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Il capitalismo moralista

di Roberto Pecchioli - 24/11/2020

Il capitalismo moralista

Fonte: Accademia nuova Italia

Da ragazzo ascoltavo in silenzio i racconti dei reduci di Russia. Mi colpivano il colore unico, il bianco della neve nella tormenta che avvolgeva quei giovani e l’assenza di qualunque speranza di uscire dall’incubo. In maniera diversa, viviamo una situazione simile: dovunque ci si volga, l’unica “narrazione “è quella liberista. Molte le tonalità: libertaria, progressista, moderata, radicale, liberale, persino conservatrice, ma lo spartito è sempre lo stesso. Il capitalismo, diventato “assoluto”, cioè sciolto da ogni legame, limite o principio, dilaga come un esercito d’occupazione. Rare sacche di resistenza, isolate, incomunicabili, reciprocamente ostili, contrastano invano a mani nude l’orda vincente. E’ un capitalismo ormai postero anche di se stesso, un impero monopolista svincolato dal principio di libertà, dunque illiberale.
Difficile immaginare forme di reazione in nome della verità, la Grande Scomparsa. Occorrerebbe realizzare un’impresa impossibile, separare il liberalismo dal capitalismo. Quest’ultimo può vivere tranquillamente al di fuori della libertà; ne è prova non solo la Cina, ma il nostro presente proibizionista e, a suo modo, moralista. E’ il capitalismo ad aver separato e distrutto le famiglie, revocato in dubbio e poi ucciso i principi che ressero la società per secoli, Dio, Patria, famiglia. Allo stesso modo, ha disseccato l’onore, l’orgoglio del lavoro ben fatto, il senso di responsabilità personale. Specialista nel gioco delle tre carte, dispensa a caro prezzo presunti “diritti” civili scambiati con veri diritti sociali, dopo aver soffocato la coscienza morale. Il socialismo ha solo seguito il solco scavato dall’aratro liberalcapitalista. Se il comunismo uccise i corpi, il capitalismo cancella le anime. Camminano insieme, insieme diffondono veleni.  
Conviviamo, per nostra disgrazia, con il capitalismo da oltre due secoli. È ragionevole, quindi, che abbia subito notevoli mutazioni e che continui a farlo. E’ il più grande Zelig della storia, il personaggio dalla personalità multipla, che assimila le caratteristiche dell'ambiente in cui di volta in volta si trova. Karl Marx e Joseph Schumpeter compresero che la principale virtù del sistema capitalista è la sua infinita capacità di reinventarsi.
Alla fine del secolo passato, nel 1999 un libro di Luc Boltanski e Eve Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, richiamò l’attenzione su una di queste trasformazioni. Non vivevamo più in società fordiste, dove il lavoro era monotono (ogni giorno in fabbrica, in ufficio, dietro il banco e tra gli scaffali di un negozio) ma sostanzialmente sicuro, a tempo indeterminato, dove si trascorreva spesso l’intera vita lavorativa nella stessa azienda. Boltanski e la Chiapello, volgendosi agli esiti del Sessantotto, rilevarono che quel modello riceveva aspre critiche dagli ambienti culturali del progressismo libertario. Creava personalità imborghesite, poco immaginative, non creative, incapaci di adattarsi alle trasformazioni costanti dell’economia e del modo di vita promosse dal capitalismo. Il nuovo lavoratore doveva diventare nomade, flessibile, esattamente come il suo posto di lavoro.
Così, dalla metà degli anni Settanta, con accelerazioni dopo il crollo del comunismo sovietico e poi con l’avvento del nuovo millennio “digitale”, siamo circondati – non troviamo altro verbo – da un nuovo capitalismo.  Un sistema che incita a non dipendere da nulla e da nessuno, a diventare individualisti, a “innovare “sempre e comunque, dunque ad amare e ricercare la novità, con il soggettivismo e il nomadismo come programma di vita, chiamando tutto ciò opportunità, modalità di realizzazione individuale.    
La precarietà del lavoro, l'incertezza sul futuro, la fragilità dei rapporti personali non sono altro che l'altra faccia, la più oscura, del capitalismo post Sessantotto. Ma la storia accelera e anche quel nuovo spirito capitalista che Boltanski e Chiapello hanno diagnosticato due decenni fa diventa obsoleto. Oggi stiamo entrando in un nuovo stile di capitalismo, che potremmo chiamare moralistico.  In esso, le grandi corporazioni non promuovono più solo flessibilità, cambiamento, consumo e mito del progresso, ma diffondono ed impongono un'intera agenda ideologica, una vera e propria moralità di tipo nuovo, il cui tabù è l’identico, l’equivalente, una singolare eguaglianza a cui si sottrae il portafogli, saldamente detenuto da lorsignori. Ecco qualcosa che Marx e Schumpeter, e neppure Boltanski e Chiapello avevano previsto, ma che è ogni giorno più evidente.
Partiamo da alcuni eventi concreti per poi estendere la riflessione. Uno riguarda la Gillette, famosa ovunque per i suoi rasoi. Nel 2019 i conti trimestrali non erano buoni. Aveva perso 8 miliardi di dollari, trascinando in territorio negativo la Procter & Gamble, capofila della holding. Il suo massimo dirigente – ora si deve dire CEO- Gary Coombe non si comportò affatto come ci si potrebbe immaginare. Il calo di redditività della Gillette era legato a una campagna pubblicitaria ispirata al movimento femminista antimaschile #MeToo. Consisteva in messaggi che si scagliavano contro una presunta “mascolinità tossica” che caratterizzerebbe gli uomini, rimproverati aspramente per non comportarsi come dovrebbe fare un “bravo uomo femminista”.
L’annuncio aveva suscitato polemiche: era normale che un’azienda specializzata in rasatura delle barbe non pubblicizzasse la bontà del suo prodotto, ma ci dicesse che tipo di persone dovremmo essere? Era sensato, se il target di riferimento è il pubblico maschile, trasmettergli un messaggio che esprime l’idea di un universo maschile negativo, pieno di oscurità e violenza, bisognoso di prediche, espiazione e penitenza, come se essere uomini fosse un peccato? Una rivista di marketing ha chiesto esplicitamente al CEO di Gillette se pensava che quella campagna avesse determinato le perdite dell’azienda per aver trasmesso un'immagine così cupa del mondo maschile. La risposta di Gary Coombe è stata sorprendente: non gli importava di perdere quei soldi. Gli sembrava un accettabile “prezzo da pagare”.
Poiché nel capitalismo nessuno gioca a perdere, tanto meno multinazionali come la Procter & Gamble, evidentemente l’operazione aveva finalità politiche, ovvero l’obiettivo di determinare un vasto cambio di mentalità. Ecco una faccia nuova del capitalismo moralista: i suoi massimi dirigenti non si preoccupano più solo di fare soldi con ogni mezzo, ma diffondono anche un messaggio “morale” da trasmettere (imporre) a tutti noi. Poco importa se costa qualche perdita iniziale, facilmente superabile con licenziamenti e ristrutturazioni aziendali. E’ un investimento i cui effetti – societari ma anche economici- si vedono nel medio termine.  
Nel medesimo periodo, sempre negli Stati Uniti, paradiso del capitalismo, a Silicon Valley, santuario fintech, Google ha licenziato uno dei suoi dipendenti, James Damore, per un fatto che non ha nulla a che fare con l’incompetenza, gli scarsi risultati o mancanze nel rapporto professionale. Il problema di Google con Damore era ideologico. O moralistico, nel senso della nuova morale capovolta di cui l’ipercapitalismo è banditore. Dopo un corso sulle “diversità”, che il colosso di Mountain View impone ai dipendenti, in cui istruisce su quanto sia importante rispettare le minoranze, Google ha chiesto ai partecipanti di esprimere le proprie opinioni per iscritto. E’ intollerabile, in regime di ostentata libertà e democrazia, che un’azienda obblighi i collaboratori a rendere note le loro opinioni, ma il povero Damore ha accettato la sfida e ha osato esprimere idee in contrasto con gli insegnamenti –indottrinamenti ricevuti.
La sua tesi era che non tutte le differenze tra uomini e donne sono dovute al fatto che gli uni opprimono e le altre subiscono: esistono differenze di tipo biologico. Credeva di muoversi su un terreno sicuro; dopotutto, possiede un master in biologia ad Harvard. O forse immaginava ingenuamente che la minoranza in cui si collocava (una minoranza “ideologica”) sarebbe stata rispettata, poiché gli era stato detto nel corso che tutte le minoranze- di genere, razziale, sessuale- devono essere apprezzate.
Si sbagliava: Google lo ha licenziato a titolo definitivo “per aver perpetuato gli stereotipi di genere”. L'incidente è attualmente all’esame del sistema giudiziario, ma interessa il suo profondo significato culturale e civile: un'azienda licenzia un brillante funzionario, promosso due volte in soli due anni, perché non coincide con la moralità, ovvero con l’ideologia dei padroni. Al vecchio capitalismo bastava che il dipendente “rendesse”. Il resto erano, entro certi limiti, fatti suoi: non è più così, oggi dobbiamo anche essere ideologicamente d'accordo con i nostri padroni, maestri di morale privata e pubblica.
Un altro esempio: nel marzo 2016 lo stato americano della Carolina del Nord approvò una legge che imponeva di utilizzare i servizi igienici corrispondenti al sesso che appare sul certificato di nascita. Buona o cattiva, era una norma diretta contro transessuali e transgender, che non potevano usare i bagni corrispondenti al sesso con cui si identificano. A prescindere dall’opportunità di una legislazione su questo tema, contro la Carolina del Nord si scatenò una tempesta promossa dal piano più elevato del neo- capitalismo tecnologico e finanziario. Più di ottanta alti dirigenti di società tra cui Apple, United Airlines, Bank of America e Goldman Sachs hanno immediatamente firmato una lettera che intimava al governatore di abrogare la legge. PayPal e CoStar Group hanno annullato i loro piani di apertura di sedi operative in quello Stato; la ricca federazione della pallacanestro professionistica (NBA) ha rifiutato di giocare partite in Nord Carolina, le compagnie televisive e cinematografiche di giravi film e ambientarvi spettacoli. La rivista Forbes ha calcolato che la legge, in soli sette mesi, era costata 600 milioni di dollari agli abitanti della Carolina del Nord.
L’abrogazione fu rapidissima, ad opera degli stessi – il partito repubblicano – che l’avevano promossa. Aveva avuto successo la strategia che l'uomo d'affari Tim Gill- uno dei super ricchi d’America-  aveva definito “punire i malvagi”. Moralismo – sia pure invertito – allo stato puro, condito dall’arroganza del potere e del disprezzo per le convinzioni altrui. Gli oligarchi del capitalismo ultimo non solo accettano, come Gillette, di perdere soldi in una campagna pubblicitaria ideologica e “moralistica”. Non solo decidono di licenziare persone la cui visione non coincide con la loro (Google). È anche un capitalismo in cui se la democrazia approva una legge loro sgradita, indipendentemente dalle ricadute economiche e finanziarie dirette, ha il potere e la volontà immediata di rovesciare le decisioni del popolo.
E’ questo il mondo in cui vogliamo vivere? Un sistema in cui i massimi dirigenti aziendali controllano e decidono che tipo di moralità ci viene predicata? Dove possono licenziarci o cambiare le leggi se ci allontaniamo dalla loro via? Siamo di fronte a un capitalismo moralista, che non significa morale, con buona pace di chi, a destra, al centro e a sinistra, pensa di poterlo imbrigliare attraverso le procedure e il metodo della democrazia.  
Questa volontà di controllare, anzi determinare vita e verità non stringe i suoi tentacoli solo nel presente. Per possedere il futuro, è necessario controllare il passato: tutti i nemici della libertà lo sanno bene. In molti ci sentiamo deboli e stanchi, esausti per la sconfitta delle libertà. Imposizioni politicamente corrette, censure di qualsiasi dissenso; offesi, scherniti ovunque; dogmi femministi e ambientalisti obbligatori. Sono le mega corporazioni, le multinazionali, i giganti della finanza e della tecnologia che decidono che cosa si può dire e pensare, se e per chi votare o no, come dobbiamo vivere. Se non funziona, rovesciano il tavolo, come è capitato in Carolina del Nord e probabilmente nelle elezioni presidenziali della nazione guida della libertà, della democrazia, della società aperta. Trucchi legittimati  dal moralismo: punire i malvagi, proclamati tali e puniti dalla giuria del Potere.  
Nelle recenti elezioni americane i social network hanno posto il veto a “cinguettii” su Twitter, post e messaggi, obbedendo alle inclinazioni dei loro padroni su ciò che è falso e ciò che è vero. Le televisioni hanno censurato i discorsi dell'uomo teoricamente più potente del mondo, il presidente degli Stati Uniti, con la giustificazione che, a loro avviso, diceva menzogne, o che le sue affermazioni non erano “dimostrate”. Se hanno il potere di censurare Trump, verifichiamo quanto sia semplice ridurre al silenzio ciascuno di noi. Non ci si può che sentire impotenti dinanzi a un potere tanto schiacciante, ammantato di moralismo invertito.   
Nulla di diverso in Italia: il governo paga le televisioni che diffondono le sue “veline” sul contagio, mentre si moltiplicano le rappresaglie a chiunque diffonda “fake news”, ossia dissenta dalla versione ufficiale. In regime di libertà non dovrebbe esistere alcuna versione ufficiale, semmai il massimo impegno per ricercare e diffondere la verità, ma la libertà è derubricata a consonanza “volontaria” con il pensiero dominante. Ora sappiamo da dove vengono gli ordini e quali sono le forze che impongono la nuova antropologia: il neo-moralismo del capitalismo progressista illimitato. Controllare la lingua, mutare le parole, riscrivere o nascondere la storia, sorvegliare i media, chiudere la Rete, punire i reprobi: nulla di diverso dalle mille dittature della storia. E’ difficile non sentirsi indifesi tra tanti sforzi liberticidi, mentre la gente è imbavagliata nelle maschere obbligatorie, impossibilitata non solo a manifestare, ma persino a incontrarsi e scambiare idee. Cristo si è fermato a Eboli: oltre, c’è il confino e il silenzio. Una volta lo chiamavano fascismo…
Il moralismo invertito neocapitalista non avrebbe potuto travolgere ogni difesa se l’opinione pubblica occidentale non fosse stata minata, infettata, corrosa da decenni di falsificazioni, il lungo lavorio da termiti inaugurato dalla Scuola di Francoforte, i cui esponenti furono posti in cattedra dalle università americane private, finanziate dal capitalismo finanziario e industriale. Nessuno paga per essere attaccato o distrutto: evidentemente, l’agenda francofortese e quella liberalcapitalista coincidevano ai massimi livelli. Nel suo interessante La strana fine dell’Europa, l’inglese Douglas Murray formula un’ipotesi interessante, mutuata dalle osservazioni sulla Germania degli anni Venti-Trenta del poeta britannico Stephen Spender, che visse a Berlino e Amburgo. Le generazioni tedesche sconfitte nella Grande Guerra erano ossessionate dalla sicurezza e dalla pace, che non era per loro la semplice assenza di guerre, ma una sorta di ideale intangibile.
In quella ossessione securitaria fiorì il nazismo, tra uomini e donne che non volevano alterare di una virgola la loro tranquilla esistenza di gregge. Scrisse Spender che il problema era la stanchezza e la debolezza morale di gente che credeva in “aspetti irrilevanti o superficiali dell'idea di libertà, senza cercare di scoprire la base su cui deve poggiare la vita veramente libera. La libertà, dicevano i giovani di Amburgo, è prima di tutto libertà sessuale, e poi libertà di divertirsi, di andare da un posto all'altro, non doversi conquistare la vita, non avere responsabilità familiari o doveri civici. La libertà era una lunga vacanza. Erano stanchi: quello che volevano era una vacanza. “Ebbero il nazismo, poi la guerra, infine la tragedia di una sconfitta storica.  
Non diversamente da quell’epoca oscura, oggi accettiamo lezioni morali impartite dalle oligarchie immorali del denaro e della tecnologia. Permettiamo loro di sostituirsi a noi nel giudizio, nelle parole, di vedere con i nostri occhi e giudicare al nostro posto. Persino la paura è diventata una virtù in sostituzione del coraggio, nel mondo del moralismo invertito. Al tempo della Grande Trasformazione, del reset totale, la vacanza è finita. Comandano loro, i bugiardi moralisti invertiti dell’ipercapitalismo.