiara: questi del mondo del lavoro, purtroppo, nulla sanno.
Il lavoro però è il pane dell'uomo, e non solo perché gli permette di procurarselo: ma perché gli fornisce i valori necessari ad affrontare la vita. In ogni cultura, è solo l'orco cattivo che ti chiude in una stanza e poi ti lascia lì; i personaggi positivi della fiaba ti insegnano come fare ad uscirne. L'assenza di empatia per il lavoro del legislatore solitario Conte andrà naturalmente ricordata prima di fare qualsiasi discorso sul dopo Covid: persone così devono lasciare prima possibile la tolda del comando (ottenuto, infatti, avventurosamente e senza mandato popolare), o sarà difficile che la nave non vada a sbattere. Per guidare un paese è necessario conoscere direttamente l'esperienza fondante della vita, che non è la politica né il diritto, ma il lavoro.
Ci sono intere categorie di lavoratori, anche numerose e importanti per il benessere complessivo, che sono state completamente ignorate sia nella chiusura che nella riapertura del Paese. Sono per esempio le migliaia di cittadini che si muovono col treno, a cominciare dai i nostri rinomati e giustamente molto pubblicizzati treni ad alta velocità. Chi li usa lo fa non perché sia uno scansafatiche o un lussurioso snob, bensì perché persona che per ragioni (appunto) di studio o lavoro vive e si muove tra due o più città. Un fenomeno dello sviluppo avanzato, molto frequente negli Usa dove è risolto con l'aereo, ma anche tra nord e sud della Francia, e altrove. Anche da noi il lavoratore bilocalizzato è uno dei personaggi protagonisti dello sviluppo, soprattutto al nord, e per farlo si muove in gran parte con le Frecce, veloci e sulle quali può continuare a lavorare. Si tratta di un popolo operoso e silenzioso, tendenzialmente iperattivo, spesso chino sul computer dalla partenza all'arrivo, che svolge lavori di una certa responsabilità, e porta direttamente e indirettamente un buon contributo alla formazione del nostro PIL, ora infragilito dall'epidemia.
È un settore chiave per capire se la riapertura sarà fatta utilizzando l'esperienza del Covid 19 come spinta allo sviluppo o all'innovazione, o come strumento per rigettare indietro tutta l'Italia, respingendola ai tempi ante Alta Velocità, sostanzialmente nella stagnazione e dello sprofondamento negli aspetti peggiori del Mediterraneo. E a quanto pare di capire il governo è assai lontano dall'avere una visione lucida sulla questione. Lo stesso fatto che si insista a una ripartenza con trasporti calibrati neppure a zone (nord e sud), ma a regioni, esprime una visione del trasporto (e quindi dello sviluppo che da esso dipende) polverosa e ottocentesca, da burocrazia fortemente attardata.
Tanta insolente sciatteria verso il viaggiatore-lavoratore-consumatore-cittadino ci aiuta così a capire che dietro all'incubo in cui siamo non c'è solo il Covid 19, (che in Italia comincia un po' ad assomigliare al "marziano a Roma" di Ennio Flaiano), ma appunto: l"aria de Roma". Se proprio vuoi muoverti col treno hai a disposizione nell'intera giornata pochi regionali (non esattamente il meglio che ci sia dal punto di vista igienico, cui oggi tutto viene riferito) e ti arrangi. Inevitabile dunque pensare che la riapertura è decisa e organizzata da gente che viaggia con l'autista di Stato, non ha chiaro quanto l'Italia sia lunga, larga e malservita; e rassegnarsi a capire che un sistema ferroviario limitato a dei "regionali" arcaicamente imprigionati nelle rispettive regioni taglia a chiunque del 50% le sue possibilità di lavoro e produttività. L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma gran parte dei suoi dirigenti politici no. E il popolo, cui secondo la Costituzione appartiene la sovranità, non viene lasciato votare per evitare che li cacci.
Anche qui, però, torna fuori prepotente la questione sanitaria. Non per via del Covid, ma per i guai che si sviluppano quando il confinamento viene affrontato in modo sbagliato, ipergiuridico, come se "la virtù del buono cittadino" (come dice Zagrebelsky) fosse quella di essere "semplicemente un osservante che si inchina a un legislatore onnipossente". Non è così. I confinamenti richiesti dai coronavirus hanno mostrato che ai legislatori sono richiesti obblighi e responsabilità ben più sottili e importanti di quelli imposti ai cittadini dalle leggi che cercano di affrontare l'epidemia; sempre che non vogliano, con i loro interventi, provocare danni altrettanto gravi. Una ricerca pubblicata ieri sull'ultimo numero di Lancet Psychiatry dimostra l'alto rischio di suicidio in seguito a patologie psichiatriche generate da misure adottate senza fornire ai cittadini un personale preparato, che aiuti i cittadini a affrontarle. Nessuna delle pratiche di cura e assistenza richieste dagli scienziati ed elencate su Lancet è prevista dagli autoritari editti giuseppini e dalla loro ossessività giudiziaria. Infatti di suicidi da confinamento ce n'è già stati, diversi. Qualcuno dovrà risponderne.