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Il centennale di un demiurgo del Novecento

di Franco Cardini - 22/01/2024

Il centennale di un demiurgo del Novecento

Fonte: Franco Cardini

Krasnaja Plošadz in lingua russa significa, propriamente, “Piazza Bella”: ma è corretto tradurla anche con l’espressione “Piazza Rossa”. Difatti, in russo, l’aggettivo krasnij significa tanto “rosso” quanto “bello”. E non c’è alcuna diretta allusione politica, per quanto quelle sottintese (e magari inconsce) possano essere molte.
E in effetti è davvero bellissima, quella piazza: ed è rossissima, con la possente cortina muraria in mattoni paonazzi, quasi violetti, che le fa da sfondo; e il rosso diffuso che si riflette sulle cupole dorate di San Basilio. Al centro di essa, il rosso profondo del dado di porfido del mausoleo sul frontone del quale è inciso il nome: Lenin. Nel suo cupo interno, in una teca illuminata, il piccolo corpo imbalsamato del fondatore della potenza sovietica. Fino ad alcuni anni fa gli faceva compagnia il suo antico ed è difficile dire se e fino a che punto amato compagno di lotta Jozip Vissarionovič Djugasvili detto “Stalin”: ma adesso Vladimir Il’ič (nato il 22 aprile 1870 a Ul’janovsk) è solo in quella cripta oscura, e risplende come un piccolo santo ortodosso che sembra delle dimensioni di un bambino.
Da ragazzo, innamorato com’ero della musica russa dell’Ottocento, tutto quel che riguardava quel lontano paese mi affascinava. Di Lenin, mi aveva colpito soprattutto un episodio della sua prima giovinezza. Figlio di un severo direttore delle scuole popolari, egli ricorda in un passo delle sue memorie che suo padre si era lamentato del suo rendimento scolastico parlandone con un suo interlocutore, un religioso, il quale gli aveva consigliato di farlo frustare: indignato per quel consiglio che gli sembrava un degradante affronto alla dignità umana, il giovane Vladimir era uscito all’aperto e si era strappato la piccola croce che gli pendeva dal collo. Fu l’avvìo della sua carriera di ateo inflessibile. Mi sono sempre chiesto che cos’avrebbe potuto accadere se, anziché con lo ieratico e imperiale Dio Padre ortodosso, quel ragazzo si fosse a suo tempo incontrato con Francesco d’Assisi e attraverso lui avesse conosciuto il Dio Figlio con la sua amorosa povertà.
Ma quel giovane che tanto presto aveva rivelato a se stesso la sua natura ribelle in un mondo che appena pochi anni prima aveva intrapreso la sua Lunga Marcia verso l’alba della libertà – la servitù della gleba nell’impero czarista era stata abolita solo nel 1861, nove anni prima della sua nascita – aveva provato appena adolescente, nel 1887, il morso della tirannia: nato nel 1870, aveva appena 17 anni allorché nel 1887 suo fratello Aleksandr era stato giustiziato per un complotto contro lo czar Alessandro III.
Dopo gli studi prima nell’università di Kazan – da dove fu espulso per la sua attività politica –, quindi in quella di Pietroburgo, si laureò nel 1891 e intraprese la professione di avvocato appassionandosi alle condizioni di vita del proletariato tanto urbano quanto rurale e meditando sulle problematiche proposte da Karl Marx.
Era chiaro che il mondo russo, che stava allora affacciandosi alle dure problematiche della società industriale e dove le condizioni di vita dei lavoratori erano quelle descritte da Maxim Gor’kij, andava stretto al giovane Ulianov.
Cominciò così la sua vita intensamente vissuta tra il serrato lavoro politico, i severi interessi scientifici e filosofico-letterari tradotti in molte, corpose opere, i frequenti viaggi all’estero durante i quali gli capitò di confrontarsi con alcuni tra i protagonisti del pensiero socialista e rivoluzionario – quali Plechanov, Martov e Kautsky – e le dure esperienze dell’esilio.
Dopo la fondazione del Partito Operaio Socialdemocratico nel 1898, la sua scissione a Londra nel 1903 in “maggioritari” (“bolscevichi”)” e “minoritari” (“menscevichi”), lo indusse a ritener necessaria una chiarezza filosofica che avrebbe dovuto appoggiarsi alla massima flessibilità politica.
Dopo la fallita rivoluzione del 1905 e la feroce, sistematica repressione che le tenne dietro insieme a conati di riforme che si rivelarono labili, Lenin riprese e approfondì la tematica della “dittatura del proletariato” che Marx aveva già avanzato nel 1871, all’indomani della Comune di Parigi. Opponendosi sia alle istanze deterministicamente ottimiste e riformiste della “destra” progressista, sia al rifiuto radicale di qualunque forma di legalismo di cui era portatrice la “sinistra” di Bogdanov e di Lunačarskji, Lenin portava avanti una linea di prudente, spregiudicato equilibrio fra legalità e illegalità aderendo con spirito realista alle situazioni mutevoli e concrete di un mondo nel quale l’ingiustizia sociale appariva sempre più evidente mentre si profilava chiaro il profilo di una terribile guerra internazionale che una parte dell’élite politica e socioeconomica russa e della stessa corte sembravano auspicare. Quel che egli aveva lucidamente compreso, a differenza di molti politici e teorici della lotta politica in apparenza molto più “avanzati” di lui, era che il nodo della lotta sociale non si risolveva sul piano della contrattazione o della rivoluzione, bensì su quello più profondo dei rapporti strutturali tra le classi produttrici – e propriamente il “proletariato”, che non disponendo di mezzi di produzione aveva il suo solo capitale nella forza delle braccia, nel lavoro – e lo stato.
La guerra, dinanzi alla quale egli dichiarò l’estraneità dei ceti subalterni in un conflitto tra potenze capitalistiche, gli parve il momento opportuno per portare avanti il disegno già espresso in opere quali Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1899) e Materialismo ed empiriocriticismo (1909), nelle quali aveva espresso l’originale teoria relativa al coordinamento delle lotte operaie con quelle contadine e al carattere pragmatico del loro accordo con le rivendicazioni sociopolitiche della borghesia. Mentre altrove in Europa una parte almeno dei socialisti appoggiava il rispettivo paese, egli riteneva che il conflitto fosse il risultato di tensioni all’interno di stati egemonizzati dal capitalismo industriale e bancario (quindi “finanziario”) con i relativi, contrastanti interessi: un panorama dal quale il movimento socialista avrebbe dovuto restare estraneo e lontano. Al congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale, nel 1907, erano stati lui e Rosa Luxemburg a imporre la tesi secondo la quale se la classe operaia non fosse riuscita a evitare la guerra imperialista avrebbe dovuto servirsene per volgere le armi contro la borghesia e abbattere il capitalismo. Quindi, nel ’12, era stato sempre lui – dopo aver denunziato il fallimento della Seconda Internazionale – a fondare il vero e proprio partito bolscevico, che nel 1918, insieme con il “consiglio dei commissari del popolo” del quale egli aveva la presidenza, dette vita al Partito Comunista che avrebbe diretto la Rivoluzione insieme con il “Consiglio esecutivo dei Soviet (cioè dei Consigli) degli operai e dei soldati”. Il “partito di tipo nuovo”, teorizzato da Lenin nei due scritti Che fare? (1902) e Un passo avanti e due indietro (1904), si fondava sulla creazione di quadri gerarchicamente ben addestrati e disciplinati secondo i princìpi del “centralismo democratico”. Contro la tendenza prevalente nel mondo socialista, Lenin era convinto che una rivoluzione proletaria avrebbe potuto aver successo anche in un paese nel quale gli operai erano ancora pochi, e molti invece i contadini. Era il “salto di fase”.
Il conflitto rappresentò il momento opportuno per la presa del potere: infatti la guerra si era risolta, per la Russia, con una clamorosa sconfitta. Una sollevazione militare aveva provocato alla fine dell’inverno del terribile 1917 (“rivoluzione di febbraio”) l’abdicazione dello czar, la formazione di un governo provvisorio e – sotto la pressione dei Soviet operai e contadini di Pietrogrado (così, in omaggio alla tradizione slava, era stata ribattezzata Pietroburgo) – il ritorno di Lenin che, costretto all’esilio, era rientrato in patria a bordo del celebre “treno piombato” fornitogli dal Kaiser Guglielmo II che contava in tal modo di affrettare la capitolazione della Russia. Con le celebri “tesi di aprile”, egli aveva proclamato la rivoluzione socialista (“tutto il potere ai Soviet”), la costituzione della repubblica sovietica e la nazionalizzazione delle banche e della terra.
Ma le cose non erano andate immediatamente così. Al congresso panrusso dei Soviet del giugno 1917 i menscevichi avevano prevalso sui bolscevichi e Lenin era stato costretto a riparare nella neoindipendente Finlandia. Ma nel novembre (ottobre, per il calendario ortodosso) la risposta dei bolscevichi non si era fatta attendere: la “linea insurrezionale” disegnata da Lenin (“la rivoluzione è il fucile in spalla agli operai”) aveva prevalso vincendo le resistenze di personaggi di rilievo come Zinov’ev e Kamenev. Tra il 7 e l’8 le “guardie rosse” avevano preso d’assalto il Palazzo d’Inverno di Pietrogrado: il governo provvisorio si era dissolto come neve al sole, il suo capo Aleksandr Kerenskij era fuggito a Parigi mentre nell’immediatamente successivo congresso panrusso dei Soviet il Consiglio dei commissari del popolo – istituito massimo organo esecutivo di governo – decretava la cessazione delle ostilità e l’esproprio senza indennizzo dei grandi proprietari terrieri. L’Assemblea Costituente, rapidamente formatasi, venne sciolta da parte del Consiglio dei commissari del popolo e Lenin, ormai leader incontrastato, concluse ai primi del marzo la pace cosiddetta “di Brest-Litovsk” con la Germania accettandone pragmaticamente l’altissimo prezzo che consentiva però di procedere subito alla costruzione dello stato socialista. A metà di quel mese, dal momento che la perdita del nordovest in seguito ai trattati di pace aveva spostato decisamente verso il sud e l’est il baricentro del territorio russo, la capitale fu trasferita da Pietrogrado a Mosca. Nel marzo del 1919 era stata fondata a Mosca la “Terza Internazionale” che, con una serie di Congressi del Comunismo Internazionale (“Comintern”) durata fino al 1943, data dello scioglimento di tale istituzione, avrebbe provveduto a organizzare la diffusione del sistema comunista in tutti i paesi del mondo.
Ma c’era ancora molto da fare: un lavoro immenso. Fino dalla primavera del 1918 un gruppo di generali czaristi aveva organizzato “Armate Bianche” antibolsceviche con l’intento di restaurare l’antico regime: si era opposta loro l’Armata Rossa guidata da Lev Trotskij, commissario del popolo alla difesa, e un’autentica guerra civile aveva insanguinato fino all’autunno inoltrato l’intero territorio russo. Il 16 luglio del 1918 l’intera famiglia imperiale, tenuta in ostaggio, era stata massacrata a Ekaterinburg, oggi Sverdlovsk negli Urali: “per non tornare indietro”, come dice un personaggio del romanzo Il dottor Živago di Pasternak. Ma il paese intero, già duramente provato dalla guerra internazionale, era stato prostrato da quella civile. Tra febbraio e marzo del ’21 scoppiarono gli scioperi generali a Pietrogrado e l’insurrezione dei marinai a Kronstadt soffocata nel sangue dall’Armata Rossa il comandante della quale, Tuchačevskij, sarebbe stato condannato a morte nel 1937, durante le “purghe” staliniane, sulla base di false accuse.
Dopo la fondazione del partito socialdemocratico (linea “bolscevica”, cioè “maggioritaria”, che prevalse sui “menscevichi”, minoritari) al congresso di Bruxelles del 1903, la fallita rivoluzione del 1905 indicò a Lenin la necessità assoluta di una chiarezza filosofica che doveva appoggiarsi alla massima flessibilità politica.
Vladimir Il’ich non fece in tempo a veder pienamente realizzato il sistema politico che potentemente aveva contribuito a fondare. La politica del “comunismo di guerra”, condotta tra ’17 e ’21 durante la guerra civile sulla base della socializzazione e della pianificazione generale, era sfociata nella crisi economica, nella disoccupazione, nel calo della produzione. Lenin rispose istituendo nel febbraio del ’21 la “Commissione statale per la pianificazione” (GOSPLAN) sulla base del lavoro della quale nel marzo venne varata – con spregiudicato pragmatismo: una volta di più – la “Nuova Politica Economica” (NEP) con una serie di riforme, nel senso di una cauta reintroduzione di alcuni princìpi liberistici: il che consentì la sopravvivenza delle strutture socialiste di fondo e, col trattato di Rapallo del 1922, la ripresa dei rapporti diplomatici con alcuni paesi europei. Se ciò permise d’altronde la ripresa sotto il profilo economico e sociale, sotto quello politico nello stesso anno venne consolidata la dittatura del Partito Comunista e il divieto di qualunque opposizione garantito dall’abolizione della famigerata polizia politica (la CEKA), sostituita però dalla GEPEU (“amministrazione politica dello stato”).
Cresceva intanto il potere di uno dei delfini di Lenin, il georgiano Jozip Vissarionovich Djugasvili che portava il “nome rivoluzionario” di Stalin (“L’Uomo di Ferro”), eletto nell’aprile del 1922 segretario generale del Partito Comunista con il pieno appoggio del suo ufficio politico (“Politbűro”). Nel dicembre successivo il X Congresso panrusso dei Soviet fondò l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che si dotò nel 1923 di una Nuova Costituzione. Sugli effettivi rapporti tra Vladimir Il’ič e Jozip Djugasvili si continua a discutere: non sempre con serena conoscenza dei fatti.
Lenin continuò comunque a lavorare instancabile alla sua opera, ma in condizioni di crescente difficoltà. Nell’agosto del ’22 subì un grave attentato; tra quell’anno e il successivo una serie di attacchi emiplegici lo condusse, nel gennaio del ’24, alla morte.
Oggi il suo lavoro politico, in apparenza cancellato, sopravvive tuttavia nelle istituzioni e per molti aspetti nella cultura stessa della società russa. Più che abolito, appare metabolizzato: e la sua effigie rimane a dominare luoghi e istituzioni pubbliche in una “continuità discontinua” insieme con quella degli autocrati Pietro e Caterina. Un fitto dibattito, del quale in “Occidente” non si sa praticamente nulla, anima vivacemente la cultura del suo paese a proposito della sua figura e della sua eredità. Il buon occidentale convinto dell’indiscutibile eccellenza del proprio sistema democratico e che, sovente con leggerezza e disinformazione, blatera di “democratura”, dovrebbe più spesso e con più umile cognizione di causa visitare quel paese e quel dado di porfido sulla Piazza Rossa all’interno del quale Vladimir Il’ič dorme vegliato dalla paradossale compresenza attorno a sé, sugli spalti e sulle torri del Cremlino, delle rivoluzionarie stelle rosse e delle redivive aquile bicipiti imperiali.