Il cerino
di Enrico Tomaselli - 20/05/2025
Fonte: Giubbe rosse
Mentre l'Europa si apprestava ad approvare l'ennesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, Trump si faceva una bella chiacchierata di due ore con Putin, al termine della quale - parlando al telefono con Zelensky ed alcuni leader europei - ha comunicato allegramente che il prossimo passo negoziale sarà una faccenda tra Mosca e Kiev, che non ci sarà alcun cessate il fuoco (perché la Russia non vuole) né alcuna nuova sanzione.
La reazione è stata di stizza e delusione. Gli euroidioti si aspettavano una qualche copertura, foss'anche minima, al proprio oltranzismo, che invece non è arrivata neanche per sbaglio. Il narcoführer, dal canto suo, ha ripetuto il solito ritornello: non ci ritireremo da alcun territorio, non rinunceremo all'adesione alla NATO, etc etc
Quello che da questa parte dell'Atlantico proprio non riescono a capire è che l'orientamento strategico degli Stati Uniti non è più quello di tre anni fa; se prima l'orizzonte geopolitico di Washington prevedeva il mantenimento di un elevato livello di conflittualità intorno alla Russia (dall'Europa al Medio Oriente) al fine di preservare il proprio ruolo egemonico in queste aree, adesso punta molto più semplicemente a fare delle medesime regioni delle aree non-ostili, in cui il livello di conflittualità è prossimo allo zero, o comunque tale da non richiedere, in alcuna misura, un supporto diretto o indiretto da parte statunitense.
Ovviamente questo equivale a tirar via il tappeto sotto i piedi delle leadership europee, che si ritrovano in un colpo solo prive del supporto 'ideologico' (progressismo occidentocentrico) e della centralità strategica. Credevano di governare l'ombelico del mondo, e all'improvviso si ritrovano irrilevante periferia.
Il problema è però che a questo spiazzamento non sanno assolutamente come rispondere, e fanno anzi emergere il proprio vacuum intellettuale e politico: tre generazioni di sudditanza coloniale all'imperialismo yankee, infatti, hanno totalmente deprivato le élite europee di qualsivoglia capacità strategica, di ogni cognizione geopolitica, di qualsiasi visione propria. Non riescono nemmeno a comprendere come il trumpismo non sia una eccezione, una parentesi erronea destinata a chiudersi in fretta, ma la rozza avvisaglia di un cambio di rotta destinato a durare i prossimi decenni.
Ed a rendere assolutamente evidente questo gap cognitivo, infatti, non è tanto l'isteria bellicista e russofoba da cui sono intossicate, quanto la totale mancanza di qualunque disegno strategico finalizzato a concretizzarla realisticamente. Gli euroidioti sono soli, improvvisamente privi del 'tutore' d'oltreoceano, e non riescono a raccapezzarsi nella realtà di un mondo in veloce trasformazione, che sta sgretolando le basi (materiali, ma anche psicologiche e culturali) su cui si è fondata la secolare supremazia occidentale.
Il senso di quella telefonata, fa il paio con la dichiarazione di Putin che, solo pochi giorni prima - venendo meno al proprio aplomb ed al bon ton diplomatico - aveva definito i leader europei "idioti". Segno non soltanto di una profonda irritazione e di un altrettanto profondo disprezzo, ma frutto della maturata convinzione che i paesi europei e le loro leadership sono ormai di una insignificanza assoluta. Non meritevoli nemmeno di un residuo formale di rispetto.
Il messaggio, a Zelensky ed ai vari Macron, Starmer, Merz, Kallas, von der Layen e compagnia cantando è assai semplice. Volete così tanto la guerra con la Russia? Bene, ecco a voi il cerino. E mo' so cavoli vostri.
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Una cosa che i leader europei fanno fatica a comprendere, ma che invece quelli statunitensi hanno ben chiara, è il rapporto che lega la capacità di esercitare egemonia, o anche semplicemente un ruolo geopolitico significativo, con la capacità di proiezione militare.
Gli Stati Uniti, che hanno affermato il proprio ruolo di superpotenza globale con la vittoria nella seconda guerra mondiale, per molti decenni si sono basati esattamente su quella esperienza per commisurare lo strumento militare alle ambizioni 'imperiali'. Per decenni, la dottrina strategica statunitense si è basata sul presupposto di poter gestire contemporaneamente due conflitti, in due teatri diversi. Sostanzialmente, almeno sino alla guerra del Vietnam, questa idea è stata portata avanti aggiornando periodicamente il modello della WWII. Il conflitto nel sud-est asiatico però mise gli USA di fronte alla difficoltà di gestire una guerra basata sulla leva [1], spingendoli a privilegiare invece un modello basato su un esercito professionale, che facesse affidamento soprattutto sulla superiorità tecnologica. Modello che, soprattutto a seguito del disfacimento dell'URSS, ha poi preso definitivamente il sopravvento.
Benché questo approccio non abbia effettivamente prodotto grandi risultati (come ha recentemente ricordato J.D. Vance, "l'America ha perso tutte le guerre dal 1945 in poi"), ha comunque consentito a Washington il conseguimento di successi tattici, ed in ogni caso di mantenere una sufficiente capacità di deterrenza. E su questa base che le amministrazioni dem hanno pensato e poi messo in atto il conflitto in Ucraina, convinti di avere sufficienti capacità per logorare militarmente la Russia e, operando di concerto sul piano economico e diplomatico, per destabilizzarla.
La guerra in Ucraina ha invece messo in luce due aspetti 'imprevisti'. Innanzi tutto, questo modello di guerra richiede un impegno prolungato e massivo di uomini e mezzi, e quindi non solo la capacità di mobilitazione ma anche quella di sostenere il conflitto sul piano della produzione industriale (che gli USA hanno dilapidato durante gli anni della globalizzazione). E, come se non bastasse, ha messo a nudo come la superiorità tecnologica occidentale sia in larga misura meramente presunta, o comunque un ricordo del passato, ormai ampiamente surclassata dagli stati 'ostili'.
Da qui, il completo rovesciamento della dottrina militare, che ora prevede un reinvestimento sul piano tecnologico (soprattutto nell'AI ad uso bellico) ed il recupero della capacità manifatturiera, entrambe cose che richiedono tempo. La direzione strategica statunitense, quindi, si muove in direzione della concentrazione degli sforzi verso il confronto con un unico avversario decisivo (la Cina); e ciò richiede prioritariamente mettere in pausa la macchina bellica, e quindi la fine anche delle guerre affidate a proxy (poiché comunque questi devono essere alimentati dagli USA, e ciò rallenta i necessari processi di riallineamento).
1 - Caldamente suggerita, al riguardo, la visione di 'Turning point', una serie documentaria sul conflitto in Vietnam (disponibile su una nota piattaforma di streaming), che vale da ottimo recupero della memoria.