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Decostruire i decostruttori – Simone de Beauvoir e il marx-femminismo (I^ parte)

di Roberto Pecchioli - 05/06/2025

Decostruire i decostruttori – Simone de Beauvoir e il marx-femminismo (I^ parte)

Fonte: EreticaMente

Come siamo arrivati al punto in cui è arrivato l’occidente? Perché vincono la cultura della morte, il relativismo etico, il nichilismo pratico, il materialismo più greve della storia, una soffocante ragione strumentale, la cultura della cancellazione (ossia la cancellazione della cultura, ponte tra passato e futuro) uniti al cinismo e al darwinismo sociale che hanno creato una società profondamente ingiusta, disumana, le cui diseguaglianze turbano anche la coscienza di chi scrive, che non crede all’ uguaglianza? Ci sono molte risposte, e la trattazione esaustiva di questo tema richiederebbe un lavoro di eccezionale ampiezza, una cultura e uno sguardo penetrante che non possediamo. Tentiamo tuttavia di fornire alcuni spunti, osservare a volo d’uccello la cultura occidentale dell’ultimo secolo e rintracciare una serie di elementi – provenienti dall’Illuminismo, dal marxismo e dal liberalismo dei secoli XVIII e XIX – che hanno costituito il brodo di coltura di una visione del mondo che ha completamente, forse definitivamente, rovesciato l’intero sistema di credenze, principi, valori, su cui il nostro pezzo di mondo si è sostenuto per secoli.
Ai fini euristici, come metodologia di ricerca di fatti, fonti e documenti preliminare all’argomento specifico, prendiamo le mosse dalla celebre XI Tesi su Feuerbach di Karl Marx. “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo” È difficile immaginare una frase che abbia avuto effetti più radicali nella storia dei popoli. Frase marxiana, non necessariamente marxista, giacché l’impegno – anzi l’ansia febbrile di cambiare il mondo – è ugualmente iscritta nell’universo liberale e non solo dal punta di vista dell’economia capitalista e della sua “distruzione creatrice” (J.Schumpeter). Fatto sta che la variegata galassia marxista (e post marxista) e il liberalismo – i due materialismi fratelli-coltelli – hanno prodotto gigantesche mutazioni nel pensiero, nella visione del mondo e nell’esistenza concreta delle generazioni. Il termine che meglio spiega la grande trasformazione (Karl Polanyi) è “decostruzione”, concetto introdotto dal francese Jacques Derrida (1930-2004), che significa smontare pezzo per pezzo il linguaggio, le idee, i principi al fine di dimostrarne la non validità e poi l’inconsistenza. Ogni cosa, ogni credenza viene analizzata al microscopio con il fine non di dissezionarla per meglio conoscerla, ma di revocarla in dubbio, decretarne la non validità e rendere impossibile ricomporre i pezzi. 
Quando l’operazione di decostruzione – ossia distruzione metodica, sottrazione e revoca – riguarda l’intero impianto della civiltà, accade lo stesso fenomeno di un terreno, un oggetto o un edificio aggredito dalle termiti. Indebolite le fondamenta, erose dall’azione costante, tenace, delle colonie di insetti, a un certo punto è inevitabile il crollo, un’implosione che lascia sul terreno una grande nebbia di polvere e detriti. Non vi è dubbio che il programma dell’XI Tesi si è realizzato, benché per una singolare – ma non nuova – eterogenesi dei fini, a beneficiarne non sia stata la proposta marxista, ma quella liberale nella versione ultima, globalista, liberista, libertario/libertina in corsa verso il superamento dell’uomo nella prospettiva trans e postumana. Se questa sintesi, ridotta all’osso e rozzamente esposta, ha elementi di verità, la prima operazione di chi voglia opporsi all’ ideologia e alla prassi postmoderna è tentare un’operazione analoga a quella del nemico: decostruire i decostruttori, mostrarne le falle e gli esiti infausti, nella speranza di gettare un sasso nello stagno e animare un dibattito teso a ricostruire, partendo dall’uomo, la creatura razionale aperta al trascendente che anela l’eterno e che non può essere ridotta a massa biochimica fungibile, illimitatamente plastica, per la quale ogni desiderio è diritto, ristretta alla sfera della soddisfazione degli istinti e all’immediatezza animale. L’ uomo è l’essere che sa rinviare le proprie pulsioni, padroneggiarle in vista di un approdo più elevato, di un bene comune, di valori in cui il soggetto agente (“io”) si riconosce parte di una comunità, di una civiltà (“noi”).
Crediamo di riconoscere alcuni tratti comuni a tutte le decostruzioni operate dalla cultura occidentale contro se stessa: la riduzione dell’umanità alla sfera del desiderio che diventa diritto (il Sessantotto); il materialismo che fa a meno non solo di Dio ma di qualunque forma di spiritualità; l’indifferenza alle domande di senso; l’omologazione delle identità. La postmodernità compiuta è il trono del presente che destituisce il passato e ignora il futuro, segando l’ albero su cui vive, decretando la sua stessa fine, tra abortismo universale, sessualità sterile, eutanasia attiva, rifiuto di generare figli, negazione dell’ esistenza di un nucleo di valori comuni diverso dalla libertà astratta, negativa, la “libertà da”, che sottrae e denuda. La liberazione, unica via d’uscita per la realizzazione della felicità individuale, equiparata a un interminabile baccanale da parte dell’ ”Uomo Residuo”, la felice definizione di Valerio Savioli nel prezioso saggio omonimo (Ed. Il Cerchio).
Un preambolo necessario per una serie di interventi – saggi brevi senza pretese – il cui obiettivo è costruire un focus critico sull’ideologia occidentale dominante a partire da un criterio di giudizio elementare: dai frutti li riconoscerete, rispose Gesù risorto ai discepoli che chiedevano come riconoscere la qualità degli uomini. “Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. (Matteo, 7-16.18) I frutti della postmodernità occidentale, nell’ambito etico, valoriale, antropologico, ci sembrano cattivi.
E’ un’opinione che proveremo a sostenere decostruendo le idee dei decostruttori. Iniziamo da Simone de Beauvoir (1908-1986), musa e complice di Jean Paul Sartre anche in pratiche sessuali al limite della pederastia. La ragione è duplice: da un lato l’autrice de Il secondo sesso (1949) inaugura un’ondata femminista già pericolosamente agonistica e antimaschile, permeata di marxismo e di odio contro l’istituzione familiare; dall’altro perché anticipa (inconsapevolmente?) alcune suggestioni delle teorie gender americane messe a tema negli anni Ottanta del Novecento (secolo breve e insieme sterminato). La frase più iconica della de Beauvoir è “donne non si nasce, si diventa”, il primo segnale di destituzione del dato naturale, biologico, a favore dell’idea secondo cui il sesso non è che un accidente senza importanza, soppiantato dal “genere”, ossia dalla scelta fluida, revocabile, dell’ identità sessuale soggettiva e delle pulsioni relative, poi ribattezzate orientamento sessuale, frutto delle elucubrazioni di John Money e Judit Butler.

L’attacco alla famiglia del femminismo ideologizzato inaugurato da de Beauvoir risale a Friedrich Engels, che nel 1884 scriveva che l’oppressione della donna proviene dalla famiglia monogamica, origine anche della proprietà privata. Pertanto l’emancipazione femminile corre in parallelo a quella del proletariato, il cui successo condurrà all’edificazione del comunismo. Rivoluzione sociale, dunque, in cui il nemico è di classe (il padronato) ma anche di sesso/genere, il maschio eterosessuale. Suggestioni del pesante marxismo di Sartre, in seguito inserite nel grande frullatore del post strutturalismo francese, di cui il marxismo fu punto di partenza, ma non approdo politico.

Archetipo intellettuale del femminismo, Simone de Beauvoir non è stata solo una delle figure più influenti del XX secolo, ma una precorritrice dell’ ideologia che ha minato le fondamenta della famiglia e dell’identità umana La sua fu innanzitutto una ribellione contro la natura. “Nessun destino biologico, psicologico o economico definisce (…) la femmina umana; è l’intera civiltà che produce questo prodotto intermedio tra il maschile e il castrato, che si chiama femminile”, scrisse. Il germe dell’ideologia di genere, l’idea che l’identità sessuale non sia una oggettiva realtà biologica, bensì un costrutto culturale imposto dalla società che deve essere modificato. Se la donna non è definita dalla natura, deve ribellarsi ad essa, per eliminare la differenziazione sessuale di cui è simbolo la famiglia. La casa è una prigione, i figli sono parassiti, pesi imposti dal potere per sottomettere le donne.
Ecco perché sosteneva che la liberazione delle donne dovesse passare attraverso la distruzione dei legami familiari e il rigetto del ruolo materno. Nel Secondo sesso si legge che “la casa è uno spazio in cui una donna si consuma lentamente nel proprio nulla; la gravidanza è, soprattutto, un dramma che si svolge dentro la donna; il feto è una parte del suo corpo ed è anche un parassita che lo sfrutta”. Il femminismo ha trasformato questa tesi in dogma. E se la casa e la culla non sono più beni da preservare, ma ostacoli da eliminare, la conseguenza è la fine della famiglia e la denatalità, segnale dell’estinzione di ogni civiltà. L’ aborto diventa l’arma più potente per separare la donna dalla sua identità. La visione della sessualità di de Beauvoir promuoveva la promiscuità e persino la pedofilia.

Nel 1943 fu licenziata per aver corrotto un’alunna. Ammise di aver sedotto studenti d’ambo i sessi per poi passarli a Sartre. Nel 1977, insieme con i principali esponenti del poststrutturalismo, da Deleuze e Derrida a Barthes e Foucault, firmò una petizione in cui sosteneva che “la completa libertà in una relazione sessuale è condizione necessaria e sufficiente per la legalità di tale relazione”. Gli eminenti intellettuali del Nulla chiesero la legalizzazione del sesso con minori, se consenziente, primo passo per lo sdoganamento della pedofilia, trattata come “diritto dei bambini e degli adolescenti ad avere rapporti sessuali con le persone di loro scelta”.
Simone de Beauvoir non si sposò né ebbe figli; fu la prima a teorizzare che “ogni donna è omosessuale per natura”. Oggi gran parte delle teoriche femministe della terza e quarta ondata sono lesbiche. Ebbe pessimi rapporti con la famiglia di origine, che spiegano solo in parte le sue scelte. Il suo pensiero fu influenzato da Sigmund Freud nella visione della sessualità come base per lo sviluppo dell’identità. Una relazione ambigua: de Beauvoir apprezzava la sua analisi dell’infanzia e della repressione sessuale, ma rifiutava l’evidenza (riconosciuta da Freud) della base biologica della differenza tra uomini e donne. Il fondatore della psicanalisi di figli ne ebbe sei, e sottopose uno di essi, Martin, a esperimenti umilianti, autentici abusi. Progenitori di una modernità malata sin dalle biografie personali. Freud più Marx, più il nichilismo di Sartre: l’esito è la convinzione che l’intera morale occidentale sia una mera costruzione sociale da distruggere. Dall’opera capitale di Sartre, L’ essere e il nulla, Beauvoir trasse la convinzione dell’insussistenza di una natura fissa degli esseri umani, che devono essere liberamente “costruiti” in modo che “non ci siano più uomini e donne, ma solo lavoratori uguali tra loro”.
Tramontata la prospettiva comunista, la tesi è stata applicata alle questioni di “genere” e alla sessualità. La lotta di classe diventa guerra tra i sessi. Se Marx vedeva nella proprietà privata la fonte dello sfruttamento economico, de Beauvoir considerava la famiglia il fulcro dell’oppressione patriarcale. Arrivò ad affermare che “ogni donna che non lavora è una parassita”, incoraggiando l’abbandono della famiglia. Le sue idee non furono speculazioni filosofiche, ma semi di un progetto culturale che oggi dà i suoi frutti avvelenati: la dissoluzione della famiglia, la confusione delle identità, il disprezzo per la vita. La guerra alla famiglia è stata concepita nei salotti intellettuali di Parigi (e nelle alcove di disturbati sessuali ), dove si tessevano le argomentazioni che oggi sostengono le istituzioni pubbliche.

La sfida è smantellare le fallacie del femminismo radicale e ripristinare i fondamenti della verità. Simone de Beauvoir diventa un’alleata inconsapevole: esporre le sue tesi e le sue scelte di vita dimostra che la regina è nuda, come il re della fiaba di Andersen. Purtroppo i suoi fallimenti esistenziali, le sue giustificazioni filosofiche a scelte ed esperienze personali, il clima tossico in cui visse, sono diventati senso comune, egemonia culturale. Il tramonto dell’Occidente, la sua cultura terminale nichilista, sono i frutti da cui abbiamo il diritto di giudicare Simone de Beauvoir, il suo mondo capovolto, il suo femminismo carico di odio per l’uomo, per la natura, per la donna stessa se non è conforme al modello prescritto dalla madrina del “secondo sesso”.