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Il capitalismo è una religione?

di Raffaele Iannuzzi - 07/09/2023

Il capitalismo è una religione?

Fonte: Franco Cardini

IL CAPITALISMO È UNA RELIGIONE? ALCUNE NOTE SU CAPITALE, TERRITORIO, SOGGETTIVITÀ E POLITICHE COMUNITARIE

Ai miei compagni di ieri e ai miei fratelli di oggi, dissimili e uniti a costruir nuovo futuro.
(Friedrich Nietzsche)

Scrive Nietzsche in Aurora (1879-1881):

In confronto col modo di vivere di interi millenni dell’umanità, noi uomini di oggi viviamo in epoca assai poco ligia al costume […]. Così, per esempio, anche il principio fondamentale: eticità non è nient’altro (dunque, in particolar modo, niente più) che obbedienza ai costumi, di qualunque specie essi possano essere. I costumi peraltro sono il modo tradizionale di agire e di valutare. In cose dove nessuna tradizione comanda, non esiste eticità; e quanto meno la vita è determinata dalla tradizione, tanto più piccolo diventa il circolo dell’eticità. L’uomo libero è privo di eticità, poiché egli vuole dipendere in tutto da sé e non da una tradizione: in tutti gli stati primordiali dell’umanità, “malvagio” ha lo stesso significato di “individuale”, “libero”, “arbitrario”, “inconsueto”, “non previsto”, “incalcolabile”. Sempre commisurandoci al criterio di valutazione di questi stati, se un’azione viene compiuta non perché la tradizione comanda, ma per altri motivi (per esempio, a cagione dell’utilità individuale), anzi perfino per quegli stessi motivi che un tempo hanno costituito il fondamento di una tale tradizione, viene detta non conforme all’eticità e viene sentita come tale anche dal suo autore: essa, infatti, non è stata compiuta per obbedienza alla tradizione. Che cos’è la tradizione? Un’autorità superiore, alla quale si presta obbedienza non perché comanda quel che ci è utile, ma soltanto perché ce lo comanda (Libro primo, n. 9).

La martellante filosofia di Nietzsche (1844-1900) affonda il colpo sul corpo, considerato “decadente”, dell’etica tradizionale, in piena età bismarckiana, mentre, oltremanica, il capitalismo anglosassone sta già organizzando la sua macchina produttiva. In questa temperie storica, la voce “tradizione” appartiene al vocabolario arcaico, destinato irrimediabilmente alla scomparsa. Nessuno, in età moderna, può, infatti, obbedire ad un’autorità superiore, che sia religiosa o militare, e l’utile, con il suo potenziale di scardinamento della struttura etica originaria, è l’idea-forza più efficace per colonizzare ogni spazio vitale dell’esistenza terrena. Il Moderno non vive di tradizione, ma di utile e calcolo, di razionalità calcolante e politica di potenza, ponendo al centro del suo orizzonte l’individuo, che sia homo oeconomicus o semplice consumatore.
Qui Nietzsche trascura alcune variabili di non piccolo momento, tra le quali l’alleanza tra capitale e tecnologia applicata, momento prodromico della futura organizzazione taylorista e fordista, nonché la crescita di “apparati ideologici di Stato”, per dirla con Althusser (1918-1990), tra i quali il complesso militare-industriale prussiano e americano. Lo scontro fra gli imperi e i nuovi assetti geopolitici dominanti era già materia del discorso pubblico; la Dottrina Monroe (1823) aveva già dettato la linea del predominio americano nell’emisfero occidentale, altra invenzione ideologica destinata a fare scuola, e i partiti di massa, in America e, in misura e modalità diverse, in Europa, soprattutto nell’area tedesca, stavano facendo le prove generali di rappresentanza politica. In questo scenario, la modernità politica non è solo liberazione delle potenzialità individuali, ma rappresenta anche il tentativo di contenimento degli “animal spirits” propri dell’homo oeconomicus. Le complesse vicende della Prima e della Seconda Internazionale socialista documentano ampiamente questa tesi.
Occorre, tuttavia, registrare un dato emergente dal discorso nietzschiano: l’antitesi tradizione-modernità. Un’antitesi che, a suo modo, anche Marx (1818-1883) fa sua, basti leggere quanto egli scrive nel Manifesto del Partito comunista (1848), trent’anni prima di Nietzsche:

La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. […] Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Sarà poi lo stesso Marx, una ventina di anni dopo, a mettere a punto la categoria centrale di questo processo: la “sussunzione reale”. Il capitale “sussume”, ossia pone sotto di sé la potenza intellettuale umana, il capitale umano e il capitale cognitivo. L’uomo moderno ora non è soltanto homo oeconomicus, ma è una protesi del sistema produttivo, il quale, a sua volta, diventa il Gestell, in termini heideggeriani, l’impianto o l’imposizione di ciò che è e che domina la vita umana nella sua interezza. La rivoluzione continua del capitale non è un dinamismo estrinseco ed esterno alla vita umana, ma è l’essenza di una nuova metafisica non tradizionale, un novum destinato a perpetuarsi. Ѐ certo che non si possa uscire da questo impianto metafisico, da questo movimento permanente che riproduce incessantemente se stesso, senza l’apporto teoretico della categoria di substantia. Questa nuova realtà storicamente determinata che tende, tuttavia, ad eternizzarsi, sembra vestire i panni di una sorta di divinità gnostica, destinata a diventare la forma della sapienza universale, il logos del mondo. “Et Verbum caro factum est” (Gv 1,14): ora questa verità, principio originario della tradizione cristiana, europea ed occidentale (si riprenda il già citato Nietzsche) può rovesciarsi in un dominio dell’impianto tecno-capitalistico capace di sussumere il mondo storico e umano sotto le sue forme. Questa è una paradossale religione “irreligiosa”, nata dal rovesciamento della Traditio attraverso l’incorporazione della dimensione totalizzante del culto.

Capitalismo come religione. A partire da Walter Benjamin
Il passaggio intermedio tra Marx, inserito nella fase eroica della modernità, ultimamente apologetica della borghesia capitalistica e del capitalismo qua talis – un momento in cui il marxismo e il liberalismo sono paradossalmente alleati in questa esaltazione delle forze produttive –, e l’età universalmente definita “post-moderna”, in assenza di miglior definizione, è scandito da tre dinamiche: 1) il crollo del comunismo; 2) la nascita di un nuovo tipo di materialismo storico; 3) l’emergere di una triade storico-ideologica: il mercato unico, il pensiero unico, l’uomo a taglia unica.
La dimensione monolitica e omologante del comunismo, che oggi potremmo definire “classico”, ha invaso il campo del liberalismo, il quale, sconfitto il nemico storico, ha successivamente inscritto nel suo corpo ideologico, con paradossale mimetismo, una legge assoluta, che nega alla radice la dialettica di spinte e controspinte presenti in autori come Benjamin Constant (1767-1830), John Stuart Mill (1806-1873) e un gigante come Tocqueville (1805-1859), da molti considerato il padre fondatore della sociologia moderna.
Come osserva Tremonti: “Il mercato unico è diventato la base totalitaria del pensiero unico. Ѐ così che, prima nell’economia e poi nella società, si è impiantata la fabbrica del nuovo uomo post-moderno. Un tipo umano che non solo consuma per esistere, ma che esiste per consumare. Un soggetto che pensa come consuma e consuma come pensa, per cui i vecchi simboli civili e morali sono sostituiti dalle icone e dalle immagini commerciali” (Rischi fatali. L’Europa vecchia, la Cina, il mercatismo suicida: come reagire, Mondadori, Milano, 2005, p. 33).
A conclusioni di questo tenore giunsero prima filosofi di diversa provenienza culturale: Augusto Del Noce (1910-1989), Costanzo Preve (1943-2013) e Jean-Claude Michéa. La tesi per tutti è rigorosa e tranchant: il nichilismo post-moderno è il nemico da affrontare.
Ma il percorso non è finito. C’è un altro capitolo da segnalare, in questo romanzo d’appendice post-moderno: il capitalismo come religione e culto praticato dal mondo globalizzato ormai trasformatosi in mercato unico e pensiero unico.
Walter Benjamin (1892-1940) aggredisce la questione con asciuttezza analitica, in un frammento del 1921, pubblicato postumo con il titolo Capitalismo come religione: il capitalismo presenta “tre tratti” specifici di una vera e propria “struttura religiosa”.
Primo: il capitalismo “è una pura religione di culto, forse la più estrema che ci sia mai stata”.
Secondo: questo culto ha “una “durata permanente”.
Terzo: questo culto è “indebitante”.
In sostanza, il capitalismo non ha bisogno di una “dogmatica speciale” e tantomeno di una “teologia”, esso stesso, nel suo farsi, è immanenza assoluta, un piano di immanenza caratterizzante l’intera storia e l’antropologia umana, ben oltre l’homo faber del Cinquecento e l’homo oeconomicus del Settecento-Ottocento. Il culto capitalistico è pura pratica, con una caratteristica del tutto irregolare rispetto alla religione: esso non salva l’uomo, liberandolo dalla colpa, ma distrugge il reale e, con ciò, conduce l’uomo sull’orlo dell’abisso del debito, che, in tedesco, si definisce Schuld, parola con ampia carica polisemica (debito, colpa, peccato, errore, mancanza) indebitando. L’uomo a taglia unica, consumatore assoluto, obbligatoriamente libero (trattasi di “libertà obbligatoria”) di darsi al mercato come al dio della storia universale, è di fatto un soggetto caricato di pena, colpa, debito. Indebitato con le banche, pagatore seriale di mutui e incapace di uscire fuori dalla ruota del criceto. Su questo piano, secondo Benjamin, singolarmente vicino a quanto sostenuto da Tremonti, e, prima ancora, da una lunga schiera di critici di sinistra del socialismo cosiddetto “realizzato”, prodotto del costruttivismo social-burocratico (il “collettivismo burocratico”, per dirla con Bruno Rizzi, 1901-1977), asfittico e oggettivamente contiguo al capitalismo novecentesco intriso di managerialismo dispotico.
La politica ha pagato un prezzo durissimo, impotente di fronte a meccanismi che in gran parte derivano dalla sua estensiva azione su larga scala (senza lo Stato, il capitalismo non avrebbe preso forma strutturale e organizzativa nelle società avanzate), e oggi si muove come il fantasma sulla scena più celebre di Shakespeare.
A chiudere porte e finestre della storia sembra pararsi innanzi a noi il vecchio acronimo thatcheriano: T.I.N.A. There Is No Alternative. Niente di più disperante? Certo, c’è anche qualcuno che si è tolto la vita di fronte a questo Leviatano tecno-strutturale onniavvolgente. Ma anche questa è una reazione di tipo opposto e speculare all’azione del nemico: dunque, nichilismo impotente. Certo è che l’acronimo in questione serra i ranghi della militanza mistico-religiosa del capitalismo come religione e, nel perimetro della sua forma espressiva, non c’è molto da trattenere fra le mani.
L’insieme delle questioni qui abbozzate era già stato tematizzato da Giovanni Paolo II (1920-2005), nell’enciclica Centesimus annus (data alle stampe il 15 1991, nel centenario della Rerum Novarum di Leone XIII (1810-1903), il 15 maggio1891; N.B.: il 19 agosto del 1991 c’è il colpo di Stato di Eltsin; il 26 dicembre 1991 l’URSS viene ufficialmente sciolta).
Scriveva, nel 1991, Giovanni Paolo II:

Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia (n. 46).

Il giurista austriaco Hans Kelsen (1881-1973) fu, a suo tempo, il profeta di questo relativismo culturale ed etico come garanzia e tutela dell’assetto democratico. Una scuola di pensiero che non cessa di fare proseliti, nel deserto nichilistico del reale contemporaneo.
In realtà, senza verità, la democrazia perderebbe la sua base partecipativa e la politica degenererebbe in un mero gioco d’interessi.
Dobbiamo, dunque, uscire da questa ragnatela relativistico-nichilistica, oggi dominante, per pensare un altro orizzonte culturale, etico e socioeconomico possibile. Urge, dunque, fare un esercizio di pensiero laterale.

Eppur si muove… a proposito di vita comunitaria e produttiva sui territori
Una bella e suggestiva formula potrebbe liquidare così la questione: ecco a voi sua maestà il territorio… se la terra è economia-mondo al cubo, mercato mondiale alla massima estensione, supermercato di merci fatte per i superconsumatori definiti da coazione a ripetere, allora rovesciare può servire, anzi serve sicuramente a rassicurare gli animi, a mettere in pace la coscienza: c’è il Territorio, Fonte suprema di originalità, genuinità e presenza materiale, storica, antropologica. Di là abbiamo le macchine impersonali, il Leviatano che tutto divora, a cominciare dalle anime; di qua abbiamo il “buon selvaggio” riveduto e corretto, l’Arcadia solo appena riveduta e corretta, la “buona” economia. Le cose non stanno così.
Intanto, c’è una bella differenza tra due parole-chiave: “terra” e “territorio”. La prima indica tanto il globo terrestre quanto la contrada, l’area abitata e trasformata dall’uomo. Non esiste la terra “vergine”, tutto è sempre originariamente trasformato, fin dalle radici biologiche.
“Territorio”, invece, è parola ibridata, contaminata, trasferita dal mondo materiale a quello antropologico tipicamente attraversato dai gesti quotidiani e infine a quello politico-istituzionale: “Territorio” è un calco su “praetorium” e “dormitorium”, così recita il mio puntuale dizionario etimologico.
Il “praetorium” è tante cose: il palazzo del governatore, il consiglio di guerra e perfino la guardia imperiale. Soggettività che definiscono una complessità antropologica e istituzionale, frutto delle molteplici trasformazioni politiche e istituzionali di impianto tardo repubblicano e imperiale.
Analogamente il “territorio” risente di questa congerie polisemica: è spazio abitato dall’uomo che vive con altri uomini, in comunità, in piena condivisione di significati e sperimentazione di dialettiche sociali. Risente, il “territorio”, anche del “dormitorium”, stanza da letto, abitacolo di ripresa della vita, realtà condivisa, sovente, non individualizzata e monadizzata.
Se la terra è costruzione complessa frutto della trasformazione umana, il territorio è il prolungamento della trasformazione umana che diventa cifra dell’iniziativa tanto personale quanto comunitaria, essendo la persona fondamento ontologico imprescindibile della comunità.
Dunque, non c’è territorio senza soggettività organizzate, viventi, produttive, generative. Non c’è territorio senza “genius loci” e cifra specifica di esistenzialità, che è, storicamente parlando, possibilità di esistere attraverso quel “cum” che ci fa “com-pagni” (“cum-panis”) e generatori di vita-in-comune. L’economia, come “oikos-nomia”, nasce qui, su questo versante profondamente spostato in avanti e mai ridotto a “crematistica”, dominio del denaro sulla vita. Tornando a Benjamin, se il capitalismo è la macchina generatrice della colpa, l’economia territoriale è lo spazio che genera la “salus” nel senso integrale del termine, salvezza del corpo e dell’anima. Come?
Riconquistando innanzitutto l’aggettivo qualificativo originario dell’economia: “politica”. E muovendo una critica rigorosa e serrata, come ha sistematicamente fatto Giacomo Becattini, all’ “economia apolitica”.
Chi vive insieme il destino di uomo e cittadino sul medesimo territorio ha nel suo corpo e nel suo orizzonte esistenziale un tasso di politicità inestirpabile. Da questa politicità, che affratella i distanti e crea l’impossibile nella storia, nasce quel livello del mercato territoriale che, di volta in volta, assume le forme specifiche che proprio il territorio gli permette di assumere. Il “Made in Italy”, da questo punto di vista, è pura astrazione, l’Italia essendo un sistema vivente di frattali che racchiudono molti mondi e, per natura, si aprono all’universo mondo.
Questa prospettiva teorica, politica e pratico-generativa è una delle risposte possibili alla deriva nichilistica del mercato mondiale che ingloba i valori per poi farli diventare valori di scambio, richiamando, così, la formula del “nient’altro che”. Il mondo non è nient’altro che…
Posto che ciò sia ancora filosofia, potremmo replicare con Shakespeare: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne pensino le tue filosofie”.

Bibliografia di riferimento
Althusser, Louis, Ideologia ed apparati ideologici di Stato. Note per una ricerca, in Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma, 1981, pp. 66-123.
Becattini, Giacomo, Per un capitalismo dal volto umano. Critica dell’economia apolitica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
Benjamin, Walter, Capitalismo come religione, trad.it. in AA.VV., Teologia politica 1. Teologie estreme?, Marietti 1820, Genova-Milano, 2004, pp. 18-22.
Del Noce, Augusto, Cristianità e laicità, Giuffrè Editore, Milano, 1998.
Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, Piemme, Casale Monferrato (AL), 1991.
Marx, Karl, Manifesto del Partito comunista, Laterza, Roma-Bari, 1987.
Michéa, Jean-Claude, Impasse Adam Smith. Brèves remarques sur l’impossibilité de dépasser le capitalisme sur sa gauche, Éditions Climats, 2002, trad.it. Il vicolo cieco dell’economia. Sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo, Elèuthera, Milano, 2004.
Nietzsche, Friedrich, Morgenröthe, trad.it Aurora. Opere di Friedrich Nietzsche, Vol. V, Tomo I, ediz.it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1984.
Preve, Costanzo, Filosofia del presente. Un mondo alla rovescia da interpretare, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2004.
Rizzi, Bruno, Il collettivismo burocratico, con Prefazione di Bettino Craxi e Introduzione di Luciano Pellicani, SugarCo Edizioni, Milano, 1977.
Tremonti, Giulio, Rischi fatali. L’Europa vecchia, la Cina, il mercatismo suicida: come reagire, Mondadori, Milano, 2005.