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Dire pace per proseguire la guerra

di Fulvio Scaglione - 05/12/2022

Dire pace per proseguire la guerra

Fonte: Lettera da Mosca

Arrivati al decimo mese di guerra in Ucraina dopo l’invasione russa, gli spiriti di buona volontà che sperano di bloccare questo massacro assurdo si trovano ad affrontare un grosso errore, che sta in questo: non si può, anzi non si deve parlare di colloqui «di pace». Chi lo fa, o finge un’aspirazione alla pace che non ha o non si rende conto che il massimo ora raggiungibile è un cessate il fuoco. La pace sarà un lavoro molto più lungo e complicato. La questione tra Russia e Ucraina ha radici assai lunghe di cui la guerra è, solo e purtroppo, il culmine. Dipanare la matassa per arrivare a una pace vorrà dire analizzare e rimontare i trent’anni trascorsi dalla fine dell’Urss e sarà un lavoro improbo. Il grosso errore, però, sta dentro un’enorme ipocrisia: quella di parlare di pace ponendo condizioni che, di fatto, la rendono impossibile. È successo esattamente questo nei giorni scorsi, con le dichiarazioni incrociate di Joe Biden, Emmanuel Macron e Vladimir Putin.
Biden, ricevendo il presidente francese alla Casa Bianca, si è detto pronto a incontrare Vladimir Putin appena questi avesse interrotto le operazioni in Ucraina e avesse riportato in Russia le truppe. Macron ha detto che non cercherebbe mai di spingere «gli ucraini a un compromesso inaccettabile per loro, perché ciò non permetterebbe di costruire una pace giusta». E Putin ha replicato ai due sostenendo che le operazioni in Ucraina continuano e che «il rifiuto degli Usa di riconoscere i territori recentemente annessi alla Russia compromette le possibilità di dialogo».
Se traduciamo dal politichese, arriviamo più o meno a questo: nulla. Putin non si ritirerà mai dall’Ucraina (come chiede Biden) perché sarebbe la sua fine politica e perché anche la Russia, come l’Ucraina, può tenere aperta la piaga all’infinito, come si è già visto nel Donbass tra il 2014 e il 2022. Il compromesso inaccettabile per gli ucraini di cui parla Macron è, stando alle dichiarazioni di tutti i maggiori dirigenti da Zelensky in giù, qualunque cosa non preveda il ritiro dei russi al di là dei confini del 1991, con la restituzione della Crimea e del Donbass, ed è cosa irrealizzabile a meno di un crollo verticale della Russia che oggi, a dispetto di nove pacchetti di sanzioni, è poco immaginabile. E Putin, quando chiede agli Usa di riconoscere l’annessione dei territori ucraini, sa benissimo di provocare, perché è proprio per evitare esiti come questo che l’Occidente si è schierato con gli ucraini.
Come abbiamo ripetuto ormai decine di volte, questa guerra ha un aggressore, la Russia, e un aggredito, l’Ucraina. Chi pensa che una «pace giusta» passi per la vittoria totale delle ragioni dell’aggredito su quelle dell’aggressore, però, rischia di risultare più romantico che efficace. Se quel «totale» non è possibile, e al momento pare proprio che sia così, non resta che accettare l’idea che la pace meno ingiusta è la pace possibile. Quindi un compromesso. Che pare più umiliante per l’aggredito, ma solo se si guarda alla questione da lontano. Siamo sicuri che la pensino così, per esempio, gli abitanti della regione di Kharkiv che dopo i bombardamenti russi, come hanno comunicato le autorità locali proprio ieri, non hanno più un solo impianto in grado di generare energia elettrica, e quindi devono confidare nell’aiuto delle altre regioni, anche loro duramente colpite? O che sia facile per gli ucraini trovare i 4 miliardi di dollari con cui comprare il gas che serve loro per superare questo inverno?
Molti temono che un cessate il fuoco, un negoziato o qualunque cosa non sia la guerra, consenta alla Russia di riorganizzarsi e rimettersi in forze. A parte che questo varrebbe anche per l’Ucraina e per gli ormai esausti arsenali europei e forse anche americani, c’è una miopia di fondo nel ragionamento: è proprio la guerra che spinge la Russia a riorganizzarsi, a stabilire nuove alleanze, a (darwinianamente) adattarsi alle nuove circostanze. In un mondo che, come dimostrano la Cina, la Turchia, l’India, l’Arabia Saudita, i Brics e i Paesi del Trattato di Shanghai, sempre più spesso prende le distanze dall’Occidente e dai suoi principi, sbagliati o giusti che siano. Siamo sicuri che ci convenga lasciar andare quel processo? Che alla fine il pericolo non cresca invece di diminuire?