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Governo virale

di Stefano Mantegazza e Pier Paolo Dal Monte - 09/07/2021

Governo virale

Fonte: Italicum

Interviste a Stefano Mantegazza e Pier Paolo Dal Monte, coautori del libro “Governo virale”, Arianna Editrice 2021, a cura di Luigi Tedeschi

Intervista a Stefano Mantegazza (Il Pedante)

1) La pandemia del covid ha generato, mediante l’imposizione del lockdown globale, trasformazioni che incideranno profondamente sulla struttura della società. Il distanziamento ha fatto venir meno la dimensione sociale dell’uomo. Ma questa smaterializzazione dei rapporti sociali, che non si tramuta davvero in una elevazione spirituale di un uomo liberato dai limiti della sua fisicità corporea, non prelude invece ad una decomposizione della stessa antropologia umana, dato che il rapporto sociale è divenuto mera virtualità digitale?

È ancora presto per capire quanto profondamente le misure imposte durante la stagione pandemica stiano incidendo sulla percezione sociale e di sé. Non è neanche certo che possano davvero inaugurare, come qualcuno auspica, una «nuova normalità» fatta di distanziamento, digitalizzazione a oltranza e paura dell’altro.

Ciò che è certo è che da molti mesi stiamo vivendo un esperimento mai tentato in scala così estesa. Bisogna però anche riconoscere che le aree antropologiche toccate da questi provvedimenti sono quelle più profonde e «rocciose» dell’essere umano e ad oggi non hanno prodotto l’adattamento «resiliente» di cui parlano certi architetti sociali, ma una giustificata reazione patologica. Ora, la patologia è uno stato di squilibrio, è tutto fuorché «normalità». È la lotta del corpo e della mente contro un attacco esterno, sicché possiamo sinora dire che la pars costruens di questo esperimento non sembra voler attecchire, con buona pace di certi sproloqui utopistici. Resta invece la pars destruens, un accanimento sempre più cieco e forse anche sempre più disperato. Il tema sottostante non è comunque nuovo. La tentazione di rigettare la corporeità propria e altrui perché cagionevole, corruttibile, mortale ecc. attraversa un po’ tutta la storia dell’Occidente. Per Platone, il corpo era la tomba dell’anima.

Nel libro faccio spesso riferimento alle dottrine gnostiche e alla condanna del mondo materiale espressa da alcuni esponenti di quella tradizione. Come ricordava Hans Jonas, la gnosi non è solo un fenomeno storico ma piuttosto un archetipo destinato a ritornare in eterno. La reclusione digitale degli individui è il suo ultimo vestito, il Covid il suo ultimo demone in ordine di tempo. Alla tentazione di risolvere in modo netto la dialettica di corpo e anima elidendo il primo si sono opposti, tra gli altri, i padri della Chiesa, secondo i quali chi rinuncia al corpo in cui la stessa Divinità non ha sdegnato di incarnarsi, rinuncia anche all’anima. Direi che oggi stiamo assistendo alla piena dimostrazione di questo monito.

2) Dalla paura per la propria sopravvivenza, è scaturita una psicosi collettiva che ha reso le masse succubi delle elites tecnocratiche, che hanno imposto un totalitarismo sanitario emergenziale. Questo stato di emergenza ha reso praticabili politiche autoritarie altrimenti inaccettabili da parte dei popoli. E’ stato quindi agevole imporre una dittatura sanitaria sulla base del dogma scientifico. La scienza è divenuta la religione del nostro tempo. Dal dogma scientifico si invoca la salvezza di una vita declassata a mera sopravvivenza materiale, mentre alla religione, alla politica e alla cultura sono state delegate le tecniche di governo “zootecnico” delle masse. Non si è dunque realizzato un capovolgimento di fondamenti e di ruoli tra la scienza e la religione, la politica e la cultura?

Certamente sì. Il capovolgimento è anzi la cifra della modernità e della sua pretesa fondamentale, di realizzare la trascendenza nell’immanenza. Tutto il resto consegue. Ciò che oggi si gabella per «scienza» – imperativi, obblighi giuridici e morali, dogmi, fede, sacrifici, gesti apotropaici, esperti che predicano dai pulpiti televisivi ecc. – rimanda nei fatti, e spesso anche nel lessico, alla sfera della religione. Non ha nulla a che fare col metodo galileiano o anche semplicemente empirico. Si tratta però di una religione acefala a cui manca il Cielo, sicché è normale che si risolva in un’oppressione degli uomini sugli uomini, secondo un paradigma bestiale più che divino. È davvero mortificante che quasi nessuno, tra i custodi dei saperi filosofici e religiosi, abbia saputo riconoscere in questa deriva un errore antico.

3) La pandemia ha comportato una rilevante compressione dei diritti costituzionali. Pertanto, con gli obblighi di distanziamento sociale, è divenuto impraticabile l’esercizio di libertà fondamentali, quali quelle di riunione ed associazione, che consentono la partecipazione politica dei cittadini. La pandemia ha condotto ad una svolta autoritaria e classista, data l’emarginazione sociale imposta alle masse. Le diseguaglianze si sono accentuate (anche a causa della crisi economica), si è determinato nei fatti un regime di “apartheid”. Ma nella struttura piramidale – verticistica assunta dalla società neoliberista, era già da lungo tempo scomparsa l’interazione tra le classi sociali, sia nella forma del conflitto, che in quella della cooperazione tra le classi. Questa emergenza sanitaria non condurrà ad un sistema gerarchico – feudale compiuto, anche se ideologicamente neoliberista?

Si tratta certamente di una tendenza in atto, che più che ispirarsi all’ordine del feudalesimo mira a polarizzare gli estremi della scala sociale eliminando i ceti intermedi. È anche corretto ricordare che il nuovo regime pandemico sta offrendo strumenti nuovi a un processo in realtà già avviato da almeno quattro decenni. Da tempo gira impunemente l’idea che non possiamo più permetterci la democrazia: non tanto come sistema politico ed elettorale (che potrebbe anzi perpetuarsi per offrire i circenses), ma più in generale come equa distribuzione delle risorse e dei diritti. Anche in questo caso mi permetto però di mettere un punto di domanda sulla sostenibilità di una riforma sociale così radicale e violenta.

La scommessa a cui sembra oggi assistersi è che i nuovi strumenti telematici e farmacologici consentiranno di tenere in catene una massa globale di indigenti, sì da mettere al sicuro il vertice puntiforme che si candida a governarla. Non è però detto che questa scommessa possa essere vinta e che non si risolverà invece, come è già accaduto in passato, in stravolgimenti e rovine da cui ripartire.

4) La legislazione di emergenza potrebbe determinare il sovvertimento delle istituzioni democratiche. Ma il sistema neoliberista, non ha imposto le proprie riforme sistemiche in virtù di progressivi stati di emergenza, divenuta poi ordinaria quotidianità? In varie fasi successive, si sono imposti, il totalitarismo economico con i governi tecnici, quello politico con l’istituzione di organismi sovranazionali a discapito della sovranità degli stati, e attualmente incombe quello sanitario. Alla proletarizzazione economica e al declassamento politico e sociale, fa seguito la medicalizzazione della totalità sociale. La incombente iatrocrazia, non è l’espressione di un processo di trasformazione sociale biopolitica – neoliberista giunto alla sua definitiva realizzazione?

Ciò che dovrebbe infatti colpire l’attenzione di tutti è che i «rimedi» messi in campo contro la nuova polmonite sono improbabilmente gli stessi già raccomandati per arginare la crisi del debito pubblico, del clima, del terrorismo jihadista ecc. Lo sterzo tira sempre nelle stesse direzioni: di cedere poteri locali a organismi globali non eletti e comunque non controllabili, di rinunciare alle proprie libertà fondamentali, di vivere più parcamente, di dipendere dall’assistenza statale, di utilizzare le macchinette elettroniche per svolgere qualsiasi attività, senza mai disturbare il manovratore.

L’emergenza crea lo stato di eccezione, la «finestra» in cui infilarsi per imporre riforme altrimenti impossibili. Non casualmente, l’ultimo atto dell’emergenza pandemica, quello vaccinale, sta offrendo il destro per mettere in discussione pilastri fino a ieri intoccabili come il diritto al lavoro, l’indipendenza degli scienziati, la responsabilità penale e civile, la privacy dei cittadini. È una trasformazione per sottrazione, una demolizione (più o meno) controllata che nasce da lontano e i cui effetti potrebbero sfuggire di mano, come francamente mi auguro nell’ultimo capitolo che porta la mia firma. Lì richiamo il mito della torre di Babele ed esprimo la previsione, o quantomeno l’auspicio, che la «definitiva realizzazione» del progetto globale in corso si tradurrà in un crollo.

Intervista a Pier Paolo Dal Monte

1. L’avvento dell’era della globalizzazione è tuttora interpretato come una trasformazione epocale immanente, intrascendibile, irreversibile. All’universalismo spirituale e filosofico si è sostituito il cosmopolitismo neoliberista, al comunitarismo dei popoli e delle nazioni l’individualismo atomistico astratto, alla polis il villaggio globale. Pertanto, agli eventi globali devono far riscontro soluzioni globali. Ma allora ci si chiede il perché da questa pandemia globale non è scaturito anche un “comunismo scientifico globale”, con il superamento dei diritti e dei brevetti che limitano l’utilizzo globale del progresso scientifico? L’abbattimento delle barriere economiche, politiche e scientifiche non è un principio eminentemente liberale?

Il termine “globalizzazione” è talmente vago da prestarsi alle definizioni più disparate. Nella fiaba mediatica è stata sovente spacciata come una grande opportunità per i ricchi come per i poveri, per i potenti come per gli umili. Questa favola contiene una sorta di promessa implicita che, in fondo, è la stessa alla quale ha sempre alluso il mito del progresso, ovvero quella della prosperità universale, situata in un indeterminato futuro, nella quale i fiumi di latte e di miele sono sostituiti dalle loro metafore tecnologiche.

In realtà, la globalizzazione è stato semplicemente il percorso, attraverso il quale, l’intero mondo viene trasformato in merce e mercato, attraverso la rimozione degli ostacoli di natura politica e sociale che ostacolano quest’obiettivo.

In fondo, questo tipo di azione non è affatto una novità: il liberalismo ha sempre perseguito lo scopo di rimuovere qualsiasi ostacolo al manifestarsi del cosiddetto “libero mercato” (il famoso sintagma “laissez faire” fu coniato negli anni ‘40 del XVIII secolo). Il liberalismo non è altro che questo, nonostante i tentativi fatti per farlo apparire come una dottrina politica.

La globalizzazione, dunque, non è altro che l’estrema conseguenza degli assunti liberali, in un’epoca storica nella quale gli sviluppi tecnologici (trasporti, comunicazioni, ecc.) hanno permesso questa sorta di “contrazione spazio-temporale) del mondo.

2. Il modello politico – economico neoliberista si fonda su una ideologia di origine illuminista che concepisce la storia come progresso illimitato ed inarrestabile. Il governo degli stati è stato progressivamente devoluto alle oligarchie tecnocratiche e l’amministrazione dalla cosa pubblica è improntata quindi a criteri di “epistemologia tecnica”, che sono sostituiti via via alla democrazia politica. La struttura della società è divenuta un progetto di ingegneria sociale. Dopo la fine delle ideologie novecentesche, la globalizzazione ha effettuato una trasposizione delle leggi scientifiche alla politica, alla economia e alla governance della società civile. La globalizzazione quindi, altro non è, se non una riviviscenza del positivismo e del sociologismo ottocentesco? La globalizzazione pertanto, nel concepire la società come un “organismo complesso”, non è un fenomeno sostanzialmente antistorico, sebbene ideologicamente progressista?

Come abbiamo detto precedentemente, la globalizzazione non è una riviviscenza positivistica, è il punto di arrivo (in senso semplicemente cronologico) del percorso del liberalismo o, se vogliamo usare un altro termine, del capitalismo, del quale il positivismo e il sociologismo sono semplici corollari, seppur necessari, essendo questi ultimi null’altro che i portati culturali, le casse di risonanza epistemiche del mito del progresso, sul quale il liberalismo si poggia.

La concezione della società come “organismo collettivo”, non è che il punto di arrivo del sogno cartesiano dell’“uomo-macchina”, ovvero dell’applicazione del meccanicismo newtoniano alla società. E, per quanto si cerchi di abbellire o “modernizzare” questo tipo di riduzionismo, parlando di “sistemi complessi” ed altri tipi di cosmesi epistemiche, la linea di pensiero rimane sempre la medesima.

Non dimentichiamo che il concetto di “complessità”, non è altro che una caratteristica attribuita al sistema dall’osservatore e significa semplicemente che le categorie adoperate per descrivere il sistema, fino a quel momento, non sono più adeguate e vanno riadattate per darne una lettura maggiormente “scientifica”. Ovvero che la metafora descrittiva va cambiata e, pertanto, il concetto di “complessità”, nella più parte dei casi, è un buon “rifugio per le canaglie” per evitare di dichiarare la propria incapacità di fornirne un’adeguata metafora.

3. Gli orizzonti utopici del progressismo illuminista, così come quelli delle ideologie novecentesche, sono ormai tramontati. Ci si chiede dunque, quale credibilità possa ancora riscuotere la prefigurazione del mondo globalizzato, quale “il migliore dei mondi possibili”. Il dominio della ontologia economica e della zootecnia sociale, hanno generato una funzionalizzazione omologata dell’umanità alla struttura della società capitalista. Il neoliberismo globalista ha creato un mondo dominato da una oggettività immanente, non suscettibile di trasformazioni. Secondo quanto affermato da Emiliano Brancaccio, oggi, “si riesce a concepire perfino la fine della vita sulla terra, ma non la fine del capitalismo”. Il migliore dei mondi possibili non si rivela quindi una utopia incompatibile con il neoliberismo che concepisce se stesso come “la fine (e quindi anche il fine) della storia”?

Anche qui, l’immagine del “migliore dei mondi possibili” è qualcosa che riguarda esclusivamente l’osservatore, ovvero è una figura retorica che riflette le predilezioni e gli auspici di coloro i quali la propugnano. In ultima analisi, della loro ideologia, ovvero un’immagine ideale trasformata in un tèlos da perseguire politicamente.

Da questo punto di vista il capitalismo, o il liberalismo sono, di fatto, contrassegnati da un’oggettività immanente. In questo caso, adoperiamo i due termini come sinonimi, in quanto il “capitalismo”, che è terminologia marxiana indica il tèlos del sistema, ovvero l’accumulazione di capitale, mentre “liberalismo” che, nell’inglese d’oltre oceano suona come “free market economy”, ne è l’imprescindibile mezzo.

Siccome l’accumulazione di capitale, esponenziale ed infinita, e l’economia di libero mercato sono caratteristiche imprescindibili per questo tipo di sistema, esso è dominato, consustanziato, da questo tipo di oggettività immanente che, oggi, permea qualsiasi angolo del globo (la globalizzazione), ogni azione ed ogni pensiero della più parte degli esseri umani, dal punto di vista fattuale ancora più che da quello ideologico.

4. La crisi pandemica ha prodotto anche una crisi economica mondiale dagli effetti devastanti. La pandemia ha messo in luce la precarietà e anche la fallacità dei meccanismi su cui è strutturata l’economia globale. L’economia, nell’affrontare la crisi sanitaria, ha dunque dovuto rinunciare al proprio primato a favore della scienza. Del resto, economia e scienza costituiscono gli elementi fondamentali della ideologia del progresso. Il neoliberismo è comunque un fenomeno tecnocratico, che con la pandemia si è mutato in iatrocratico. Tuttavia, ci si domanda: la crisi pandemica non si è rivelata una fase fondamentale di un processo evolutivo del capitalismo già in atto? La scienza, dopo il superamento della pandemia, non si rivelerà funzionale ad una economia che nel suo sviluppo, si evolve e si alimenta delle grandi crisi, siano esse politiche, belliche, economiche o sanitarie? Il progetto del Grande Reset, la crescita incontrollata della economia finanziaria a discapito della economia reale, la rivoluzione digitale, non sono fenomeni che prefigurano l’avvento della incipiente era postmoderna?

È evidente come il sistema-mondo capitalistico e di libero mercato, essendo estremamente intrecciato ed interdipendente, può funzionare in maniera efficiente solo secondo il principio del coeteris paribus , ovvero se non si verificano grossi “intoppi”” o perturbazioni che possano interrompere i flussi finanziari, produttivi o di distribuzione delle merci.

Un evento come quello che si è verificato (senza addentrarci nei particolari sul merito, ossi ala veridicità del racconto, l’appropriatezza delle misure adottate, le finalità “collaterali”, ecc.) non poteva non creare gravi scompensi nel funzionamento della “megamacchina” (per usare la metafora cartesiana di Lewis Mumford), scompensi che sono ben lungi dall’essersi ancora manifestati nella loro effettiva ampiezza.

Possiamo vedere, quello che è avvenuto, come il manifestarsi di una di quelle crisi cicliche che compaiono, periodicamente, nella dinamica del capitalismo, il cui precedente più vicino si può riscontrare nel periodo che va dal 1914 al 1945, quando il centro di accumulazione capitalistico si stava spostando dall’Europa agli Stati Uniti.

Non sono un appassionato di definizioni, tanto meno di quelle che scaturiscono dall’inesauribile cornucopia neolinguistica della modernità. Trovo che i termini “postmoderno”, “transumano”, “postumano”, “IV rivoluzione industriale” siano da consegnare ad un’ideale pattumiera semantica. Non sono altro che “significanti” che vengono reiteratamente adoperati come se avessero un significato reale, per convincere le folle a condividere quel significato che è attribuito ad essi da coloro i quali li hanno coniati e li propugnano, allo scopo di indicare un destino immanente per l’umanità.

“Nuova rivoluzione industriale”, ad esempio, non indica altro che un’automazione sempre più spinta, in accordo con i mezzi tecnici che, oggi si hanno a disposizione: nulla di nuovo sotto il sole. Già Günter Anders, ne “L’uomo è antiquato”, poneva il problema in termini analoghi a quelli con i quali è posto oggi (solo che oggi non parlano di “problema” ma di “opportunità”), denunciando, già all’epoca (negli anni ’50), come il lavoro fosse destinato a diventare “il principale prodotto da produrre”.

La dinamica del capitalismo era già ben chiara ai tempi di Marx o, quantomeno, dovrebbe esserla oggi, ai temi di Braudel e Wallerstein, così come la dinamica del neoliberalismo, se non fosse stata chiarita a sufficienza dagli scritti di Foucault e David Harvey, dovrebbe almeno esserlo da quelli di Phillip Mirowski.
Pertanto non vi è nulla di particolarmente nuovo in queste dinamiche, esse stanno semplicemente seguendo le traiettorie evolutive che sono connaturate e consustanziali al sistema.

L’epistemologia della modernità non è altro che un denominare vecchi concetti e vecchi fenomeni con parole nuove.