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L'assassinio di Soleimani: gli Usa varcano la "linea rossa"

di Giacomo Gabellini - 04/01/2020

L'assassinio di Soleimani: gli Usa varcano la "linea rossa"

Fonte: Giacomo Gabellini

L'attacco statunitense con droni Reaper contro l'aeroporto di Baghdad che ha portato alla morte del generale Qassem Soleimani, a capo della forza al-Quds dei Guardiani della Rivoluzione, e di altri otto militari iraniani rappresenta un punto di non ritorno. Non solo in ragione del fatto Soleimani rappresentava al contempo un'icona della Rivoluzione Islamica, il veterano di innumerevoli battaglie e uno dei principali architetti della strategia iraniana in Medio Oriente, ma anche e soprattutto perché attorno alla sua figura chiave tendeva a gravitare l'ala più oltranzista interna all'establishment della Repubblica Islamica. Il generale dipendeva infatti direttamente non dal presidente Hassan Rohani, di cui non condivideva affatto l'approccio moderato e conciliante tenuto con gli Stati Uniti e i loro alleati, ma dalla ben più potente, agguerrita e influente Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei. Del quale, specialmente in seguito al fallimento dell'accordo sul nucleare iraniano imputabile pressoché integralmente all'amministrazione Trump, Soleimani era divenuto l'uomo di fiducia e il principale referente per quanto concerne la gestione delle operazioni da condurre in quelli che Teheran considera i principali teatri sensibili. Non a caso, fu lui a recarsi a Mosca per concordare con Vladimir Putin le strategie da adottare nello scenario mediorientale.
Senza la discesa in campo dei suoi Pasdaran, coadiuvati dalle milizie di Hezbollah e dalla potenza di fuoco russa, la Siria di Bashar al-Assad sarebbe inesorabilmente crollata sotto l'urto jihadista sostenuto dallo schieramento composto da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Turchia e monarchie sunnite del Golfo Persico. Allo stesso tempo, Soleimani non esitò a sfruttare la presenza sul campo dei propri sottoposti per accrescere l'influenza iraniana nel quadrante levantino e a far leva sulle milizie sciite irachene per saldare e rendere permanente l'integrazione della Mesopotamia nella cosiddetta "mezzaluna sciita" che, passando per Damasco, collega la Teheran degli ayatollah alla Beirut di Hezbollah.
Ragion per cui, prendendo di mira un personaggio tanto popolare e potente, gli Stati Uniti hanno commesso un vero e proprio atto di guerra contro l'Iran, giustificato per di più con motivazioni decisamente risibili. Se la tesi a supporto della ritorsione contro l'assalto portato nei giorni precedenti da gruppi di iracheni sciiti – probabilmente manovrati dall'altra vittima illustre del raid aereo Usa, il vice-comandante del corpo paramilitare sciita Kata'ib Hezbollah Abu Mahdi Muhandis – non regge perché manifesta in maniera assai palese la sproporzione tra l'entità dell'offesa subita e della rappresaglia, quella sostenuta direttamente da Trump, secondo cui Soleimani era impegnato nella progettazione di attacchi contro diplomatici e militari statunitensi disseminati in tutto il Medio Oriente, appare ancora più debole. Non solo perché il presidente Usa si è guardato bene dal fornire prove che avvalorino la sua presa di posizione, ma anche e soprattutto alla luce del fatto che contro Soleimani si potevano muovere tante accuse, tranne che fosse uno sprovveduto.
Al contrario, è proprio l'aggressione mossa da Washington con l'assassinio di uno degli elementi chiave della Repubblica Islamica ad incrementare il rischio non di un conflitto di tipo convenzionale, ma di una escalation di azioni asimmetriche dalle conseguenze potenzialmente imprevedibili. Spingendo l'Iran nell'angolo, si costringe infatti la Repubblica Islamica a reagire con un'azione contraria di entità e "peso" proporzionale a quella subita e, di conseguenza, si contribuisce a ricompattare un Paese in cui serpeggiava scontento per via delle sanzioni economiche imposte dagli Usa attorno alla sua guida politica. Nonché a rafforzare le correnti interne più oltranziste di cui lo stesso Soleimani costituiva la punta di lancia, a indebolire l'assennata e raffinata azione diplomatica russa e a irritare ulteriormente la Cina, che si approvvigiona regolarmente di petrolio dall'Iran e sostiene la Repubblica Islamica in quanto segmento fondamentale della Nuova Via della Seta. Senza contare che, per quanto la perdita di un ufficiale dell'esperienza e dell'acume di Soleimani rappresenti indubbiamente un duro colpo per l'Iran sotto il profilo operativo e strategico, si tratta pur sempre di un elemento interno alla catena gerarchica delle Guardie Rivoluzionarie e, pertanto, sostituibile. Nello specifico, Khamenei ha affidato il comando dell'unità al-Quds orfana di Soleimani al suo vice Esmail Ghaani, intendendo con ogni probabilità lanciare un segnale di continuità con il passato. Spetterà presumibilmente a Ghaani il compito di preparare la rappresaglia contro l'attacco statunitense, che a detta di alcuni potrebbe assumere la forma di un blocco dello Stretto di Hormuz o di una intensificazione delle operazioni militare contro strutture petrolifere saudite da parte dei ribelli Houthi.
Di diverso avviso è l'ex specialista di controterrorismo della Cia Philip Giraldi, secondo cui «l'Iran non può lasciare senza risposta l'uccisione di un alto ufficiale militare anche se non può affrontare direttamente gli Stati Uniti militarmente. Ma ci saranno rappresaglie e il sospetto uso da parte di Teheran di proxies per organizzare attacchi limitati sarà ora sostituito da azioni più pericolose [...]. E c'è anche la carta del terrorismo che rischia di entrare in gioco. Nel corso degli anni, l'Iran ha subito una vasta diaspora in tutto il Medio Oriente e, di fronte alle reiterate minacce di Washington, ha avuto molto tempo per prepararsi a una guerra da combattere in gran parte nell'ombra. Nessun diplomatico, soldato o persino turista americano nella regione dovrebbe considerarsi al sicuro, al contrario. Sarà una "stagione aperta" per gli americani. Gli Stati Uniti hanno già ordinato una parziale evacuazione dell'ambasciata di Baghdad e consigliato a tutti i cittadini americani di lasciare immediatamente l'Iraq». Oltre a rafforzare la propria presenza in Medio Oriente inviando circa 3.000 soldati (che vanno ad aggiungersi alle circa 750 unità inviate in Kuwait giorni prima) inquadrati nell'82° divisione aviotrasportata come precauzione di fronte alle crescenti minacce a cui sono esposte le forze americane nella regione. Minacce che sono inevitabilmente destinate a moltiplicarsi in virtù del fatto che l'attacco all'aeroporto di Baghdad è stato chiaramente condotto senza l'autorizzazione del governo iracheno, che con ogni probabilità è richiederà alle forze americane di togliere il disturbo. «Ciò – aggiunge Giraldi – renderà a sua volta insostenibile la situazione per le rimanenti truppe statunitensi nella vicina Siria. E costringerà anche altri Stati arabi nella regione a rivedere l'ospitalità concessa alle forze armate statunitensi».
Ne consegue che l'attacco aereo statunitense presenta non poche controindicazioni, non ultima quella di manifestare la palese incoerenza di Donald Trump, che ha più volte affermato l'intenzione di ridimensionare l'impegno militare degli Stati Uniti in Medio Oriente, e ribadire ancora una volta agli occhi del mondo che, nonostante il loro atteggiarsi a difensori del diritto internazionale, gli Usa continuano imperterriti ad avvalersi dell'assassinio mirato come arma strategica e strumento di lotta politica. Anche nel caso in cui l'obiettivo designato non sia costituito da un talebano che si nasconde tra le montagne dell'Hindukush o da una base di Hezbollah situata in prossimità del Golan, ma da un esponente istituzionale di altissimo livello del potere pubblico di un Paese sovrano. D'altro canto, sul piano più squisitamente geopolitico, per quanto la massiccia presenza militare statunitense in Medio Oriente e la ricementata alleanza strategica con Arabia Saudita ed Israele – i cui servizi hanno molto probabilmente contribuito a fornire le informazioni decisive sugli spostamenti di Soleimani – tenda ad accrescere negli apparati di potere di Washington un forte senso di sicurezza, una mossa azzardata (o «reckless», per citare l'esponente democratica Nancy Pelosi) come quella ordinata dall'amministrazione Trump non potrà che produrre effetti contrari a quelli sperati. Lungi dallo spezzarsi, la catena del potere sciita che connette tra loro Iran, Iraq, Siria, Libano e Yemen ne uscirà rafforzata. A scapito delle monarchie sunnite del Golfo Persico asserragliate dietro all'Arabia Saudita, da cui si è peraltro sganciato oramai da qualche tempo il piccolo ma ricchissimo e influente Qatar, che continua a resistere all'embargo saudita grazie soprattutto al sostegno di Teheran.
Sorge allora spontaneo il sospetto che uno dei moventi più concreti all'origine del raid aereo culminato con la morte di Qassem Soleimani vada ricercato nelle dinamiche di politica interna degli Stati Uniti. Non va infatti dimenticato che le elezioni presidenziali sono ormai alle porte e Trump, alle prese con un maldestro ma ostinato tentativo di impeachment orchestrato dai democratici (che controllano la Camera ma non il Senato), ha tutto l'interesse ad ingraziarsi il favore non solo di quella fetta di elettorato repubblicano da sempre legato all'immagine degli Stati Uniti come superpotenza globale in grado di imporre il proprio volere ai quattro angoli del pianeta, ma anche del complesso militar-industriale (già gratificato con un forte incremento delle spese militari) e dei potentissimi gruppi di influenza filo-israeliani che sperano nell'adozione di una postura più aggressiva nei confronti dell'Iran. Inoltre, «eliminare un generale iraniano è un ottimo sistema per trasformare il tentativo di impeachment in un atto antipatriottico. E se per caso gli iraniani dovessero reagire, ecco una scusa perfetta per trasformare la campagna elettorale in un referendum tra chi vuole difendere l'America (Trump, ovviamente) e chi vuole invece arrendersi.  Non a caso i democratici, che in passato non si sono mai negati guerre e guerricciole, ora contestano il suo operato anti-Iran».