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L'assassinio di Soleimani non cambierà il corso politico del'Iran se non in peggio per l'America

di Fabio Falchi - 03/01/2020

L'assassinio di Soleimani non cambierà il corso politico del'Iran se non in peggio per l'America

Fonte: Fabio Falchi

L'assassinio di Soleimani, perché di assassinio si tratta, è indice di una visione puerile e semplicistica della politica e della geopolitica. E' come pensare di potere abbattere un albero segando un ramo.
Soleimani non era un semplice capobanda ma un "interprete" della politica dell'Iran. L'assassinio di Soleimani non cambierà il corso politico del'Iran se non in peggio per l'America, dato che potrà rafforzare solo quella parte degli iraniani che cerca lo scontro con gli Stati Uniti e con lo stesso Israele (probabilmente non estraneo all'uccisione di Soleimani).
Sia chiaro, Soleimani non era un santo come non lo è l'Iran, giacché in politica i santi non esistono. Da un lato ha combattuto gli islamisti sunniti e l'ISIS, ma dall'altro ha cercato di consolidare l'egemonia sciita cioè iraniana nella regione sfidando direttamente Israele sul piano militare. La guerra in Siria si è così trasformata anche in un conflitto "a distanza" tra Israele ed Iran. E questa è una politica che non porta da nessuna parte perché né indebolisce Israele né contribuisce a risolvere la questione palestinese.
Tuttavia, la strategia israeliana e americana, imperniata sull'uso della forza per costringere l'Iran a cedere sul nucleare, rischia solo di produrre il risultato opposto a quello che Israele e l'America si propongono.
Anche l'assassinio di Soleimani è quindi indice del fallimento della strategia israeliana e americana in Medio Oriente, che sembra ignorare che la guerra è un mezzo per conseguire uno scopo politico a patto che vi siano le condizioni storiche per poterlo conseguire.
Sono invece proprio queste condizioni che sono mutate con l'affermarsi del multipolarismo, ovverosia agire come se il multipolarismo non esistesse non è una prova di forza ma solo indice di una strategia che non si basa più sulla realtà. E la mancanza di realismo è sempre stata un chiaro segno del declino della potenza egemone.
La lotta politica negli USA non è tra dominanti e dominati ma tra gruppi dominanti ossia è all'interno del Deep State.
La lotta non è cioè tra imperialisti e anti-imperialisti ma tra due diverse forme di imperialismo ed è tanto più aspra e perfino non esente da contraddizioni quanto più per l'America è difficile rassegnarsi a fare i conti con il mutipolarismo.
Usando l'accetta si può affermare che da un lato c'è chi ritiene che l'America non tragga più profitto dalla sua politica di potenza e che quindi debba "far valere" la sua potenza solo nelle aree geopolitiche in cui siano in gioco dei vitali interessi americani, dall'altro c'è chi ritiene che solo una politica di potenza a livello globale possa garantire agli USA di difendere i propri interessi vitali.
Trump, per così dire, sta a cavallo di questi due gruppi e punta quasi tutto sul rafforzamento dell'America nel continente americano, sul legame con Israele e l'Arabia Saudita, e sulla ridefinizione del ruolo degli alleati europei nell'ambito della NATO e sotto il profilo economico, lasciando aperta a diverse soluzioni la questione dei rapporti con la Russia e la Cina.
Non vi è una strategia precisa perché il problema di fondo è che l'America non ha più i mezzi e le risorse necessari per attuare una politica di potenza a livello globale, ma al tempo stesso non può rinunciare a questa politica senza rischiare di accentuare il suo declino. E' da questa contraddizione che derivano le contraddizioni della politica di Trump e dello stesso Deep State.