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I fondamenti antropologici dell’ideologia del profitto

di Alain de Benoist - 26/11/2019

I fondamenti antropologici dell’ideologia del profitto

Fonte: Barbadillo

(Pubblichiamo, grazie alla traduzione di Francesco Marotta, la relazione di Alain de Benoist per un convegno dedicato al profitto e all’ideologia del profitto, temi approfonditi nell'ultimo libro pubblicato in Italia, Critica del liberalismo. La società non è un mercato)

Dal momento che questo convegno è dedicato, nello specifico, al profitto e all’ideologia del profitto, vorrei provare a mostrare inizialmente in che cosa la nozione di profitto si distingue da quella di beneficio ed in seguito in che cosa l’ideologia del profitto si ordina ad un modello antropologico che si potrebbe definire come l’uomo della civilizzazione del profitto.
Beneficio e profitto sono spesso considerati come sinonimi. Eppure mi sembra che essi non abbiano esattamente lo stesso senso, e soprattutto che non abbiano la stessa portata. Il beneficio è una nozione molto semplice. In senso stretto, e non nel senso metaforico del termine, esso si rapporta al guadagno realizzato al momento di un’operazione commerciale o di uno scambio commerciale. Esso corrisponde per esempio alla differenza tra il prezzo di vendita e il prezzo di costo, o ancora all’eccedenza degli incassi sulle spese, cioè ad una semplice trasformazione della ricchezza. Costituisce una ricchezza ricevuta in cambio di una ricchezza fornita.
Il profitto ha una portata molto più generale. Certamente anch’esso ha un’accezione commerciale, ma designa tra l’altro ogni forma di miglioramento, generalmente quantitativa, di una situazione data. Trarre profitto da qualche cosa vuol dire fare risultare per sé qualche cosa di concretamente apprezzabile. Mettere a profitto, vuol dire utilizzare in maniera tale da trarre tutti i vantaggi possibili. Dal momento che il beneficio si riferisce ad una semplice realtà contabile, neutra per definizione, il profitto può essere l’oggetto di una valutazione morale: si parla per esempio di “profitti illeciti” o di “profitti di usurai”. Il profitto, infine, non misura soltanto la differenza tra il prezzo di vendita e il prezzo di costo, ma tutto ciò che si riferisce ad un’attività economica in più del costo della materia prima e del salario del lavoro- ciò che portava Marx a definire il profitto come “una certa quantità di lavoro non pagato”. Contrariamente al beneficio, il profitto non comporta nessun principio d’auto-limitazione. Non è assolutamente governato che dalla ricerca di un “sempre più”.
La ricerca del profitto nel passato è sempre stata uno stimolante naturale dell’attività economica ma questa ricerca non doveva necessariamente ispirare il comportamento di ciascuno. Un certo biasimo al contrario si attribuiva nei confronti di comportamenti puramente interessati, ai quali si opponeva volentieri le virtù di generosità, di disinteressamento o di gratuità. Si considerava allora che c’era più merito nell’intraprendere dei compiti difficili senza la speranza di trarre un qualcosa, piuttosto che nell’essere motivati dal miraggio di un guadagno. Si lodava il comportamento del soldato pronto a dare la sua vita per il proprio paese, si ammirava la presa di rischio allorquando essa era motivata dall’onore, in breve un’approvazione implicita si attribuiva ai comportamenti disinteressati, anche se (o precisamente perché) nessuno n’era capace.
Questa visione del mondo, considerata inizialmente come una concezione etica, basata su un certo numero di valori, ma che aveva delle conseguenze sociologiche tanto forti quanto immediate, a poco a poco sparisce nello stesso tempo in cui sparivano le società tradizionali. La modernità, generalizzando il modello dello scambio commerciale a danno dell’ideologia del dono e del contro dono, ha progressivamente screditato la gratuità, giacché essa stessa era ormai considerata come “irrazionale”, in quanto sinonimo d’improduttività – dal momento che l’unico criterio di produttività era ormai il profitto. Nel corso della storia europea questo processo è stato direttamente legato all’ascesa progressiva della classe e dei valori borghesi. La borghesia si è progressivamente emancipata dai valori aristocratici e dai valori popolari e, dopo avere conquistato la propria autonomia, non ha tardato ad imporre all’insieme della società i propri valori. Come tutti sanno, sul piano politicoideologico, quest’evoluzione si è confusa con l’ascesa dell’individualismo liberale, per il quale il mercato è il paradigma di tutti i fatti sociali.
Sul piano politico il liberalismo, è la dottrina che divide la società in un certo numero di “sfere”, e che pretende che la “sfera economica” debba essere resa autonoma rispetto al potere politico, sia per delle ragioni di efficacia ( il mercato non funziona in modo ottimale tranne che nulla venga ad interferire col suo funzionamento “spontaneo”), sia per delle ragioni “antropologiche” (e per definizione nel dominio economico che lo scambio permette nel miglior modo possibile agli individui di ottimizzare liberamente i propri interessi), sia ancora per delle ragioni “politiche” (la libertà del commercio, dice Benjamin Constant, rende libero l’individuo dal potere sociale). Titolare delle libertà e dei diritti che non ritiene di nessun’appartenenza comune, l’individuo è allora considerato come una “persona separata” essenzialmente mossa da un processo egoistico di cui Mandeville (“vizi privati, virtù pubbliche”) assicura, dopo Adam Smith, che essa contribuisce attraverso il gioco della “mano invisibile” al benessere generale e alla felicità di tutti. Parallelamente il potere politico è ridotto allo stretto necessario: esso garantisce l’osservanza delle regole del gioco, in altre parole dello scontro concorrenziale degli interessi e ha il dovere di restare muto (“neutro”) relativamente ai valori, che egli riduce nei migliori dei casi alla sola sfera privata. “guardia” o “servitore della società civile” questo potere politico evidentemente non è più sovrano. Ne risulta che l’individuo può socialmente fare tutto ciò che vuole, fintanto che non interferisce con la libertà altrui, ciò, infatti, lo esporrebbe alle sanzioni previste dalla legge. Poiché il rispetto della legge non ha nulla a che vedere con la morale, allo stesso tempo ogni preoccupazione etica sparirebbe.
Essere umano, ciò ha significato in ogni tempo imporsi sia come persona sia come essere sociale: la dimensione individuale e la dimensione collettiva non sono identiche, ma sono indissociabili. Nella percezione olistica, l’uomo si costruisce egli stesso sulla base di ciò che eredita e in riferimento al suo stesso contesto sociale storico. È a questo modello, che è il modello più generale della storia, che l’individualismo, che bisogna considerare come una particolarità della storia occidentale, viene direttamente ad opporsi. Nel senso moderno del termine, l’individualismo è la filosofia che considera l’individuo come la sola realtà e lo considera come principio d’ogni valutazione. Quest’individuo è considerato in sé, come un’astrazione composta d’ogni contesto sociale o culturale. Mentre l’olismo esprime o giustifica la società esistente in riferimento a dei valori ereditati, trasmessi e condivisi ovvero, in ultima analisi, in riferimento alla società stessa, l’individualismo poggia i suoi valori indipendentemente dalla società per come questo la trova. Ecco perché non riconosce nessuno stato d’esistenza autonoma alle comunità, ai popoli, alle culture o alle nazioni. In queste entità esso non vede che somme di atomi individuali e considera che solo questi ultimi possiedono un valore.
Questo primato dell’individuo sulla collettività è allo stesso tempo descrittivo, normativo, metodologico ed assiologico. Si ritiene che l’individuo sia venuto “in primis”, sia che lo si consideri anteriore al sociale in una rappresentazione mitica della “pre-storia” (anteriorità dello “stato di natura”), sia che gli si attribuisca un semplice primato normativo (l’individuo è ciò che vale di più). Georges Bataille affermava che “alla base d’ogni essere, esiste un principio d’insufficienza”. L’individualismo liberale al contrario afferma la piena sufficienza del singolo individuo. Nel liberalismo, l’uomo può comprendersi come individuo senza dover pensare alla propria relazione con altri uomini nell’ambito di una socialità primaria o secondaria. Proprietario di se stesso, mosso dal suo solo interesse particolare, si definisce, in opposizione alla persona come un essere morale indipendente, “prepolitico” e dunque essenzialmente non sociale.
Nell’ideologia liberale, quest’individuo è, in effetti, titolare dei diritti inerenti alla sua “natura”, la cui esistenza non dipende in alcun modo dall’organizzazione politica o sociale. I governi devono garantire questi diritti, ma non li sapranno fondere. Essendo anteriori ad ogni vita sociale, essi non sono immediatamente assortiti di doveri, poiché i doveri implicano precisamente che c’è stato un inizio di vita sociale: nessun dovere verso gli altri se non c’è nessun “altri”. L’individuo è dunque esso stesso la sorgente dei suoi propri diritti a cominciare dal diritto di agire liberamente secondo il calcolo dei suoi interessi particolari. Si trova allora “in guerra” con tutti gli altri individui, poiché questi ultimi si ritiene agiscano allo stesso modo nell’ambito di una società concepita essa stessa come un mercato concorrenziale.
Gli individui possono scegliere di associarsi tra di loro, ma le associazioni che essi formano hanno un carattere condizionale, contingente e transitorio, poiché esse restano sospese al mutuo consenso e non hanno nessun altro scopo che soddisfare al meglio gli interessi individuali di ciascuna delle parti. La vita sociale, in altri termini, non è altro che soggetta alle decisioni individuali e a scelte interessate. L’uomo si comporta come un essere sociale, non perché ciò è nella sua natura, ma perché si ritiene che egli vi trovi il proprio vantaggio. Se egli non vi trova più vantaggi, può in ogni momento (almeno in teoria), rompere il patto. Ed è anche in questa rottura che egli manifesterà al meglio la sua libertà. In opposizione a questa degli Antichi, che consisteva inizialmente nella possibilità di partecipare alla vita pubblica, la libertà dei Moderni risiede, in effetti, prima di tutto nel diritto di ritirarsene. Ecco perché i liberali tendono sempre a dare della libertà una definizione che è sinonimo d’indipendenza. Così Benjamin Constant celebra “il piacere tranquillo dell’indipendenza individuale privata”, aggiungendo che “gli uomini non hanno bisogno, per essere felici, che di essere lasciati nella perfetta indipendenza su tutto ciò che è relativo alle loro occupazioni, alle loro imprese, alla loro sfera d’attività, alla loro fantasia”. Questo “piacere tranquillo” deve interpretarsi come il diritto di fare secessione, diritto di non essere trattenuto da alcun dovere d’appartenenza né da nessuno di quegli assoggettamenti che, in certe circostanze, possono, in effetti, rivelarsi incompatibili con “l’indipendenza privata”.
I liberali insistono in maniera particolareggiata sull’idea che gli interessi individuali non devono mai essere sacrificati all’interesse collettivo, al bene comune o alla salute pubblica, nozioni che essi considerano inconsistenti. Questa conclusione deriva dall’idea che solo gli individui hanno dei diritti, mentre le collettività, poiché somme d’individui, non saprebbero averne alcuno che appartenga loro come proprio. << L’espressione “diritti individuali” è una ridondanza, scrive così Ayn Rand: non c’è nessun’altra fonte di diritti>>. “L’indipendenza individuale è il primo dei bisogni moderni, affermava ancora Benjamin Constant. Di conseguenza, non bisogna mai domandarne il sacrificio per stabilire la libertà politica”. Prima di lui, John Locke dichiarava che “un bambino non nasce soggetto ad alcun paese”, poiché, diventato adulto, “ha la libertà di scegliere il governo sotto il quale pensa di poter vivere meglio e di unirsi al corpo politico che più gli piace”. L’interesse generale, in queste condizioni, non ha più niente a che vedere con il bene comune. Non ci rinvia più ad una concezione particolare della “buona vita” nel senso aristotelico del termine, più di quanto non ci rinvii a dei valori condivisi. Corrisponde soltanto ad una semplice addizione d’interessi particolari contradditori, tra i quali non può stabilirsi un accordo che attraverso il compromesso ed il mercanteggiare.
La libertà liberale suppone così che gli individui possano fare astrazione delle loro origini, del loro ambiente, del contesto nel quale vivono o nel quale si esercitano le loro scelte, cioè di tutto ciò che fa sì che essi siano ciò che sono e non altrimenti. Essa suppone in altri termini, come dice John Rawls, che l’individuo sia sempre anteriore ai suoi scopi. Niente dimostra pertanto che l’individuo possa comprendersi come un soggetto libero da ogni assoggettamento, né che possa determinare i suoi fini indipendentemente da ciò che lo circonda o da ciò che lo ha preceduto. Niente dimostra d’altro canto che egli preferirà, in ogni circostanza, la libertà a qualsiasi altro bene. Una tale concezione ignora per definizione gli impegni e i compiti che non devono nulla al calcolo razionale. È una concezione puramente formalista, che non permette di rendere conto di ciò che è una persona reale.
L’idea generale è che, l’individuo ha il diritto di fare tutto ciò che vuole fin tanto che l’uso che egli fa della propria libertà non limita quella degli altri. La libertà si definirebbe così come pur espressione di un desiderio che non ha altro limite teorico che l’identico desiderio d’altri, poiché l’insieme di questi desideri è mediato dagli scambi economici. E ciò che già affermava Grotius, teorico del diritto naturale nel XVII secolo: “Non è contro la natura della società umana dedicarsi al proprio interesse, dal momento che lo si faccia, senza ferire i diritti altrui”. Ma è evidentemente una definizione irenica: quasi tutti gli atti umani si esercitano, in un modo o in un altro, a scapito della libertà altrui, ed è quasi del tutto impossibile determinare il momento in cui la libertà di un individuo può essere considerata non d’ostacolo a quella degli altri.
La libertà dei liberali è, infatti, prima di tutto libertà di possedere. Essa non risiede nell’essere ma nell’avere. L’uomo è detto libero nella misura in cui è proprietario – e in primo luogo proprietario di se stesso. Quest’idea che la proprietà di sé determina fondamentalmente la libertà sarà d’altro canto ripresa da Karl Marx.
Alain Laurent definisce la realizzazione di sé come una “insularità ontologica di cui il fine primo risiede nella ricerca della propria felicità. Per gli autori liberali, la “ricerca della felicità” si definisce come la libera possibilità di cercare sempre di ottimizzare il proprio miglior interesse. Ma subito si pone il problema di sapere ciò che bisogna intendere per “interesse”, poiché i sostenitori dell’assiomatica dell’interesse si preoccupano raramente di evocarne la genesi o di descriverne i componenti, non più di quanto essi non si domandino se tutti gli attori sociali sono, in fondo, mossi da interessi identici o se i loro interessi sono commensurabili o compatibili fra di loro. Spinti nelle loro trincee, essi hanno tendenza a dare del termine una definizione triviale: “L’interesse” diventa per loro sinonimo di desiderio, di progetto, d’azione orientata verso uno scopo, etc. Ogni cosa diventando “interesse”, anche l’azione più altruista, la più disinteressata, può allora essere definita com’egoista ed interessata poiché essa risponde all’intenzione volontaria (al desiderio) del proprio autore. Ma in realtà, è chiaro che per i liberali, l’interesse si definisce in primo luogo come un vantaggio materiale che, per essere apprezzato come tale, deve poter essere calcolabile e quantificabile, in altre parole deve potersi esprimere sotto l’orizzonte di quest’equivalente universale che è il denaro.
Il liberalismo deve pertanto fortemente riconoscere l’esistenza del fatto sociale. Ma piuttosto che domandarsi perché c’è del sociale, i liberali si sono soprattutto preoccupati di sapere come quest’ultimo possa stabilirsi, mantenersi e funzionare. La società, si sa, non è secondo loro un’entità diversa dalla semplice addizione dei suoi membri (il tutto non è nient’altro che la somma delle sue parti). Essa non è altro che, il prodotto contingente delle volontà individuali, un semplice assemblaggio d’individui che cercano tutti di difendersi e di soddisfare i propri interessi particolari. Il suo scopo essenziale è dunque di regolare i rapporti di scambio. Questa società può essere concepita, sia come la conseguenza di un atto volontario razionale iniziale (è la finzione del “contratto sociale”), sia come il risultato del gioco sistemico della totalità delle azioni prodotte dagli agenti individuali, gioco regolato dalla “mano invisibile” del mercato, che “produce”il sociale come la risultante non intenzionale dei comportamenti umani. L’analisi liberale del fatto sociale poggia così, sia sull’approccio contrattuale (Locke), sia sul ricorso alla “mano invisibile” (Smith), sia ancora sull’idea di un ordine spontaneo, non subordinato ad un qualunque progetto (Hayek).
I liberali sviluppano tutti l’idea di una superiorità della regolazione attraverso il mercato, che sarebbe il mezzo più efficace, più razionale e dunque anche il più giusto, per armonizzare gli scambi. In prima analisi, il mercato si presenta prima di tutto come una “tecnica d’organizzazione” (Henri Lepage). Dal punto di vista economico, esso è sia il luogo reale in cui si scambiano le mercanzie, che l’entità virtuale in cui si formano in maniera ottimale le condizioni dello scambio, vale a dire l’adattamento dell’offerta e della domanda ed il livello dei prezzi.
Ma i liberali non s’interrogano nemmeno sull’origine del mercato. Lo scambio commerciale è, in effetti, per costoro il modello “naturale”di tutti i rapporti sociali. Se ne deduce che il mercato è anch’esso un’entità “naturale”, definendo un ordine anteriore ad ogni deliberazione e ad ogni decisione. Costituendo la forma di scambio più conforme alla natura umana, il mercato sarebbe presente in tutte le società dall’alba dell’umanità. Si ritrova qui la tendenza d’ogni ideologia a “naturalizzare”i suoi presupposti, in altre parole a presentarsi non per ciò che essa è, all’occorrenza una costruzione dello spirito umano, ma come un semplice descrittivo, una semplice ritrascrizione dell’ordine naturale. Dal momento che lo Stato è parallelamente rigettato relativamente all’artificio, può allora imporsi l’idea di una regolazione “naturale”del sociale attraverso il mercato.
Considerando la nazione come mercato, Adam Smith opera una dissociazione fondamentale tra la nozione di spazio e quella di territorio. Rompendo con la tradizione mercantilista che identificava ancora territorio politico e spazio economico, mostra come il mercato non saprebbe per natura essere limitato da confini geografici particolari. Il mercato non è, in effetti, tanto un luogo quanto una rete. Questa rete ha la vocazione a diffondersi fino ai confini della terra, poiché il suo unico limite, in fin dei conti, sta nella facoltà di scambiare. “Un commerciante, scrive Smith in un celebre passaggio, non è necessariamente cittadino di un paese in particolare. Gli è assolutamente indifferente in quale luogo egli sviluppi il suo commercio, ed è superfluo rimanere disgustati, allorquando egli decida di spostare il proprio capitale da un paese ad un altro e con lui tutta l’industria che questo capitale metteva in attività”.
Il principale vantaggio della nozione di mercato è che essa permette ai liberali di risolvere la difficile questione del fondamento dell’obbligo nel patto sociale. Il mercato può, in effetti, essere considerato come una legge regolatrice dell’ordine sociale senza legislatore. Regolato dall’azione di una “mano invisibile”, essa stessa neutra per natura, poiché non incarnata da individui concreti, instaura un modo di regolazione sociale astratta, fondata su delle “leggi” oggettive che si ritiene permettano di regolare le relazioni tra gli individui, senza che esista tra loro alcun rapporto di subordinazione o di comando. L’ordine economico sarebbe così chiamato a realizzare l’ordine sociale, l’uno e l’altro potendosi definire come un’emergenza non istituita. L’ordine economico, dice Milton Fridmann, è “la conseguenza non intenzionale e non voluta delle azioni di un gran numero di persone mosse soltanto dai propri interessi”. Quest’idea, abbondantemente sviluppata da Hayek, s’ispira alla formula d’Adam Ferguson (1767) rappresentando dei fatti sociali che “derivano dall’azione dell’uomo, ma non dal suo proggetto”.
Conosciamo la metafora della “mano invisibile” sviluppata da Adam Smith: “Ricercando il proprio guadagno, l’individuo [è condotto] da una mano invisibile a portare avanti un suo scopo che non faceva assolutamente parte delle sue intenzioni”. Questa metafora va molto di là dell’osservazione, somma tutta banale, che i risultati dell’azione degli uomini sono spesso ben diversi da quelli che essi avevano previsto (ciò che Max Weber chiamava il “paradosso delle conseguenze”). Smith situa, in effetti, quest’osservazione in una prospettiva assolutamente ottimista. “ogni individuo, aggiunge, mette senza sosta, tutti i propri sforzi a ricercare l’impiego più vantaggioso per tutto il capitale di cui egli può disporre; è anche vero che egli ha come scopo il proprio beneficio e non quello della società; ma le cure che esso si dà per trovare il proprio vantaggio personale lo conducono naturalmente, o piuttosto necessariamente, a preferire precisamente quel genere di impiego che si rivela essere il più vantaggioso per la società”. E andando più lontano: “Non ricercando altro che proprio interesse personale, egli opera spesso in maniera ben più efficace per l’interesse della società di quanto non ne avesse realmente avuto lo scopo”. A partire dall’iniziativa individuale, si ritiene che la “mano invisibile” ripartisca spontaneamente il lavoro e le entrate in maniera ottimale, come in un sistema chiuso, privo di entropia, cioè in modo tale da fare la felicità di tutti.
Le connotazioni teologiche di questa metafora sono evidenti: la “mano invisibile” non è che una metamorfosi profana della Provvidenza. Ma bisogna precisare che contrariamente a ciò che si crede spesso, Adam Smith non assimila il meccanismo stesso del mercato al gioco della “mano invisibile”, poiché non fa intervenire quest’ultimo che per descrivere il risultato finale della composizione degli scambi commerciali. D’altro canto, Smith ammette ancora la legittimità dell’intervento pubblico allorquando le sole azioni individuali non riescono a realizzare il bene pubblico. Hayek vieta per principio ogni approccio globale della società: nessun’istituzione, nessun’autorità politica può assegnarsi degli obiettivi che potrebbero rimettere in causa il buon funzionamento “dell’ordine spontaneo”. In queste condizioni il solo ruolo che la maggior parte dei liberali vogliono attribuire allo Stato, è quello di garantire le condizioni necessarie al libero gioco della razionalità economica all’opera sul mercato. Lo Stato non saprebbe avere quelle finalità che gli sono proprie. Non è là che per garantire i diritti individuali, la libertà degli scambi e il rispetto delle leggi. Dotato non tanto di funzioni quanto d’attribuzioni, deve in tutti gli altri domini rimanere neutro e a rinunciare a proporre un modello di “buona vita”.
Le conseguenze della teoria della “mano invisibile” sono decisive, in particolare sul piano morale. In qualche frase, Adam Smith riabilita, in effetti, molto esattamente dei comportamenti che i secoli passati avevano sempre condannato. Affermando che l’interesse della società è subordinato all’interesse economico degli individui, fa dell’egoismo il miglior modo di servire gli altri. Cercando di ottimizzare il nostro migliore interesse personale, noi operiamo senza saperlo, e senza che noi stessi lo vogliamo, all’interesse di tutti. Il libero confronto sul mercato degli interessi egoisti permette “naturalmente, o piuttosto necessariamente”, la loro armonizzazione attraverso il gioco delle “mano invisibile”, che li farà concorrere “all’optimum” sociale. Non c’è nulla d’immorale dunque a ricercare come priorità il proprio interesse, poiché in fin dei conti l’azione egoista di ciascuno sfocerà, come per caso, nell’interesse di tutti. E’ ciò che Frederic Bastiat riassumerà con una formula: “Ognuno, lavorando per sé, lavora per tutti”. L’egoismo non è dunque alla fin fine che altruismo. E sono gli atti dei poteri pubblici che al contrario meritano di essere denunciati come “immorali”, ogni volta che con il pretesto della solidarietà, contraddicono il diritto degli individui d’agire in funzione dei loro soli interessi.
Il liberalismo lega individualismo e mercato dichiarando che il libero funzionamento del secondo è anche il garante della libertà individuale. Assicurando il migliore rendimento degli scambi, il mercato garantisce, in effetti, l’indipendenza d’ogni agente. Idealmente, se il buon funzionamento del mercato non è ostacolato da alcunché, quest’allineamento si opera in modo ottimale, permettendo di raggiungere un insieme d’equilibri parziali che definiscono l’equilibrio globale. Definito da Hayek come “catallaxa”, il mercato costituisce un ordine spontaneo e astratto, supporto strumentale e formale dell’esercizio delle libertà private. Il mercato non rappresenta dunque soltanto la soddisfazione di un ideale di ottimalità economica, ma la soddisfazione di tutto ciò cui aspirano gli individui considerati come dei soggetti generici di libertà. Infine, il mercato si confonde con la giustizia stessa, ciò che porta Hayek a definirla come un “gioco che aumenta le possibilità di tutti i giocatori”, prima di aggiungere che, in queste condizioni, i perdenti sarebbero venuti immotivatamente a lamentarsene mentre invece non dovrebbero esclusivamente prendersela che con se stessi. Infine, il mercato sarebbe intrinsecamente “pacificatore”, poiché poggia sul “dolce commercio”che, sostituendo per principio le negoziazioni al conflitto, neutralizza contemporaneamente il gioco della rivalità e dell’invidia.
Non ci si può allora stupire che l’ascesa dell’individualismo liberale si sia tradotto, inizialmente attraverso una dislocazione progressiva delle strutture organiche d’esistenza, caratteristiche delle società olistiche, successivamente attraverso una disgregazione generalizzata del legame sociale, e infine attraverso una situazione di relativa assenza di leggi e di norme sociali, in cui gli individui si ritrovano ogni volta sempre più stranieri gli uni agli altri e potenzialmente sempre più nemici gli uni degli altri, poiché vengono considerati tutti insieme in questa forma moderna di “lotta di tutti contro tutti” che è la concorrenza generalizzata. Tale è la società descritta da Tocqueville, in cui ogni membro, “messo in disparte, è come straniero per tutti gli altri”. L’individualismo liberale tende a distruggere in ogni luogo la socialità diretta, che per lungo tempo ha impedito l’emergenza dell’individuo moderno, e le identità collettive che gli sono associate. “Il liberalismo, scrive Pierre Rosanvallon, fa in qualche modo della depersonalizzazione del mondo, le condizioni del progresso e della libertà”.
Il mondo del profitto, oggi lanciato nella folle corsa in avanti della crescita indefinita, dell’illimitazione della mercanzia, e della trasformazione della ricchezza reale in ricchezza speculativa e pecuniaria, è dunque prima di tutto ciò che consacra un tipo d’uomo nuovo, precisamente definito dalla sua propensione “naturale”a ricercare, prima di tutto, il proprio profitto in tutte le sfere della sua esistenza personale. L’uomo dell’ideologia del profitto è un uomo che fondamentalmente, non è mosso che dal desiderio di ottimizzare, in ogni circostanza, il suo migliore interesse, che s’impegna in una direzione data esclusivamente in funzione dei risultati che si aspetta, che non prende iniziative tranne che relativamente a ciò che esse stesse possano produrre per lui. I liberali considerano che questo tipo d’uomo, per il quale tutto si compra e tutto si vende, è l’uomo “naturale” liberato dalle costrizioni e reso ai suoi più normali impulsi. La storia delle idee, nonché l’esperienza storica, ci mostra molto fortemente che egli non è nulla.