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L’eclissi del femminile

di Livio Cadè - 27/09/2020

L’eclissi del femminile

Fonte: Ereticamente

Osservando l’energia che sostiene il cosmo nel suo perenne ruotare, gli uomini saggi vi hanno scorto due principi opposti e complementari. Poca importa il loro nome. I cinesi li chiamano yin e yang. Noi diremo maschile e femminile, precisando che non esistono separatamente ma solo come membri di una correlazione all’interno dell’Uomo, che è in sé  androgino. Come il dentro e il fuori, il prima e il dopo, il soggetto e l’oggetto, escludendo uno dei due termini anche l’altro scompare. Non esiste neppure un maschile o un femminile assoluto, ma solo una loro mescolanza. L’uomo incarna il principio maschile e la donna il femminile, ma entrambi contengono in varia misura il carattere opposto. Quindi il femminino non è necessariamente una virtù delle donne né il mascolino degli uomini. E quando alludo a uno o all’altro dei due principi, non intendo riferirmi necessariamente a individui di uno specifico sesso.
Per Goethe “l’Eterno Femminino ci trae verso l’alto”. Che il sublime e il divino vadano posti in alto è una tipica idea maschile. La bassezza diviene quindi metafora dell’ignobile. Un’anima non sale in tentazione, vi cade. E si purifica mediante un’ascesi. È il cielo, non la terra, la dimora dei beati. Gli inferi son spelonche sotterranee. Dicendo dunque che l’Eterno Femminino mi trae in basso evoco gorghi di peccato e di passione che mi trascinano al fondo della perdizione. Forse questi atavici preconcetti nascono dalla disposizione degli organi umani: in alto il cervello, ricetto della pura ragione e delle nobili idee, in basso gli organi  sessuali, sede di animaleschi e vergognosi piaceri. Nonostante la profonda sedimentazione di tali pregiudizi, io affermo che il femminino è proprio ciò che ci trae in basso. La sua natura è simile all’acqua, che scorre verso il basso. Il maschile è invece igneo e, come il fuoco, si innalza. Il femminile custodisce il fuoco del maschile e lo alimenta, ma non si perde in cieli infiniti e astratte sublimazioni, poggia sull’umile e solida terra. Il femminile è ciò che ci trae verso la semplice e concreta realtà. Non insegue abbaglianti altezze ma ci addita un’ombrosa profondità in cui calarci. Non invita ad arrampicarsi su scale metafisiche ma a discendere in sé stessi.
Per quanto oggi si abbia un’estrema riluttanza ad ammetterlo, maschile e femminile non dipendono da retaggi culturali, ma manifestano un eterno stato di fatto. Hanno le loro radici non in convenzioni sociali ma nelle leggi dell’universo. Nel loro senso più elementare, sono esplicazioni di un ‘Uovo’ e di un ‘Seme’. Il seme è pluralità e movimento, lotta, penetrazione e conquista. L’uovo è unità, attesa passiva e quieta accoglienza. Il maschile è il viaggio, il femminile è la casa verso cui tendere o a cui ritornare. La ricongiunzione tra i due principi ristabilisce l’integrità dell’Uomo. Ognuno perde la propria identità parziale per fondersi con l’altro in un nuovo essere che è la coppia. Anche se un elemento di tensione è essenziale al rapporto dialettico, in una coppia ideale uomo e donna finiscono per sentirsi una persona sola in due esseri distinti – “la mia anima è intrecciata con la tua come i fili di un tappeto“. Questo è il cuore del mistero e non si può spiegare, ma se ti avvicini lo sentirai pulsare.
Il femminile ha nell’economia dell’essere un’importanza superiore. Per questo la natura e la società gli concedono particolari privilegi. Non solo perché le femmine sono più necessarie alla conservazione della specie. Il femminile possiede una superiore consapevolezza di sé e un maggior eclettismo. Un uomo può restare per tutta la vita legato a una sola immagine di sé, solitamente quella del figlio. Una donna può invece essere vergine e prostituta, madre e moglie fedele, ed essere matura interprete di tutti questi ruoli. Anche nell’educazione della prole, è il legame con la madre che più influisce sul destino dei figli. Inoltre il femminile è più flessibile e resistente del maschile, quindi più forte, anche perché non si cura di nascondere le proprie debolezze. L’uomo è reso vulnerabile proprio dalla sua preoccupazione di apparire forte, e la sua durezza, la sua rigidità, provocano ricorrenti sciagure. Anche se l’antico simbolo del Tao mostra i due principi in perfetto equilibrio, la vita dell’anima richiede dunque una prevalenza dell’elemento femminile. Il contrario inclinerebbe l’uomo alla hybris e alla perdita di cuore. Nel rapporti tra l’umanità e il mondo, una prevalenza di valori maschili determina sempre effetti infausti. Per questo si pregano divinità femminili, perché veglino su di noi.
Si potrebbe obiettare che la donna, più che ottenere privilegi, ha dovuto subire angherie e servitù. Tuttavia questo non esclude la particolare tutela riservata alla donna. Infatti, quando vi sono gravi pericoli, ci si preoccuparsi di salvare le donne. Non per una semplice galanteria. E neppure per semplici considerazioni demografiche. Sarebbe lo stesso con donne vecchie e infeconde. È che l’intuito umano riconosce la superiorità del femminile. E milioni di uomini vengono massacrati in guerre orrende, ma le donne ne sono esentate. Una guerra che uccida indiscriminatamente uomini e donne è un crimine contro natura. E se non vediamo nulla di strano nel fatto che una donna vada in guerra, per ammazzare e farsi ammazzare, significa che la nostra civiltà ha un piede nella fossa. Dobbiamo quindi considerare una follia il tentativo della nostra società di distruggere ed evacuare da sé il femminile, ovvero di conculcare i suoi valori a vantaggio degli aspetti mascolini dell’esistenza. Tale misfatto non va imputato unicamente all’uomo. È la donna stessa, nel suo sforzo di emulare e far proprio il lato maschile dell’essere, a rendersi responsabile di questa mascolinizzazione della cultura e colpevole di un femminicidio metafisico.
La nostra società è un’esaltazione del maschile. Competitività, forza e rapidità, sono i nostri ideali. Le donne stesse vi partecipano e, convertite a questa religione del mascolino, imprimono una torsione innaturale alla femminilità. Son giunte a considerare un’ingiustizia cui ribellarsi non solo le sperequazioni sociali ma le stesse differenze fisiologiche. L’emancipazione della donna si è orientata in larga misura verso una sua virilizzazione, lottando più per i diritti delle donne che per quelli della femminilità. Le rivendicazioni femministe, per quanto legittime, hanno abdicato a una serie di valori femminili per poter condividere i modelli maschili, giudicandoli migliori. Hanno così implicitamente avallato le pretese accampate dal maschile nel governo del mondo. Favorendo una migrazione della natura femminile verso caratteri mascolini, hanno rinforzato gli aspetti già pletorici del maschile della nostra cultura.
Assistiamo così al culto di un sé maschile che è mito di autosufficienza e autodeterminazione. Il femminile diviene per contro il luogo del negativo, dello scarto. È deprecato in quanto espressione della passività, cioè di una condizione incompatibile con una società inebriata dal controllo e dal dominio. Si celebra un maschile potente, proiettato verso conquiste materiali e immateriali. L’aggressività e l’esibizionismo nelle relazioni sociali, nel lavoro, nella comunicazione, sono i sintomi di questa ipertrofia dei caratteri maschili. Ed è desolante notare con quale disinvoltura, come a ostentare rudezza fallica, alcune donne proferiscano oggi turpiloqui e oscenità.
Il femminile rimosso riemerge in forme alienate o degradate. Torna sotto forma di una confusa irrazionalità, di velleitari culti della natura e angosce ecologiste. Come ossessione per il cibo, la cucina, le erbe. Come malinconia delle ‘nonne’, cioè del femminile perduto, con le sue tradizioni e i suoi segreti. Come effeminatezza degli uomini e tendenze isteriche della società. Alla passività naturale del femminile subentra una passività intellettuale ed emotiva delle masse, che cadono in stati di trance, di ipnosi mediatica. La gente si annida nelle forme uterine della Rete, si immerge nel suo avvolgente liquido amniotico. Sviluppa forme di dipendenza da droghe fisiche e virtuali. Dedica una cura ossessiva al corpo e all’alimentazione, ed è terrorizzata dalla morte, definitiva e ineluttabile ipostasi del femminile.
Anche nella politica appaiono le forme malate del femminile: l’accoglienza per i migranti, la tolleranza e il pacifismo imbelle, il prodigare cure materne e risarcimenti alle vittime dell’odio maschile. Alle donne stesse si offrono illusorie riparazioni. Si elaborano appositi riti sociali che potremmo definire ‘capri risarcitori’. Si declamano cioè retorici e ipocriti mea culpa nei riguardi delle donne, inserendole nel canone dei martiri con altre categorie di vittime: neri, ebrei, omosessuali. Ci vengono propinati litri di retorica sulla colpa e il perdono, come un olio di ricino misto a melassa.
La stessa democrazia sembra recipiente di virtù femminili, caste e gentili, opposte all’arroganza maschile di dittatori e regimi autoritari. L’archetipo stesso del padre diventa simbolo del Male, icona del desiderio frustrato e dell’oppressione. Tutto ciò che può venir sospettato di una qualche collusione coi tradizionali paradigmi paterni è dunque vituperato e bandito. I padri non sanno più fare i padri e preferiscono essere amici dei figli. Anche chi, come la Chiesa, ha funzione di guida spirituale, preferisce mostrarsi molle e indulgente di fronte al decadimento dei costumi, per non subire l’anatema di una cultura ferocemente anti-paternalistica. Questa grottesca pantomima, che dovrebbe mostrare una predominanza di valori femminili, in realtà ne dissimula le macerie.
La nostra società ha infatti elevato l’ipocrisia a forma d’arte. Condanna l’aggressività, ma poi sorride compiacente ai massacri. Aborre la violenza ma costantemente se ne nutre e la esibisce. Si invocano pene terribili per gli stupratori e intanto si stupra la natura intera. Si vuol castrare il padre ma si venera la potenza del fallo maschile. Si predica la pace e la bontà, ma i media trasudano guerre, sadismo, morte. Ogni aspetto della vita diviene oggetto di competizione, un sopraffarsi l’un l’altro. La sopravvivenza del più forte è il nostro unico, autentico credo.
In realtà, ogni società sana contiene una percentuale di violenza. Lo stesso atto sessuale implica per il maschio un ‘violare’ la femmina con un gesto di occupazione e di possesso. E la femmina non solo accetta ma vuole essere violata e posseduta. Questo non significa che desideri essere maltrattata, ma che ama sentire la forza del maschio, quella equilibrata padronanza che si pone tra lo stupro e l’impotenza. Non desidera essere invasa da un fallo distruttivo ma da una forza virile e creativa. Come la terra attende la pioggia, il femminile anela ad esser fecondato dal maschile, fisicamente e intellettualmente. Usando un’immagine coranica, è la Tavola che viene incisa dal Calamo, che ne riceve e sigilla la scrittura.
L’amplesso tra maschile e femminile è la rappresentazione di un atto originario in cui il maschio si scinde, scompone e proietta la sua immagine all’esterno, mentre la femmina la accoglie, la riunifica e la vivifica dall’interno. Per questo l’uomo tende a vedere anche nel cosmo una emanazione, un’emissione divina, secondo un’ottica prettamente maschile. Nella sua percezione della vita egli esteriorizza la natura, la vede come una polluzione. Inoltre, poiché il maschio cede alla femmina parte di sé, in lui rimane il senso della separazione e una ferita che solo la donna può rimarginare, riparando l’immagine maschile. Perciò il femminile ama medicare, farsi strumento della  vis sanatrix naturae, e per questo alcune donne si innamorano di uomini che hanno bisogno delle loro cure.
Il maschile, dal canto suo, cerca di ricomporre l’integrità del sé in atti intellettuali ed estetici. Perciò colleziona oggetti, costruisce artefatti, teorie, macchine. Il femminile ama invece ciò che cresce naturalmente, quell’energia segreta, semplice e spontanea, che Hildegard chiama viriditas. Il femminile non teme il vuoto, anzi prende coscienza di sé in una vacuità che vuol essere riempita. Non è ossessionato dai fantasmi del potere e della morte perché si sente matrice e culla della vita. Lo spazio non è per il femminile un territorio da conquistare ma una dimora da accudire. E il tempo non è una freccia impazientemente tesa verso il futuro, ma un regolare e paziente processo circolare.
L’uomo, che nell’atto d’amore si divide, è portatore di una intelligenza analitica, di piani cartesiani e di infinite rette separate tra loro. La donna ha invece un sapere intuitivo e sintetico, più flessibile e sinuoso, capace di ricucire la realtà e reintegrarla nell’unità. La femmina emana una luce crepuscolare, che prolunga le ombre e i misteri, nella quale il maschio teme di perdersi e a cui contrappone la solarità meridiana della ‘conoscenza scientifica’, con la sua rassicurante chiarezza. La femmina è linea di confine tra un visibile e un invisibile che il maschio esita a oltrepassare. Oltre quella frontiera intravede il caos primigenio, il magma originario della vita. Perciò, come Peer Gynt, fugge. Evita il mistero che si cela nella sua stessa anima. Vaga in una ricerca irrequieta, finché non impara ad accettare l’abisso del femminile e la sua ospitale dolcezza. La femmina allora lo accoglie in sé, placa la sua ansia, confina nel proprio corpo lo spazio e reintegra il tempo nella lentezza di ritmi e cicli naturali, in un appagato presente.
Occorre notare che la nostra società non accetta un fatto un fatto perfettamente naturale, ossia l’ammirazione del femminile per il maschile. Non si tratta della cosiddetta ‘invidia del pene’, idea che si basa su un fraintendimento ingenuo e tipicamente maschile. In realtà ogni donna cerca una virilità da ammirare, e nessuna donna può amare veramente un uomo senza ammirarlo. La sua ammirazione ha connotazioni tanto materiali e sensuali quanto simboliche e spirituali. Ma la relazione tra maschio e femmina si svolge essenzialmente sul piano dell’immagine. Il desiderio è infatti evocazione di fantasmi. Il femminile ammira il maschile nel senso che si fa specchio (mirror), si offre come una superficie d’acqua che accoglie e rimanda la sua immagine.
L’anima femminile riceve e riflette l’intelletto maschile come la luna riverbera la luce del Sole. Come la dimensione orizzontale della materia assorbe la luce verticale dello spirito. È attraverso questo rispecchiamento che la donna trattiene in sé l’immagine dell’uomo, la fa maturare e la nutre. Per questo una donna rende migliore l’uomo che ama. E per questo desidera da lui un figlio. Quando la donna ama un uomo, è pronta a seguirlo e a ubbidirgli, e in questo non si sente sminuita. Prova anzi quella libertà che consiste nell’ubbidire alla propria intima natura. Questo accade anche all’uomo, quando il suo lato femminile si pone al servizio di un ideale e vi si abbandona. Questa dedizione crea una tendenza al sacrificio che rende incline al patire più che all’agire.
L’ammirare implica una posizione di inferiorità. Noi ammiriamo infatti ciò che sentiamo superiore. Per questo, ad onta delle convinzioni correnti, nella relazione col maschile il femminile deve avere una posizione sottomessa. Che l’uomo ne abusi, come di fatto avviene, può avere rilevanza pratica ma non è qui essenziale. Infatti, una donna in schiavitù può comunque conservare intatto il suo femminile mentre una donna libera ed emancipata lo può perdere. Questa posizione più bassa – infera – del femminile non è imposta dalla società ma attiene al suo ruolo naturale. È un porsi sotto come quello della terra rispetto al cielo. Non indica minor importanza o valore. Anzi, la sottomissione, il farsi fondamento del maschile, conferisce alla donna un potere sull’uomo.
Questa sottomissione spaziale ha natura metafisica. Nella sua posizione di inferiorità, la femmina raccoglie le immagini che l’uomo disperde, come la valle raduna le acque dei monti. Ponendosi ‘sotto’ il maschile, il femminile in realtà ne regge il destino. Diviene il perno intorno a cui la ruota maschile gira, e ne dirige invisibilmente il movimento. Come dice Laozi: “la femmina con la calma vince sempre il maschio, ponendosi quietamente in basso”. Il maschio deve consegnare la sua immagine alla femmina perché la accudisca, come in uno scrigno spirituale. In questo modo, affidandosi al femminile, l’uomo sente infine la donna come carne della propria carne e anima della propria anima. Se il femminile si chiude in se stesso e si nega al rapporto d’amore, diviene specchio di immagini sensuali e senza calore, nel quale il maschile riflette la propria impotente solitudine. Uomo e donna restano allora incatenati agli aspetti materiali e carnali, cioè diabolici, della sessualità.
Dall’eclissi del femminile nascono anche i vaneggiamenti di autosufficienza erotica e generativa di uomini che vogliono figli senza madre e donne che vogliono essere madri senza conoscere uomo. Occorre osservare come la mascolinizzazione del femminile costringa il maschio a iper-mascolinizzarsi. Per poter affrontare donne virilizzate l’uomo rafforza i suoi caratteri di aggressività e durezza. Oppure reagisce sviluppando caratteri femminili, che lo proteggano dall’urto della competizione con loro. Ma  un prevalere di aspetti femminili nell’uomo spinge la donna a farsi ancora più virile, in un circolo vizioso. Paradossalmente, l’eccesso del principio maschile ne causa il collasso. Non più contenuti e incanalati negli argini del femminile, i suoi stessi valori fanno naufragio.  La nostra società si trova così compressa tra un cattivo maschile un cattivo femminile.
Il maschile impone al mondo una dittatura di apparati scientifici, industriali e tecnologici. La coscienza collettiva delega all’emisfero maschile ogni importante decisione. La cultura diventa cultura del maschile, pensiero che ricusa la femminilità, nella sua natura notturna e lunare, a favore di modelli illuministici totalmente maschili. La morte viene esorcizzata con i miti del progresso e della crescita inarrestabile. Al misticismo e alla fede si contrappone una magia onnipotente che vuol signoreggiare la vita con la forza della razionalità e delle macchine.
L’umanità sprofonda nei sogni megalomani del sapere e del fare maschili, ovvero nel parossismo dell’informazione e dell’iperattività. A ciò dobbiamo il declino dell’arte, della poesia, della musica, tradizionali espressioni del femminile. L’iper-eccitazione maschile rifiuta le lente e pazienti incubazioni, quel recettivo e femminile concedersi allo spirito che sono prerogative dell’artista e del poeta. E ciò spiega la bruttezza che ci circonda, l’involuzione dei linguaggi, l’atrofia dell’immaginazione, lo sterile esibizionismo della tecnica. Questa dissoluzione del femminile porta così all’agonia della bellezza.
Scienza e tecnica, nella loro percezione frammentaria e meccanica del reale, si pongono come principi assoluti di identità maschile, negazione del mistero femminile e della sua libertà. La medicina, la biologia, la genetica, divengono tentativi violenti di estorcere al femminile i suoi segreti e di ridurlo a forme di schiavitù tecnico-razionale. Alla creazione si vuol opporre la fabbricazione, ai processi naturali quelli produttivi dell’economia e della tecnica. Ma razionalità e potere sono anche i talismani con cui il maschile si difende dall’angoscia dell’impotenza e della castrazione. La ferita dell’essere non viene guarita con una riunificazione ma si ulcera in una congerie di immagini sconnesse. All’ipertrofia del maschile corrisponde il regno della molteplicità, dei numeri, delle statistiche, delle innumerevoli parcellizzazioni e specializzazioni del sapere, in cui svanisce l’Unità del reale.
Il prevalere di forme maschili nella nostra cultura non è un problema che si ponga oggi per la prima volta. Che l’uomo tema la propria femminilità e se ne difenda, è un dramma antico. Ma è la donna stessa a disprezzare oggi il femminile, a trasformarlo in un surrogato della virilità, deformandone gli archetipi eterni. Perciò sempre più frequenti appaiono nella nostra cultura le fantasie su futuri orrendi, dominati dai demoni maschili dell’iper-scienza, dell’iper-tecnologia, dell’iper-controllo. O da quelli del caos e dell’assurdo, aborti di un femminile degradato. È perfettamente inutile illudersi che riforme politiche, economiche o sociali possano salvarci, finché maschio e femmina non ritroveranno un equilibrio naturale. Senza il femminile,  lo stesso maschile non potrà più esistere. La sua eclissi causerà l’oscuramento dell’eros, la superficialità delle passioni, l’estinguersi di ogni profondo romanticismo. Allora, persone solo anatomicamente differenziate, o dall’identico genere, o di un sesso indefinito, cercheranno con vani artifici di rispecchiarsi, penetrarsi e fondersi, grottesche caricature dell’amore.