Il linguaggio del consumo tra sociologia, marketing ed ecologia
di Vanni Codeluppi - 18/05/2025
Fonte: Economia circolare
Per comprendere le dinamiche che regolano i nostri stili di vita, le strategie del mercato e i linguaggi della pubblicità e del design, è necessario tornare a interrogarsi sulle basi culturali e simboliche del consumo.
Con EconomiaCircolare.com lo abbiamo fatto lanciando la campagna “L’e-commerce dell’assurdo” e uno Speciale dedicato a indagare come il consumismo superi i limiti planetari della sostenibilità. In questa cornice inseriamo il confronto con Vanni Codeluppi, professore di Sociologia dei consumi all’Università di Modena e Reggio Emilia, a partire dal suo “Primo libro di sociologia dei consumi” (Einaudi, 2024), per approfondire il ruolo del consumo come fatto sociale e comunicativo.
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Perché è ancora importante parlare di “società dei consumi” e non solo di consumismo? Perché, in altri termini, è fondamentale aprire anche alla dimensione sociologica dei consumi?
Il concetto di “società dei consumi” conserva ancora un ruolo centrale nell’analisi del contemporaneo perché descrive in modo efficace la configurazione delle società ed economie avanzate, strutturate attorno alla produzione e commercializzazione di beni e servizi. Il consumo, infatti, è il principio organizzativo dell’intero assetto sociale, e non si esaurisce nella soddisfazione di bisogni primari come l’alimentazione o la sopravvivenza: coinvolge anche aspetti psicologici, simbolici, identitari e relazionali. Acquistando esprimiamo chi siamo, costruiamo relazioni e definiamo la nostra appartenenza a status e gruppi sociali.
Per questa ragione, per comprendere appieno la complessità del consumo, è indispensabile uno sguardo che sappia intrecciare saperi diversi, combinando l’analisi economica con quella sociologica, antropologica e semiotica, in modo da restituire una visione più completa delle logiche che regolano il contemporaneo.
Partiamo dal simbolo della società dei consumi: la merce. Marx ne Il capitale scriveva che “a prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia” ma a un’analisi attenta si rivela “una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica”. Tra i vari aspetti “imbrogliatissimi”, merita particolare attenzione la capacità comunicativa delle merci, cioè il modo in cui esse veicolano significati che eccedono la funzione d’uso. Come avviene, innanzitutto, che le merci comunichino significati? E quali conseguenze produce una comunicazione ingannevole che fa leva su falsi immaginari della merce?
Le merci comunicano perché da sempre, in tutte le civiltà, gli oggetti tra le mani degli esseri umani hanno assunto una funzione simbolica: non solo utilitaristica ma anche sociale e relazionale. Già nelle società arcaiche alcuni oggetti servivano a rafforzare legami interni o a sancire sfide tra gruppi sociali. Oggi questa funzione si amplifica esponenzialmente: i significati, che originano dal contesto sociale, vengono intercettati e trasformati dal design — attraverso l’estetica, le sue forme e i suoi colori — e poi ulteriormente modulati dalle pubblicità, che li collegano a desideri, aspirazioni o stili di vita.
Una volta reimmessi nel circuito sociale, gli individui si riappropriano di questi significati e possono confermarli, ridefinirli o perfino sovvertirli, in un continuo processo di rielaborazione culturale. Le merci diventano così veri e propri “fabbricati” simbolici in trasformazione, attraverso cui le persone comunicano se stesse. Tuttavia, affinché questa comunicazione sia efficace, deve nascere da un equilibrio: da un lato, deve sapersi nutrire dei valori, dei modelli e delle idee condivise in un determinato contesto sociale; dall’altro, deve rimanere ancorata alle qualità reali e alle possibilità effettive della merce.
Diversamente, una narrazione che attribuisca significati totalmente estranei alla sua natura, o che cerchi di nasconderne le caratteristiche autentiche, rischia inevitabilmente di essere fuorviante e presto o tardi viene smascherata. Quando la dissonanza tra narrazione e realtà emerge, la credibilità della merce — e del brand che lo sostiene — si incrina profondamente. Per questo una comunicazione solida deve sempre interpretare il contesto culturale, ma senza mai tradire la coerenza e la verità materiale dell’oggetto.
Pubblicità e design raccolgono significati e valori presenti nella società, li rielaborano e li restituiscono al pubblico enfatizzando quelli più compatibili con le logiche del mercato, attraverso narrazioni e rappresentazioni. In che modo, in passato, hanno contribuito a connettere estetica, consumo e mercato? E quale funzione potrebbero assumere oggi, nel quadro della transizione ecologica e culturale, per favorire modelli di consumo più sostenibili, per esempio attraverso l’ecodesign e una comunicazione più responsabile?
Come tutti gli attori sociali, anche la pubblicità esercita un’influenza sulla cultura. La sua forza, tuttavia, non è assoluta: i consumatori ricevono stimoli da molteplici fonti e conservano una certa capacità di scelta autonoma. Essendo una forma di comunicazione dichiaratamente “di parte” — finalizzata a promuovere un prodotto — la pubblicità appare persino più trasparente di altre narrazioni che mascherano i propri intenti dietro una presunta neutralità.
Chi consuma consapevolmente sa che la pubblicità intende vendergli qualcosa, e può quindi adottare un atteggiamento critico. Alla luce della transizione ecologica e culturale in corso, la pubblicità e il design potrebbero assumere un ruolo importante nel favorire modelli di consumo più responsabili e sostenibili. Tuttavia questo richiede un salto di qualità. In Italia uno dei principali limiti della pubblicità è la scarsa qualità comunicativa: mancano giustapposizioni e strutture narrative originali, capaci di interpretare il nostro tempo. Per contribuire davvero a orientare abitudini di consumo verso quelli più sostenibili, la pubblicità dovrebbe costruire messaggi capaci di coinvolgere emotivamente, stimolare l’identificazione e proporre, mostrandoli, modelli desiderabili alternativi.
Oggi assistiamo al fenomeno noto come “maturità dei prodotti”, per il quale, al rallentamento delle vendite, le aziende rispondono introducendo sul mercato nuove versioni di beni che spesso presentano solo modifiche superficiali. Questo meccanismo spinge i consumatori a sostituire prodotti ancora perfettamente funzionanti, contribuendo a un aumento della produzione di rifiuti e alla dismissione prematura di oggetti mai guasti né usurati. In questo scenario si inserisce il concetto di obsolescenza psicologica: in cosa consiste e quali strategie ritiene efficaci per contrastarla?
L’obsolescenza psicologica si verifica quando un prodotto, pur ancora pienamente funzionante, viene percepito come superato e dunque viene sostituito, principalmente per motivi di immagine o di status. Essa sfrutta il carattere sociale del consumo che spiegavo precedentemente: non possedere l’ultima versione di un prodotto può generare una sensazione di esclusione negli individui che desiderano appartenere a una comunità che riconosce e valorizza la novità e il prestigio di possederla. Contrastare questo fenomeno non è affatto semplice. Non possiamo realisticamente rallentare né azzerare il consumo senza mettere in discussione l’intero modello economico su cui si regge la nostra società. Tuttavia possiamo agire su alcune leve importanti:
- promuovere la cultura della durabilità e della riparabilità;
- incentivare il riuso e il riutilizzo dei prodotti;
- valorizzare mercati come il vintage, dove gli oggetti conoscono più cicli di vita;
- favorire il recupero e il riciclo dei materiali.
Nella parte finale del libro si fa riferimento alla decrescita, al controconsumo e all’economia circolare. Le chiedo: visto che in passato abbiamo assistito a una democratizzazione dei consumi ostentativi, non potrebbe oggi emergere una forma di democratizzazione del consumo sostenibile? Quali potrebbero essere i primi passi per renderla concreta e accessibile?
Sarebbe auspicabile immaginare una diffusione ampia e democratica del consumo responsabile, ma al momento il nostro modello di società è talmente radicato in questa dinamica consumistica che sono scettico che ciò possa realizzarsi su vasta scala. Ovunque permane l’ossessione per l’aumento del PIL, considerato l’indicatore principale del progresso. Anche i Paesi in via di sviluppo tendono a convergere verso questo modello capitalistico, nonostante le sue contraddizioni: il nostro modello consumistico è visto come simbolo di benessere raggiunto ed è quindi imitato. Se a questo incremento di consumi nei Paesi emergenti si aggiunge l’inerzia delle economie avanzate — che, nonostante dichiarazioni di principio, continuano a perseguire una crescita basata sull’aumento dei consumi — il rischio per il pianeta diventa enorme.
Ciò che possiamo realisticamente fare è correggere le distorsioni del sistema, soprattutto quelle legate all’insostenibilità ambientale, cercando di mitigarne gli effetti senza illuderci di poterlo sostituire nel breve periodo. Anche in Occidente, e in particolare negli Stati Uniti, si rileva una cronica mancanza di consapevolezza sui limiti ecologici: i cambiamenti di amministrazione politica non hanno modificato una sostanziale insensibilità ambientale, né si sono tradotti in azioni incisive. Credo, quindi, che continueremo ad avere una minoranza di persone consapevoli e responsabili, contrapposta a una maggioranza ancorata a modelli di consumo tradizionali. Forse la tecnologia potrà offrire soluzioni future — scoperte scientifiche capaci di ridurre l’impatto ambientale — ma allo stato attuale la situazione rimane critica.
a cura di Vittoria Moccagatta