Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Imprigionando il mito, dimostriamo di non esserne all’altezza

Imprigionando il mito, dimostriamo di non esserne all’altezza

di Marcello Veneziani - 03/07/2022

Imprigionando il mito, dimostriamo di non esserne all’altezza

Fonte: Marcello Veneziani

L’estate di cinquant’anni fa il mito riemerse dai fondali del Mare Mediterraneo e riaffiorò il suo sorriso sulla bocca di due icone leggendarie. Furono detti i bronzi di Riace, dal luogo più vicino in cui furono ripescati, all’altezza della bassa Calabria. Era il ’72 ed eravamo entrati negli anni di piombo, la cronaca si mangiava la storia e la storia, incattivita dall’ideologia, divorava il mito e la bellezza. In quel preciso frangente, tra bombe, stragi, brigate rosse ed estremismi sul piede di guerra, il mare ci restituiva l’innocente bellezza di due figure venute da lontano, da millenni sepolti tra mondo classico e Magna Grecia. Un tempo i miti piovevano dal cielo o li portava il vento: ora emergono dai fondali del mare, il mitico mare “canuto e ondisonante” di Omero che “sorride in forma di onde”, dice Eschilo. I due guerrieri si erano salvati dalle rovine e si sono preservati per oltre due millenni nella placenta del mare-mater mediterraneo. Eccoli, col loro divino sorriso, il loro corpo armonioso, i loro muscoli tesi, i loro piccoli ma scultorei genitali.
Di quel prezioso ritrovamento, restò il problema della loro collocazione e della loro eventuale mobilità: i due guerrieri sono un bene da esportazione oppure vanno amati sul posto, a chilometro zero? Qualcuno pensò di mandarli in giro per il mondo come ambasciatori d’arte e civiltà anziché tenerli reclusi in un museo con pochi visitatori. Dall’altra parte era fondato il timore che se l’arte si fa mobile ed esportabile, l’Italia – e non solo la Calabria che li custodisce- rischia di ridursi a un deposito merci preziose in transito. Il passo successivo è riprodurre l’opera d’arte e allora se ne faranno copie conformi e più sane in Giappone in Cina o in Corea, negli Emirati o in America. Bisogna invece rivendicare il genius loci e l’aura irriproducibile delle opere e dei luoghi. Giusto, anche se poche, mirate, temporanee esposizioni possono suscitare la voglia di andare a trovarli nella loro residenza abituale.
Anni fa, Berlusconi, allora premier, ebbe l’idea di portarli al vertice internazionale della Maddalena in luglio; insorse la Calabria più ispida e retriva spalleggiata della Calabria progressista e antiberlusconiana. Giù le mani dai guerrieri di Riace, gridavano i difensori etnici dei Bronzi, che pure non risultano essere nativi della Calabria ma solo adottivi, in seguito a naufragio.
I Bronzi naufragarono in crociera, chissà se per colpa di un capitan schettino di allora o di un Ulisse meno astuto e mal consigliato dagli dei, che non usò le mitiche precauzioni come con le Sirene e con i Ciclopi. Ma dopo la fiammata iniziale di visitatori, quanti sono oggi i turisti che vanno al museo di Reggio Calabria per vedere i Bronzi?
I top model di Riace furono richiesti pure alle Olimpiadi di Atlanta, che avrebbero acceso l’attenzione del mondo sui bronzi e sulla Calabria. Ma ha sempre prevalso il protezionismo autarchico. Molti capolavori dell’arte viaggiano nel mondo senza particolari problemi, perché la libera circolazione, pur sotto custodia cautelare, è negata ai due guerrieri di Riace? L’alibi è che i bronzi non possono essere spostati se non a rischio della loro incolumità. Ma sono stati per quasi 2500 anni abbandonati sotto il mare, esposti alle intemperie subacquee e si sono conservati. I guerrieri di Riace suscitarono sin dalla loro scoperta e recupero conflitti di competenze, primogeniture, inchieste giudiziarie. Si disse persino che portassero male. Poi, dopo un periodo di folgorante notorietà, furono sequestrati in museo per versare, come incolpevoli ergastolani in attesa di giudizio turistico, in condizioni di solitudine, costrizione e depressione, in un luogo alieno.
Tempo fa proposi la terza soluzione: anziché tenerli chiusi e sequestrati in museo e anziché mandarli in giro per il mondo, perché non li si pianta sul mare, – previo precauzioni (un guscio invisibile, un microclima favorevole) – all’imbocco del porto di Reggio, in modo che siano l’emblema del Mediterraneo, dell’Italia, della Calabria e di Reggio, visibili per mare e per cielo, in volo, per treno e per strada? Il sole nostrum è la loro patria e il mare nostrum è la loro matria. Alla Sirenetta di Copenaghen o alla Statua della libertà mica chiedono di andare in giro per il mondo… Sarebbero gli Angeli Custodi della Calabria, i Penati della Magna Grecia, i Lari Protettori di Reggio. Sarebbero gli annunciatori che l’Italia comincia là, su quello splendido lungomare che si affaccia sulla Sicilia, tra Scilla e Cariddi, in compagnia degli dei e della fata Morgana. Tenerli chiusi in museo è come vivere miseramente con un ricco conto in banca. I bronzi diventano oro alla luce del sole, in tutti i sensi.
Lanciai la proposta a Reggio, in una serata che dedicai alla bellezza, con Vittorio Sgarbi e l’allora sovraintendente alle Belle Arti di Roma Umberto Broccoli. Sullo sfondo vigilavano i due guerrieri ad altezza naturale, muti e quindi consenzienti. Sottovoce si dissero d’accordo in tanti, tra artisti, amministratori e politici, ma in pubblico tutti tacquero. Era anche un modo per far parlare della Calabria non per la malavita, il degrado e il malaffare; ma per la bellezza, il fascino riemerso dell’antichità, la Magna Grecia. Ma prevalse la linea della custodia cautelare per i due guerrieri sommersi. Così imprigionando il mito, dimostrammo ancora una volta di non essere all’altezza del nostro passato, e poi pretendiamo di avere un futuro… I bronzi tornarono così nei fondali della dimenticanza, materialmente riemersi, miticamente sommersi.