Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Io, questo sconosciuto

Io, questo sconosciuto

di Livio Cadè - 18/06/2023

Io, questo sconosciuto

Fonte: Ereticamente

“La storia del mondo intero sonnecchia in ognuno di noi”.

L’io e il terzo occhio
Il Vangelo di Tommaso attribuisce a Gesù questo detto: «Quando conoscerete voi stessi, sarete conosciuti e saprete che siete figli del Padre Vivente. Ma se non conoscerete voi stessi, allora sarete nella privazione e sarete voi stessi privazione». Qualche secolo dopo, un anziano Padre del deserto dirà: «se vuoi aver pace in questo mondo e in quello futuro, in ogni cosa domandati: chi sono io?». Più laconicamente, sul tempio delfico qualcuno ha inciso: “conosci te stesso”.
Ugo di san Vittore diceva che in origine l’uomo era dotato di tre occhi: quello corporeo, quello della ragione e quello della contemplazione. Ma questa visione contemplativa, che è propedeutica al conoscersi, è prerogativa di pochi mistici, e certo la nostra società non ha alcun interesse a favorirla. A chi voglia farsi un’idea di sé stesso si insegna a osservarsi con gli occhi del corpo e della mente, anche se ciò produce in noi una falsa nozione di ciò che realmente siamo.
La cultura moderna ha sigillato il nostro terzo occhio, e il contemplarsi è per lei un atto poco raccomandabile, una forma di narcisismo o di autoerotismo. Anche la Chiesa ha sempre avuto in uggia i mistici, il loro addentrarsi liberamente nel mistero. Forse perché chi guarda a fondo in sé stesso può imparare a dubitare, non credere più all’autorità e al magistero, disubbidire.

L’io degli altri
Succede quindi che si rovesci il detto di Agostino (“in interiore homine habitat veritas”) secondo cui non bisogna uscire ma rientrare in sé stessi. Questo “rientrare in sé”, anche nel linguaggio comune, ha il senso di un “ritrovare il senno”. Ma a questa interiorizzazione la nostra società oppone una totale esteriorizzazione: «esci da te stesso, non rientrare in te. La verità abita fuori di te». Di conseguenza l’io va tenuto costantemente occupato da problemi politici, economici, sociali ecc. che lo distraggano da sé, lo allontanino dal suo centro per confinarlo nelle banlieue della sua coscienza.
Di fronte alle concrete necessità, il misticismo appare una tendenza riprovevole, morbosa e asociale; ogni forma anche larvale di contemplazione diventa un’inutile rêverie, colpevole fuga dalla realtà e dal dovere di agire positivamente per salvare il mondo. Vengono considerati socialmente importanti solo i problemi oggettivi. Ma questo è palesemente assurdo, perché nessun fatto è in sé un problema finché la nostra coscienza non lo rende problematico. Non potremo dunque risolverlo senza prima indagarne i moventi soggettivi.
Tale indagine richiede un temporaneo deporre il mondo e dimenticarsene, una rinuncia a intermediari, opinioni e pregiudizi, per avventurarsi in territori ignoti. Viceversa, la società ci impone sistemi noti, che prevedono il parere di esperti qualificati, che sembrano conoscere il nostro io meglio di noi. Si realizza così un radicale capovolgimento della prospettiva agostiniana, ponendo l’io all’esterno e facendone oggetto di studio scientifico, filosofico o psicologico. Il punto è che non esiste l’io degli altri. Nessuno l’ha mai visto né potrà mai vederlo.

L’io scientifico
Per altro, la maggioranza delle persone ritiene di conoscersi già a sufficienza, senza bisogno di indagare. Il loro io è una somma di nome, sesso, età, titolo di studio, professione, famiglia, storia personale, religione, tendenza politica ecc. Se chiedete loro quale sia il totale di questi addendi vi guarderanno sbigottiti, senza comprendere la domanda. Qualcuno forse citerà io, Es e super-io, o dirà che l’io è “una facoltà unificatrice delle funzioni psichiche”. Per altri sarà un epifenomeno del cervello. I più semplici indicheranno il loro petto, più o meno all’altezza del cuore, forse perché sanno d’istinto che quella è la sede dell’anima.
Per la scienza l’io è un entità biologica, fatto di organi, tessuti, cellule, molecole, cose che, a guardarle, non hanno nulla di umano ma da cui miracolosamente nasce l’uomo. Questo è quello che possiamo vedere con l’occhio del corpo, meglio se aiutato da potenti microscopi. E se guardiamo ancora più a fondo troveremo l’uomo della fisica, roteante di nuclei atomici e particelle subatomiche, fino a raggiungere forse il vuoto, il nulla. C’è poi un io di natura ecologica, cellula infinitesimale del pianeta. E se pensiamo alla Terra come cellula di un universo, possiamo logicamente postulare anche un io-cosmico, parte di un Tutto dove le nostre micro-esistenze si fondono con realtà macroscopiche.
Tuttavia, quando vedo il mio volto in uno specchio penso “quello sono io”, mentre non lo penso quando vedo i miei globuli bianchi o la Luna. Forse è solo l’abitudine, un antico pregiudizio. Di fatto, se confronto le mie foto da bambino a questo viso rugoso e canuto, posso solo illudermi che siano una stessa persona. Devo ingannarmi, rimuovere la realtà visibile e sostituirla con un’invisibile idea di me stesso. Mi sento un immutabile Narciso. Gli anni passano, ma lo specchio mi offre sempre una stessa immagine, un me stesso fuori dal tempo.

L’io evolutivo
Oggettivamente, il problema dell’io si risolve nella meccanica del concepimento e della vita. Mi sono annidato nell’utero di mia madre, sono nato – inter faeces et urinam – son cresciuto e mi son fatto uomo, per poi invecchiare e morire. Se la spiegazione non mi soddisfa, la scienza mi mostra la mia storia fino alle sue più remote origini: cento milioni, due miliardi, cinque miliardi, dieci miliardi di anni fa (l’orologio di tale scienza indica infatti un orario tanto sbalorditivo quanto arrotondato e approssimativo).
L’esperienza mi dice che mio padre e mio nonno erano simili a me. Anche i miei bisnonni, che ho visto in foto, mi sembravano tutto sommato umani. Del resto, gli esperti son d’accordo nell’ammettere che se ripercorressi la mia genealogia per mille o diecimila anni, troverei tra i miei antenati sempre esemplari di homo sapiens. Ma se mi spingessi più indietro nel tempo, mi dicono, diventerebbero sempre più simili a mammiferi inferiori, e poi ad altre forme di vita meno evolute. Infine, nell’album di famiglia dovrei forse mettere la foto di un’ameba, di un microrganismo, magari di un batterio, uno di quelli che oggi popolano a migliaia di miliardi il mio corpo facendosi ospitare e mantenere da un lontano parente che, per qualche fortunato caso, si è evoluto.
Che siano verosimili o fantastiche, tali congetture  non mi dicono chi io sia. Descrivono solo ipotetici processi naturali nei quali mi pare di non aver alcun ruolo. Per quel che ricordo, non mi sono mai evoluto di mia volontà. Ammetto che questo non provi nulla. Infatti, non ricordo neppure d’esser stato concepito e d’esser nato. Per quel che ne so potrei esistere da sempre.

L’io inconscio
E neppure sono io a regolare il moto dei miei atomi, istruire anticorpi, trasmettere segnali elettrici al cervello, produrre ormoni ecc. Non sono io a digerire o a far circolare il sangue. Non so come mi crescono unghie, barba e capelli. E quando suono il pianoforte non riesco neppure a immaginare tutti i fenomeni nervosi implicati nel semplice alzare un dito. Se quindi io sono il mio corpo, devo ricredermi sulla bassa opinione che ho di me e ammettere che sono infinitamente più potente e intelligente di quanto immaginassi, benché lo sia senza saperlo.
Per alcuni la mia struttura psicosomatica sarebbe solo un grumo di materia che, grazie alla pratica accumulata in incalcolabili eoni, ha sviluppato e reso inconsapevoli e automatiche certe funzioni. Secondo i materialisti, in tale riuscita non v’è genio, né un intelligente, sublime disegno, solo un’interminabile, ottusa, casuale ripetizione di tentativi ed errori. E anche questa mente cosciente in cui mi riconosco, sarebbe il prodotto di operazioni fisiche, chimiche, biologiche ecc. che avvengono a mia insaputa. Devo dedurne che l’io è un non-io e che è il conscio è inconscio.

L’io tra mente e corpo
Il rapporto tra mente e corpo è di fatto materia controversa. Per alcuni sono una cosa sola, per altri due entità correlate ma distinte. Quel che trovo paradossale è che il corpo si muove nel tempo e nello spazio, mentre la mente si muove solo nel tempo. Ne avvertiamo la presenza senza poterla localizzare. Quindi, come può la mente seguire il corpo nei suoi spostamenti? Forse non ha bisogno di rincorrerlo perché, non essendo in nessun luogo, è dappertutto. Ma la stessa mente, interpellata a riguardo, non sa rispondere.
Certo anche il corpo contribuisce al mio senso di identità e mi rappresenta. Ma avessi anche un corpo orrendamente mutilato o sfigurato, sentirei d’essere ancora me stesso. Viceversa, non sento più d’esistere se, come nel sonno profondo, spariscono le mie immagini interiori. C’è qualcosa che parla in me, che ha un’etica, una filosofia, sentimenti, ideali, sogni ecc. La dico ‘mente’ e mi identifico con le sue immateriali operazioni. Ma cos’è la mente, dov’è, come nasce? È solo una parola, forse un mito, come Minerva che esce dalla testa di Zeus, o un’araba fenice. Di fatto, il mio ‘io’ non solo ignora gli infiniti protocolli fisiologici che lo sottendono ma è totalmente ignaro anche di ciò che determina i suoi processi mentali.

L’io cipolla
L’io resta così un concetto oscuro. E quando lo vogliamo chiarire lo troviamo immerso in qualche insondabile profondità. Per altro, scandagliare tale abisso produce un’insanabile contraddizione. Infatti noi osserviamo le cose mediante procedimenti cognitivi che presuppongono un soggetto e un oggetto, mentre qui i due elementi coincidono. L’osservatore dovrebbe osservare sé stesso, ma questo lo rende un oggetto osservato. Quindi pare impossibile esaminare l’io senza distruggerne la natura soggettiva.
Visto che il noumeno sfugge, alcuni s’accontentano d’afferrare il fenomeno. Secondo costoro, il fatto che esistano mie sensazioni, mie idee, miei ricordi ecc. sottintende un proprietario. Un essere vago, impalpabile e invisibile, pare avocare a sé tali facoltà. Ma un buddista direbbe che tale entità è una chimera, e che dietro i vari atti psicofisici non v’è nessuna anima o atman.
L’io sarebbe dunque una cipolla, e se sfogliamo i suoi strati non troviamo mai il nocciolo. Questa è tuttavia un’idea che il senso comune rifiuta. A dispetto degli sforzi per astrarre dalla percezione di un sé individuale resta un residuo ineliminabile di coscienza che ripete “io sono”. Anche il buddhista che teoricamente crede all’anatman – assenza di un sostanza personale – nella prassi si adegua alla convinzione che quella sostanza esista. È forse un’illusione, una finzione psicologica necessaria alle normali transazioni.

L’io relativo
Qualcuno si lamenterà che continuo ad accumulare dubbi senza chiarire nulla. E difatti non saprei che altro fare. Se però dovessi esprimere un’opinione, direi che l’io è illusorio e reale allo stesso tempo. Penso che preso da solo non esista, ma che divenga reale all’interno di una relazione, come quella che unisce dentro e fuori: quando pensiamo un ‘fuori’ si produce un ‘dentro’ e viceversa. Allo stesso modo si creano varie ‘correlazioni inverse’ e interdipendenti: io-mondo, io-tu, io-altro ecc. Su questa dialettica si fondano tanto l’esperienza dei sensi quanto le forme della conoscenza e il nostro senso dell’io come qualcosa di distinto dalle cose.
La relazione tra io e corpo è però un caso a parte. Con un’analogia un po’ grossolana potremmo immaginare la coscienza come uno spazio infinito e in quello vedere l’io come uno spazio delimitato, una figura geometrica, ovvero un edificio di cui il nostro corpo è l’insieme dei muri perimetrali. Facendo da confine tra lo spazio interno e quello esterno, il corpo partecipa di entrambi. Perciò può apparirci a volte come io e altre come non-io. L’area interna alla figura, o alla casa, è invece l’insieme delle nostre percezioni e rappresentazioni mentali, che sentiamo separate dallo spazio esterno e a noi più intime, più legate al nostro senso dell’io.

Fasi dell’io
Nei minerali, nella materia inorganica, la coscienza di sé è ancora latente, potenziale. Nelle piante è come in stato di sonno. Nell’animale comincia oscuramente a risvegliarsi. Nell’uomo arcaico, in simbiosi con la natura, l’io è ancora debolmente distinto dal Tutto. I suoi confini sono labili e in lui predomina il senso della fusione tra dentro e fuori. Nel pensiero magico e mitologico l’io assume contorni più netti, si oppone già al non-io. Con l’affermarsi della logica  e del controllo tecnico sul mondo esterno, diventa un io razionale, essere completamente altro rispetto all’ambiente che lo ospita. Diviene quasi estraneo al mondo, un ‘esserci’ alienato dalla natura.
Sbaglierebbe però chi pensasse che a questo progressivo sviluppo dell’io debba corrispondere un allargamento dell’interiorità. Nel prendere coscienza del mondo come di un’oggettività separata da sé, l’io in realtà si esteriorizza e si contrae. Perciò una società iper-razionale finisce col concepire la realtà, compreso lo stesso io, come un assoluto ‘fuori’, col ridurre la coscienza a fenomeno neurologico, l’amore a fenomeno ormonale ecc.
Paradossalmente, un eccesso di razionalità può farci regredire verso forme di coscienza inorganiche, prive di una vera percezione di sé. Alcuni reagiscono a questa regressione cadendo nella psicosi opposta, in un pensiero idealista che vede nella realtà un assoluto ‘dentro’, una proiezione della psiche, o ripristinando credenze magiche o mitologiche. Così v’è da un lato chi pensa che l’io possa esistere senza il mondo e dall’altro chi è convinto che il mondo possa esistere senza l’io.

L’io mediatico
In generale, l’uomo moderno non ha un rapporto equilibrato né col mondo né col proprio io. Sospeso tra passato e futuro, tra storia e progresso, il suo io è assente a sé stesso, sempre preso in faccende frettolose e impazienti. Soffre lo stress di chi non può più vivere nel tempo naturale dell’io-arcaico, in armonia coi cicli lunari e le stagioni, o in quello dilatato dei miti. La sua vita è regolata dal ritmo meccanico, innaturale di un orologio.
Ma ciò che più distingue la società attuale è la creazione di un nuovo tipo di coscienza, conformista e massificata. Una moltitudine di esseri umani fonda la costruzione del proprio io sui messaggi provenienti dai grandi sistemi mediatici. Nel secolo scorso erano giornali, tivù, cinema a influenzare i pensieri e i comportamenti delle masse. Oggi è la Rete a codificarne valori, emozioni, visioni del mondo, creando individui coatti e omologati. Tutto ciò che potevamo chiamare ‘autocoscienza’ è ormai ‘eterocoscienza’, un’organizzazione delle nostre attività psichiche controllata da altri, cui cediamo la libertà di creare e plasmare il nostro io.
Come rispondere dunque alla domanda “chi sono io?”. Si può dubitare che in uno stesso uomo vi sia un io solo o ve ne siano tanti, che l’io esista o no, che sia conscio o inconscio, un dato naturale o un artificio della società, un soggetto ontologico o una semplice funzione del linguaggio, termine collettivo per definire un insieme di mutevoli stati di coscienza, come ‘sciame’ indica un gruppo di api. Neppure possiamo appellarci alla certezza del cogito cartesiano. Potrebbero infatti esserci pensieri senza nessuno che li pensa, come dal fatto che piove non deduciamo l’esistenza di un essere piovoso.

L’io mistico
Tornando a Ugo di san Vittore, credo che usare solo due dei nostri occhi non sia sufficiente. Per conoscersi bisogna aprire il terzo occhio e contemplare, volgersi verso un puro io inattingibile ai sensi e al pensiero. Può allora prodursi una vertigine della ragione, da cui emerge un’intuizione silenziosa. Ma la razionalità, la logica, l’intenzionalità, lo rendono impossibile. Alcuni vi pervengono meditando, altri ammirando un cielo stellato, un fiore, o senza alcun perché. Questo rientrare in sé è in realtà un dimenticarsi di sé, un uscire dal perimetro dell’io attraverso un’apertura inattesa.
Per ora queste esperienze mistiche sono assai rare. Una società materialista le inibisce. Tuttavia io credo sia in atto un lento ma inarrestabile cambiamento di paradigmi. Probabilmente ci troviamo oggi in una di quelle congiunture del “tempo assiale”, come lo definisce Jaspers, che corrispondono a svolte epocali. Dopo aver superato le fasi della magia e della mitologia, l’uomo è chiamato ora a trascendere la sua razionalità. Il che non vuol dire abbandonarla, ma incorporarla in un livello di coscienza più ampio.
Il culto della ragione, iniziato in Occidente duemila e cinquecento anni fa, è ormai alla fine. Alcuni fenomeni di regressione al magico, al mitologico, all’irrazionale, sono in fondo un segno della sua decrepitezza. E lo stato di miseria spirituale, di depravazione della nostra società, è forse lo spasmo di una vecchia coscienza che resiste alla trasformazione, che non vuole aprire il suo terzo occhio. Riluttanza inutile, perché il mondo che conosciamo, coi suoi modelli di pensiero, deve essere necessariamente oltrepassato, e i limiti della razionalità non possono venir superati in modo razionale.
Una forza evolutiva ci spinge oltre, verso il sovra-razionale. Ammetto che, osservando il declino della nostra civiltà, si direbbe sia in corso piuttosto un processo involutivo, che tende a esiti disumanizzanti. I nostri furori scientifico-tecnologici minacciano di distruggerci prima ancora che abbiamo cominciato a conoscerci. Ma questa demenza senile che ha colpito il nostro io razionale può essere l’amara, inevitabile transizione verso il nascere di una nuova struttura mentale, più aperta, libera e pacifica, in cui si fondono armoniosamente io e cosmo, scienza e contemplazione. L’alternativa è la cancellazione della nostra umanità. Quello che il teologo Karl Rahner diceva del cristianesimo vale per tutti noi in generale: in futuro l’uomo sarà mistico, o non sarà affatto.