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I luoghi del lavoro e la disintermediazione sociale

di Mario Bozzi Sentieri - 05/07/2021

I luoghi del lavoro e la disintermediazione sociale

Fonte: Mario Bozzi Sentieri

Luoghi e modelli sociali

LA NUOVA GEOGRAFIA DEL LAVORO

La geografia del lavoro segue i tempi, le modalità produttive e le “visioni” collettive."La cartina economica del mondo – scriveva, nel 2013,  Enrico Moretti (La nuova geografia del lavoro)  -  sta cambiando rapidamente e radicalmente. Nuovi centri di propulsione economica stanno soppiantando i vecchi. Città che fino a qualche decennio fa non erano che minuscoli punti a stento individuabili sulle cartine si sono trasformate in floride megalopoli con migliaia di nuove aziende e milioni di nuovi posti di lavoro".

Recentemente, sull’onda  del Covid19, la trasformazione del mercato del lavoro e quindi la stessa  geografia del lavoro ha subito ulteriori, significative trasformazioni:  al 1° marzo del 2020 i lavoratori in smart working erano tra 500 e 600mila, in dieci giorni sono diventati quasi 8 milioni (7,3 milioni, a maggio 2021). Con significative ricadute dal punto di vista contrattuale. Lo spiega uno studio su 326 intese siglate tra aziende e sindacati da marzo a dicembre 2020, realizzato dalla Fondazione Di Vittorio. Si tratta, nel dettaglio, di 215 contratti e di 111 protocolli.

Testi che restituiscono lo stato dell’arte della negoziazione di secondo livello e spiegano come: “L’obbligo di mantenimento dei distanziamenti individuali, l’inagibilità di luoghi destinati alla socializzazione, la previsione di ingressi e uscite differenti, hanno ridisegnato lo spazio del lavoro. La ridefinizione di turni e scaglionamenti, l’esplosione dello smart working, hanno modificato il tempo del lavoro e la sua percezione”. Il punto di partenza è l’oggettivo monopolio del tema della sicurezza “declinato – si legge - soprattutto sulla questione della prevenzione e delle nuove prerogative assunte dai rappresentanti della sicurezza”. Ma evidentemente il processo ha ricadute più vaste, che vanno ben oltre l’emergenza sanitaria, modificando i luoghi del lavoro ed il rapporto tra lavoratori e territori. 

Uno studio commissionato da Citrix alla società di ricerche OnePoll e realizzato su un campione di mille lavoratori attivi sul territorio italiano ha provato a mappare questo fenomeno, cercando di capire le ragioni che potrebbero spingere molti lavoratori e professionisti a “scappare” dalle città per trasferirsi a tempo determinato in un differente domicilio. Il luogo in cui si vive, questa una delle prime verità emerse dall'indagine, sembra essere diventato meno importante per quel che riguarda le opportunità di carriera e di crescita professionale, e la scelta di abbandonare la città (o comunque la maggiore propensione a poterlo fare) è la diretta conseguenza di questo cambio di approccio.

La percezione del lavoro, come osservano gli esperti, è quindi sempre più slegata da un luogo fisico specifico e lo testimonia il fatto che le persone interessate a un trasferimento a causa del Coronavirus sono il 39% del totale. Di questi, più di un terzo vuole andare a soggiornare in luoghi più tranquilli e cerca un costo della vita più basso, mentre più di un quarto è convinto del fatto che la pandemia abbia dimostrato loro di poter lavorare ovunque essi si trovino.

L’altra faccia di questa “privatizzazione” del lavoro è però il rischio di favorire forme di isolamento  del lavoratore con conseguenti ricadute sociali.  Può essere la  vita online il nostro prossimo new normal ? È davvero possibile ricostruire la società dopo il lockdown senza "scomodarsi" nelle relazioni? Siamo davvero pronti a rinunciare alla "scomodità" delle relazioni in nome della autonomia, agilità, produttività di una "on-life"? Ha avanzato  più di un dubbio a questo riguardo il sociologo Luca Pesenti in un articolo pubblicato sul numero di maggio 2021 di Tempi. Nel suo pezzo Pesenti offre un assaggio dei risultati di una ricerca dell'Università Cattolica su questi mesi di improvviso e  generalizzato "lavoro domiciliare forzato":”Raccogliendo nel tempo il punto di vista di un ampio campione di lavoratori e lavoratrici, ci si rende conto che di mese in mese sta diminuendo la soddisfazione per questa modalità di lavoro forzato, sta peggiorando il giudizio sulla possibilità di gestire meglio gli impegni della propria vita e sull’organizzazione del tempo dedicato al lavoro, aumenta la fatica legata alla necessità di restare inchiodati per lunghe ore di fronte al pc e soprattutto sta crescendo una sensazione nettissima: l’ufficio, i colleghi, le relazioni ci mancano sempre di più”.

La “ubriacatura”  per lo smart working sembra passata persino nella Silicon Valley. Secondo Amazon, solo la presenza fisica dei dipendenti nello stesso luogo permette di “inventare, collaborare e imparare insieme in modo efficace”. Pare che neanche i colossi del web nella ultratecnologica e futuristica Silicon Valley possano fare a meno dei rapporti umani “fisici” per promuovere il loro mondo digitale, wireless e senza legami.

La “società comoda”, ma senza relazioni, non è destinata ad imporsi come modello assoluto. E’ piuttosto in un giusto equilibrio tra lavoro a distanza e lavoro in presenza che sembra si stia assestando la nuova geografia del lavoro. Anche qui la partita si gioca sull’uso “sostenibile” della tecnologia, sull’umanesimo del lavoro e  sulle ragioni della socialità. Favorire i processi di disintermediazione non fa bene a nessuno. Né alle aziende. Né al lavoratore, decontestualizzato rispetto alle appartenenze sociali (familiari, territoriali, aziendali, di categoria, sindacali).