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Draghi, il volto di un sistema sempre uguale a se stesso

di Luigi Tedeschi - 10/01/2022

Draghi, il volto di un sistema sempre uguale a se stesso

Fonte: Italicum

Il morbo infuria, il pan ci manca, ma … meno male che Draghi c’è!

Draghi, il lider maximo, il salvatore della patria, l’uomo della provvidenza …  perfino il mainstream è ormai a corto di definizioni celebrative. Certo, il mainstream mediatico si impone alla realtà, crea un mondo virtuale in cui la percezione degli eventi e delle immagini si antepone alla realtà dei fatti. Fino al momento in cui l’ondata virtuale non va a schiantarsi contro le scogliere della dura realtà, che alla fine fa giustizia di tutti i fantasmi dell’etere mediatico.

L’esaltazione di Draghi infatti, quale premier che ha conferito all’Italia un ruolo giuda in Europa, cui ha poi fatto seguito l’incoronazione dell’Italia da parte dell’Economist quale “Paese dell’anno”, è rivolta alla persona del leader, in quanto membro della élite finanziaria dominante, non riguarda di certo l’Italia. Come ha affermato Jean – Paul Fitoussi in una recente intervista a “Il Fatto Quotidiano”: “Temo che l’Economist premi Draghi, non l’Italia. E il giornale dell’élite riconosce il premier italiano come suo membro benemerito. I media amano premiare i divi europei”.

Se invece esaminiamo gli effetti reali della politica anti – crisi del governo Draghi, occorre rilevare che nella situazione emergenziale scaturita dalla crisi pandemica, non sono state adottate misure idonee a sostenere le classi disagiate, in una società italiana afflitta da diseguaglianze crescenti, ma sono stati favoriti i ceti medio – alti. Si può infatti alimentare la ripresa solo incentivando la domanda di consumi e quindi sostenendo i ceti più deboli. Alla stessa crescita del 6,5% circa del 2021, fa riscontro un calo del Pil nella fase pandemica di 10 punti: pertanto, mancano ancora 4 punti per tornare ai livelli del 2019. L’Italia peraltro, nel 2019 si dibatteva in una situazione di stagnazione della crescita da almeno 10 anni.

La stessa impostazione del programma di riforme imposte dal NGEU, che comporta liberalizzazioni dei servizi, ampliamento della concorrenza, ulteriore flessibilità del lavoro, non contribuirà di sicuro a sanare le attuali diseguaglianze sociali e a far fronte alle gravi carenze del welfare già evidenziatesi con la pandemia. A tal riguardo così si esprime ancora Fitoussi: “Certo, la crisi sanitaria ha fatto crescere le diseguaglianze. Ma a questa premessa non è corrisposta la determinazione a raddoppiare gli sforzi per affrontarle. Chi teorizza o aderisce all’idea salvifica della flessibilità dei rapporti di lavoro come balsamo per l’economia di mercato, aderisce all’idea di rendere stabile la precarizzazione. Flessibile per me significa precario. E precario significa povero”.

Occorre dunque rilevare che il governo Draghi non ha una linea politica definita, né ha elaborato un progetto autonomo di riforma complessiva dello stato. E’ invece un governo presieduto da un esponente della élite finanziaria di grande prestigio nella UE, quale ex presidente della BCE, che dispone di una cabina di regia composta da tecnici delegati alla attuazione del complesso di riforme necessarie per accedere ai finanziamenti europei previsti dal Pnrr. Al parlamento, ormai delegittimato dalle proprie prerogative istituzionali, è stato delegato il sostegno politico alle riforme: una funzione quasi del tutto acclamatoria.

Non si deve peraltro concepire il NGEU come un piano di finanziamenti erogati dalla UE, atto a sostenere i paesi europei colpiti dalla pandemia. Il NGEU è invece un programma di riforme strutturali delle istituzioni degli stati membri della UE, riforme alla cui attuazione è subordinata la concessione dei finanziamenti europei. Tali condizionalità incideranno sulle politiche dei governi nazionali nei prossimi anni. Mediante il NGEU si è istituito quindi un vincolo politico esterno inviolabile per i governi nazionali. Sarà infatti la Commissione europea a vigilare sulla realizzazione delle riforme previste dai Pnrr nazionali e sulla  tempistica della loro attuazione. Qualora non fossero rispettate le condizionalità previste, i finanziamenti potrebbero essere sospesi o revocati. Pertanto, almeno per i prossimi 6 anni, l’orientamento politico dei governi non potrà essere espresso su basi democratiche, non sarà legittimato da consenso popolare, ma dovrà essere conforme alle direttive del NGEU. E le riforme da realizzare incideranno in misura rilevante sull’assetto istituzionale degli stati, in quanto i programmi relativi alla trasformazione digitale, alla transizione ambientale e alla legislazione sociale dovranno essere implementati nel contesto di istituzioni politiche che non pongano vincoli di carattere ideologico – politico che ne pregiudichino l’attuazione. Il NGEU comporterà quindi ulteriori delimitazioni alla sovranità degli stati, conformemente al principio neoliberista che antepone le leggi del mercato alla democrazia e concepisce gli stati quali organi politici che presiedano al corretto funzionamento di un libero mercato autoreferente.

Si riproporranno dunque tutte le contraddizioni, gli squilibri, le inefficienze di un sistema neoliberista già accentuatesi nella crisi pandemica. Il neoliberismo è un sistema che invariabilmente riproduce sempre se stesso.

L’inflazione e le distorsioni dell’economia finanziaria

La ripresa post – pandemica è stata funestata dalla ricomparsa dell’inflazione. Non era poi così imprevedibile questa nuova ondata inflazionistica, dato l’eccesso di domanda generatosi in virtù della massa di liquidità erogata dalle banche centrali, quando la produzione è in una fase di ripresa ancora precaria. Questa inflazione sembrava essere un fenomeno temporaneo, ma tali previsioni sono state presto smentite. Il tasso di inflazione negli USA è del 6,2%, nella UE il tasso medio è del 4,9% (con la punta massima in Germania del 6%) e in Italia si attesta al 3,8%.

Una ondata inflattiva prolungata potrebbe incidere sull’efficacia dello stesso NGEU, in quanto i finanziamenti alla ripresa risulterebbero decurtati. Il ritorno dell’inflazione avrà comunque l’effetto di erodere i risparmi degli italiani, per un ammontare previsto per il 2022 di 50 miliardi. Qualora l’inflazione si protraesse ai tassi attuali per 10 anni, ne eroderebbe 500, dei 1.800 miliardi che costituiscono l’ammontare complessivo dei risparmi degli italiani. Questa inflazione, sebbene limitata, sarà assai penalizzante per la domanda in questa fase di ripresa, dato che comporterà una rilevante decurtazione del potere d’acquisto di salari e stipendi già a livelli minimi. Si tenga presente che dal 1990 ad oggi essi hanno avuto l’irrisorio incremento del 2,9%.

L’inflazione peraltro, comporterà la riduzione (o addirittura la fine), degli stimoli monetari da parte delle banche centrali. Tali provvedimenti, oltre a compromettere la ripresa, potrebbero determinare rilevanti crisi delle borse. Negli ultimi anni infatti, il mercato finanziario è stato alimentato dai flussi di liquidità derivanti dalle politiche espansive delle banche centrali. Per far fronte all’ondata inflattiva, la Fed ha programmato la fine del QE a marzo, 3 rialzi dei tassi nel 2022 e altri 3 nel 2023. La BCE limiterà le politiche espansive, ma sebbene le sue misure saranno meno drastiche, dovrà nel tempo adottare analoghi provvedimenti, data l’interdipendenza della finanza europea con quella americana.

Nelle crisi degli ultimi decenni, il rialzo dei tassi è stato sempre accolto come un sintomo di una economia in ripresa. Ma in questa fase emergenziale, in cui si è verificata una escalation da record dei debiti su scala globale, politiche restrittive del credito, conseguenti al rialzo dei tassi, oltre a compromettere gravemente la ripresa della produzione e dei consumi, inciderebbero sui debiti degli stati già incrementatisi a dismisura (il debito pubblico italiano è al 157% del Pil), mettendone a serio rischio la sostenibilità. E’ vero che ad una inflazione elevata farebbe riscontro una svalutazione dello stesso debito pubblico, ma si verificherebbe anche un aumento solo monetario dei redditi e un incremento solo nominale del Pil che inciderebbe negativamente sul rapporto debito / Pil, compromettendo comunque la sostenibilità del debito pubblico italiano. Non a caso, col manifestarsi dell’inflazione, lo spread è tornato a crescere.

Le ingenti erogazioni di liquidità delle banche centrali degli ultimi due anni non hanno avuto l’effetto di offrire adeguati sostegni alle economie in crisi. Le risorse di liquidità messe a disposizione dalle banche centrali non si sono convertite in finanziamenti alla produzione e ai consumi, al fine di attutire gli effetti della crisi, ma hanno alimentato semmai i mercati finanziari. Infatti si è assistito nella fase pandemica all’apparente paradosso secondo cui le borse, giovandosi delle politiche del QE, hanno raggiunto i massimi storici, cui ha però corrisposto un verticale calo del Pil. Tali squilibri e le distorsioni conseguenti, sono da addebitarsi al sistema neoliberista dominante, in cui al primato dell’economia finanziaria fa riscontro la recessione dell’economia reale. Inoltre, questo abnorme afflusso di liquidità nelle borse rende il mercato finanziario preda della speculazione selvaggia e alimenta la volatilità e la vulnerabilità dei mercati stessi nella fase in cui tali flussi di liquidità vengano a mancare.

Occorre infine rilevare l’allarme sociale che deriva dalla abnorme esposizione di privati cittadini e famiglie (specie negli USA), nel mercato finanziario. La deflagrazione della bolla immobiliare che diede luogo alla crisi del 2008, mai del tutto superata, non costituisce tuttora un precedente storico sufficientemente allarmante, tale cioè da indurre gli stati a prevenire le rischiosità congenite alla deregulation del mercato finanziario. Il sistema neoliberista si rivela immutabile nel generare e trarre profitto dalle sue stesse crisi.

Caro energia e delocalizzazione industriale

La stangata del caro – energia si abbatte sulle imprese e sui cittadini. Secondo le stime di Nomisma, per il 2022 il rincaro delle tariffe elettriche sarà del 48%, quelle del gas aumenteranno del 61%. L’aumento dei costi energetici per le imprese pregiudicherà una ripresa ancora fragile. Nonostante l’aumento dei fatturati, incombe il rischio di chiusura per molte imprese di alcuni settori produttivi, quali quello delle ceramiche, del vetro, dell’agroalimentare, dell’edilizia. Il 19% delle famiglie italiane è a rischio d’insolvenza per il caro – bollette. Non saranno certo gli sgravi fiscali del governo Draghi a salvaguardare il popolo italiano dalle difficoltà legate all’inflazione e ai rincari energetici.

In tempi di transizione ambientale in Italia si rende necessaria la riapertura delle centrali a carbone. Il sistema elettrico italiano è sbilanciato sul gas metano, che è quasi del tutto importato. Tensioni geopolitiche tra USA e Russia riguardo all’Ucraina hanno provocato la mancata entrata in funzione del gasdotto Nord Stream 2 in Germania, che avrebbe rifornito anche l’Europa. Dalla crisi ne hanno tratto vantaggio, guarda caso, gli USA: 15 navi americane si apprestano a rifornire di gas l’Europa.

Tale crisi non era affatto imprevista. La carenza di forniture energetiche ha infatti cause strutturali. L’incombere della transizione ambientale ha oscurato le problematiche energetiche relative al settore del gas metano, che da anni registra carenze di investimenti.

La pandemia quindi ha solo accentuato i fattori di crisi sistemica già in atto: la attuale crisi energetica era del tutto prevedibile. Ma occorre anche rilevare che su tali crisi si innesta puntualmente la spirale della speculazione finanziaria che ritrae enormi profitti a discapito degli stati e dei popoli a cui sono devoluti i costi socio – economici delle crisi.

La stessa crisi produttiva (specie del settore auto), dovuta alle carenze della componentistica, è da attribuirsi alla struttura stessa di un sistema industriale delocalizzato, che, comportando la creazione di catene di forniture estese a livello globale, ha rivelato tutta la sua fragilità e rischiosità, compromettendo gravemente l’efficienza produttiva nelle fasi di crisi come quella attuale. Le stesse carenze di scorte, che attualmente affliggono l’industria occidentale, sono dovute all’adozione globale del modello produttivo toyotista, che comporta la produzione just in time, con assenza di scorte e massimizzazione del profitto.

In realtà il sistema neoliberista ha provocato periodicamente crisi di portata globale, quali la crisi valutaria asiatica, lo scoppio della bolla della new economy, la crisi finanziaria dei subprime, la crisi del debito in Europa. La sussistenza e lo sviluppo del sistema neoliberista made in USA dal 2008 in poi, è dovuto alle politiche espansive delle banche centrali e ai tassi a zero o negativi. Nel contesto della attuale crisi tali sostegni potrebbero venir meno. E’ prevedibile quindi che il neoliberismo si dovrà inoltrare in un territorio inesplorato, in cui domineranno l’incertezza del futuro e la perpetua instabilità. Potrebbe non sopravvivere a se stesso.

Deriva totalitaria, conflitti e fine del neoliberismo?

E’ del tutto evidente la deriva totalitaria del sistema neoliberista. Tale degenerazione del sistema è dovuta a cause di ordine geopolitico ed economico.

Dal punto di vista geopolitico, la contrapposizione degli gli USA con la Cina e la Russia è sorta con la fine dell’unilateralismo americano, del nuovo ordine mondiale cioè impostosi con la fine dell’URSS. Assistiamo alla contrapposizione tra due forme di capitalismo: quello liberaldemocratico americano e quello autocratico cinese. La Cina è assurta a grande potenza mondiale in virtù di un capitalismo sviluppatosi sotto l’egida del verticismo totalitario delle sue istituzioni. Pertanto, si stanno affermando sia negli USA che in Europa svolte politiche di carattere oligarchico - tecnocratico, al fine di accrescere l’efficienza e la competitività del sistema economico. Si rende dunque necessaria in Occidente una trasformazione del  sistema politico idonea a contrastare l’autocrazia cinese. Si vuole esportare nella sfera politico – istituzionale il modello oligarchico – tecnocratico dominante nell’economia neoliberista che è comunque incompatibile con la democrazia e la sovranità degli stati. Per quanto concerne l’economia, i fattori di crisi e le contraddizioni sistemiche, già latenti nel periodo pre – covid, si sono manifestati in tutta la loro drammaticità nella fase pandemica. L’attuale crisi ha dunque contribuito ad accelerare i processi di ristrutturazione del capitalismo già precedentemente programmati. La rivoluzione digitale e la transizione ambientale comporteranno l’implementazione di una pianificazione economica globale dai costi incalcolabili e che potrebbe generare conflitti e disgregazioni sociali dagli esiti imprevedibili.

Le conflittualità sociali prodotte dalla crisi sono state finora occultate da una propaganda emergenziale incessante e dalla demonizzazione mediatica del dissenso no – vax, che si è tramutato in una formidabile arma di distrazione di massa a vantaggio del sistema. Ma la dissoluzione interna della società occidentale è un fenomeno già in atto. Gli USA rischiano di essere dilaniati da una contrapposizione insanabile tra populisti e liberal. In Europa nel prossimo futuro si riproporrà la contrapposizione tra gli stati frugali dominanti del nord e gli stati subalterni del sud, relativamente alla riforma del patto di stabilità. Il ripristino dei parametri di Maastricht e del Fiscal compact, dato l’incremento esponenziale del debito degli stati nella fase pandemica ed una ripresa ancora incerta e funestata dall’inflazione, potrebbe condurre al default di alcuni stati del sud (specie l’Italia). Il “governo semaforo” tedesco è diviso su tutto, ma ha dimostrato una compattezza granitica riguardo l’avversione verso qualunque progetto di riforma del patto di stabilità. La rigidità tedesca riscuote inoltre un grande consenso popolare, data l’emotività emotività collettiva che suscita la paura dell’inflazione, divenuta in Germania ormai genetica.

I presupposti di nuove conflittualità politiche e sociali in Occidente sono evidenti ed il processo di disgregazione del sistema è già in stato avanzato. I sintomi della fine del sistema neoliberista sono stati diagnosticati efficacemente al festival dell’economia di Trento nel giugno 2021 da Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, che ha affermato: “Il neoliberismo ha fallito”… “Servono più azioni di tutela collettiva. Il neoliberismo non è riuscito a creare quella società armoniosa che immaginavamo. E’ fallito economicamente e socialmente perché le diseguaglianze sono enormi, divisioni sociali e sfruttamento sono molto diffusi e negli ultimi anni abbiamo assistito anche a fenomeni poco edificanti come protezionismo e egoismi anche sul fronte vaccinale”… “Auspico un ritorno dello Stato, un maggiore impegno dei governi. Il libero mercato non ha saputo regolare da solo la società, la distribuzione del reddito, i rischi ambientali” … “Tra disarmonie e conflitti, serve un’inversione di rotta repentina perché ci stiamo muovendo verso l’economia del futuro che sarà basata sulla conoscenza. Vogliamo lasciare la conoscenza nelle mani di pochi privati dediti alla massimizzazione dei profitti? La conoscenza deve restare un bene pubblico, perché se i privati produrranno conoscenza cercheranno di limitarla e controllarne i benefici. Per i governi, quindi, sarà sempre più importante e indispensabile avere un ruolo nell’economia della conoscenza.  L’abbiamo scoperto anche con i vaccini, dato che i risultati scientifici così veloci sono stati resi possibili da consistenti fondi pubblici, mentre i privati hanno concluso solo l’ultimo miglio”.