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God bless America. La "democrazia" della silicon valley

di David Nieri - 11/01/2021

God bless America. La "democrazia" della silicon valley

Fonte: Franco Cardini

La premessa è d’obbligo: i fatti di Capitol Hill, sede del governo degli Stati Uniti a Washington, sono gravissimi; niente, sia chiaro, può giustificare gli atteggiamenti del presidente della potenza mondiale per elezione “divina”, ovvero gli Stati Uniti d’America. La follia di Donald Trump ha vistosamente tracimato, soprattutto negli ultimi mesi del suo mandato e in particolare dopo l’esito delle elezioni presidenziali.
Sconfitto dal democratico Joe Biden, il tycoon non ha esitato a chiamare in causa brogli, complotti, inganni, appellandosi alla Corte Suprema fino a minacciare di non riconoscere la vittoria dell’avversario. È così che si è preparato “l’attacco alla democrazia” del 6 gennaio scorso, vera e propria giornata “epifanica”, quando alcuni dei più fervidi sostenitori repubblicani hanno fatto irruzione nella sede del Congresso interrompendo la “cerimonia” che avrebbe “incoronato” ufficialmente il quarantaseiesimo presidente a stelle e strisce.
Sì, perché i media non hanno esitato a etichettare l’accaduto come la “giornata più nera della democrazia americana”, dimenticando chiaramente quanto nere siano ogni giorno le democrazie “esportate”, tanto per fare un esempio semplice. Le parole come al solito si sono sprecate, adagiandosi comodamente, a parte qualche rarissima eccezione, sul classico mainstream politicamente corretto che divide agevolmente i buoni dai cattivi, i democratici dagli anti. Da notare comunque le difese a oltranza e “di principio” da parte di molti fan di The Donald di casa nostra, che in genere rispondono idealmente allo spirito neocon di matrice yankee, pure quello esportato insieme alle democrazie, con i danni neanche tanto collaterali che si possono immaginare.
Qualche dubbio comunque rimane, al netto di manie complottiste di bassa lega: ovvero, sono in tanti a chiedersi come abbia fatto un gruppo di manifestanti che sembrava uscito da un cinepanettone – purtroppo, va detto, ci sono state vittime, e quello non è un film – a entrare senza troppe “resistenze” all’interno del palazzo del Congresso. Ci sono video che mostrano i poliziotti di Washington mentre rimuovono le transenne e fanno entrare i facinorosi. Ma niente di tutto questo è stato mostrato dai media che informano e sulla cui qualità non è lecito nutrire riserve.
Il “giorno più nero per la democrazia”, dicevamo. Risultato, secondo i media che informano, di una campagna di denigrazione dell’avversario e di incitamento all’insurrezione sobillata dal presidente Trump. C’è senz’altro del vero, anche se i continui riferimenti a un’America sempre più divisa mi lasciano perplesso. Gli Stati Uniti sono sempre stati divisi: Midwest, zone “profonde” e aree urbane hanno sempre avuto i loro punti di riferimento che nel corso degli ultimi decenni si sono consolidati. La divisione non è, a giudizio di chi scrive, tra repubblicani e democratici, o meglio, non si esprime semplicemente nel divario tra questi poli opposti (in teoria) ma complementari (in pratica). È la politica in generale a non rispondere più, da tempo, alle istanze di una nutrita schiera di cittadini, che vedono assottigliare il loro benessere e al tempo stesso la capacità di incidere sulla “democrazia rappresentativa”, che ovviamente non li rappresenta più. Troppo facile liquidarli come grezzi e primitivi, magari pensando pure di abolire il suffragio. Dall’altra parte ci sono i progressisti per elezione che affidano, oggi più di ieri, le loro domande esistenziali e professionali alle nuove tecnologie, accettando senza spirito critico le bombe intelligenti quando a sganciarle sono – intelligentemente – i democratici, magari di colore e politicamente correttissimi. Un matrimonio con il senso comune che tradisce spessissimo il buonsenso sfociando talora nel ridicolo, come dimostrano i recentissimi misfatti che riguardano Omero, Grease e amen (ma che dico: awoman!). In mezzo, coloro che mancano di diritti fondamentali: i neri, quel che rimane dei nativi americani, i dimenticati di un paese tuttora fortemente razzista, meritocratico ma solo in apparenza: tra i confini degli States vige sovente la legge della giungla, ovvero quella della forza, se condita di capitali tanto meglio.
Le tecnologie, i social. È qui che si dipana l’arcano, è qui che si manifesta l’epifania dell’Epifania, una moneta, quella dell’antidemocrazia, a due facce. Che non è solo quella di Trump e della sua armata. Ce n’è un’altra, forse addirittura più grave. Perché se Trump si è giocato (giustamente) la faccia e pure la possibilità di ricandidarsi alle prossime elezioni tra quattro anni (potrebbe farlo), l’altra forma di antidemocrazia lavora più sottilmente con il sostegno degli “intellettuali”, dei media, dell’opinione pubblica che affida le ardue sentenze ai “post” (e non più ai posteri): la censura, l’oscuramento di un profilo social (Twitter, Facebook), oppure di un messaggio che “non risponde agli standard della comunità”. Attenzione, siamo di fronte a una nuova potenziale forma di dittatura che già sta mietendo centinaia di migliaia di vittime. E non è questione (solo) di contenuti offensivi, pornografici e via dicendo. No, è questione di opinioni. Al sottoscritto, ad esempio, circa due anni fa venne oscurato un post (che “violava gli standard”) in cui era riportato il passo di un libro di Thierry Meyssan riguardante la “morte” di Osama bin Laden. Non c’era niente di offensivo, si trattava di un’opinione, per lo più corroborata da documenti ufficiali. Qualcuno, tra i (re) censori della piattaforma di Zuckerberg, pensò bene di riservare anche a me un posto nel “girone dei bannati”, versione moderna dell’Inferno digitale dantesco.
Ma se il sottoscritto è persona comune come tante, non è questo il caso del presidente degli Stati Uniti d’America. Che si è visto interrompere un collegamento in diretta tv durante lo spoglio dei voti e oscurare, in questi giorni, i profili Twitter e Facebook.
Desidero affidare il commento a uno dei pochi “intellettuali” – quelli veri – rimasti in circolazione, Massimo Cacciari, che ha rilasciato questa dichiarazione all’agenzia Adnkronos:

C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. È inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico, che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump. Che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca. È uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro, e lo decide Zuckerberg. È una cosa semplicemente pazzesca.

Mentre Corriere della Sera e Repubblica si sono adoperati per dimostrare che l’“oscuramento” dei profili social del presidente non è altro che una grandissima espressione di democrazia, Gad Lerner non ha esitato a invitare gli imprenditori della Silicon Valley (e della California in genere) a oscurare i profili di “qualcuno di casa nostra”. Eccola, la fine della democrazia. Capitol Hill sarà un lontano ricordo – e forse tra qualche tempo neanche ce ne ricorderemo – quando le tecnologie avranno definitivamente rimosso la nostra libertà di opinione, pure su questioni di minima importanza. Quando le tecnologie, conoscendo benissimo le nostre identità, i nostri gusti, i nostri orientamenti sessuali, le nostre debolezze, ci renderanno numeri – ma grandi consumatori, beninteso – imponendoci il sapore del latte e del pane e recapitandoci direttamente a casa i generi alimentari di prima necessità. Ci ritroveremo tutti nelle aree urbane illuminate dalla civiltà, piene zeppe di persone che non conoscono il loro vicino di stanza, sole, depresse, impasticcate, ubriache di serotonina e ubbidienti alle istanze del nuovo diritto da reclamare. Ma cosa vuoi di più dalla vita, quando i profili social sono attivi. Questa sì che è democrazia.